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Lorenzo Negri L’uomo sbagliato


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Dopo qualche minuto e numerose bestemmie, provocate dal fastidio delle ragnatele e dalla paura delle grosse pantegane scorazzanti nel sottotetto, rivide la luce nella stretta Via Gentilino.

Provò ad immaginarsi quei poveri agenti in vana attesa davanti al portone sulla Col di Lana, intenti a gingillarsi con i loro marchingegni elettronici, quindi si incamminò fischiettando verso i Navigli con l’intenzione di raggiungere la Via Vigevano e l’abbaino di Fulvio.

Di sicuro Fulvio stava ancora dormendo, ma appena riacquistata la lucidità avrebbe compreso la gravità della situazione e si sarebbe messo in pista per soccorrere il comune amico.

Fulvio aveva mille talenti e avrebbe potuto riuscire sia come attore che come musicista o scultore o pittore ma anche come uomo di sport.Aveva praticato la box, la scherma e le arti marziali giapponesi.

Ultimamente insegnava disegno anatomico all’Accademia di Brera.

La sua vita sentimentale era stata ancor più sregolata e burrascosa di quella di Marco, per via del grande fascino che esercitava sulle donne di tutte le età, con la sua voce da basso, il naso schiacciato da boxeur, un fisico da peso gallo e un appetito sessuale davvero esagerato.

S’innamorava solo delle donne che non poteva avere e lasciava a tutte quelle che cascavano ai suoi piedi l’impossibile compito di lenire le sue sofferenze.

Da quando si alzava dal letto, verso il primo pomeriggio, fino all’alba seguente non stava mai fermo.

Suonava, parlava , beveva vino rosso, arrotolava spinelli, insegnava, si allenava, cucinava, scopava, restaurava mobili e dipingeva. Dipingeva ovunque e su qualsiasi superficie.

Il minuscolo abbaino in Via Vigevano era completamente coperto di quadri, affreschi , schizzi.

Dipingeva anche sugli armadi e quando non aveva più spazi imbiancava una parete e ricominciava.

Anche lui,come Marco, era diventato un animale da tana.

Usciva solo per insegnare, per allenarsi, per procurarsi il fumo e il vino. Poi si rinchiudeva in quei pochi metri quadri d’abitazione, completati da un gran terrazzo sul quale nelle giornate belle spendeva le sue ore, perso in ogni genere di studi. A differenza di Marco, riceveva spesso visite di amici ed amiche e conversava a lungo al telefono. Spendeva sempre più di quel che guadagnava e si ritrovava costretto a chiedere favori ad amici e parenti. Favori che era sempre pronto a ricambiare risolvendo con semplicità quelle che per altri sembravano imprese impossibili.

Per aiutare Marco, secondo la diagnosi del Dottor Ferrigno, Fulvio era il più adatto. .

Il dottore si fermò all’Osteria del Pallone, si fece portare una birretta ad un tavolo lungo il canale e scrisse tutto quel che a Fulvio serviva sapere sui fogli del suo ricettario. Appena presi i necessari accordi avrebbero fatto incontrare Fulvio e Marco in una città del centro Italia, da lì avrebbero raggiunto insieme il punto convenuto per l’imbarco.

Chissà se Edo era riuscito a fare quel che doveva senza farsi cuccare dai poliziotti?

Quanto stavano veramente rischiando?

Non sarebbe stato più sensato arrendersi invece di fare gli eroi?

Certo che lo era. Più sensato, più logico, più regolare.

Più giusto?

Non c’erano scelte.

Arrivato in Via Vigevano s’infilò nel portone sfruttando l’uscita di una coppietta di adolescenti tutti presi dalla voglia di sbaciucchiarsi. Con l’ascensore raggiunse il quinto piano, poi salì la rampa che portava al sottotetto.Bussò e suonò il campanello ripetutamente.

Dopo qualche minuto l’uscio si schiuse e dal buio dell’interno apparve Fulvio in mutande

-Cazzo Gigi , ti sembra il caso di andare a rompere i coglioni alla gente in piena notte?

- Sono le dodici e venti, per te è notte, ma per gli altri è quasi ora di pranzo.

- Che cazzo dici, sei fumato?

- No, sei tu che stai poco bene ed io sono venuto a portarti questo pacco di ricette.

Fulvio si trovò con il mazzetto di fogli del ricettario zeppi di istruzioni per l’uso.

- Deve trattarsi di un caso molto grave se hai scritto per me tutte queste prescrizioni.

- Più che grave, senza speranza .

- Sono senza Speranza, senza Grazia e senza Gioia, senza Rosa e senza Bruna. Son giorni che non scopo e sto diventando matto. Non hai mica una medicina contro la sfiga?

- Come no, se mi fai entrare ce ne prendiamo una bella dose tutti e due.

Una volta all’interno Gigi aprì le persiane, fece entrare aria fresca e un po’ di luce .

Quel che veniva illuminato rivelava uno stato di avanzata trascuratezza.

Fulvio, usando il braccio come una spazzola sgomberò il tavolo ingombro dei più disparati oggetti.

- Caffè?


- Si grazie.

Mentre Fulvio aggeggiava con la moka, Gigi liberò una sedia e prese posto al tavolo.

- Mi spieghi che cazzo sono quei fogli che hai scritto.

- Spiacente, sarai costretto a leggerli. Meglio che aspetti di essere ben sveglio. Sai niente di Marco ?

- No. È da un pezzo che non lo sento.

- Ma non hai visto la tv prima di addormentarti ieri notte?

Fulvio prese a ridere e a tossire.

- La mia televisione si è incantata e trasmette solo l’intervallo. Vieni a vedere.

Gigi lo seguì nella stanza da letto.

Del vecchio 24 pollici era rimasto solo il mobile all’interno del quale Fulvio aveva dipinto un paesaggio alpino, con vacche pezzate ritagliate nel cartone per creare un effetto tridimensionale.

Era iperreale e al contempo très naif. Costringeva al sorriso.

- Perché l’hai fatto?

- Perché quando ero ragazzo l’intervallo era l’unica trasmissione che non mi deprimeva. Adesso non c’é più nemmeno quella.

- Uno di questi giorni ti faccio ricoverare.

- Non puoi, i manicomi sono chiusi da un pezzo.

- Per te li farò riaprire. Puoi scommetterci.




Capitolo decimo
In un primo momento la neobattezzata Lila, la cagnetta trovata da Marco Bacci in Santa Croce, aveva scodinzolato senza soluzione di continuità, felice di aver trovato qualcuno che invece di scacciarla in malo modo la coccolava e la blandiva in continuazione.

Con la sapienza accumulata in tanti anni di peripezie canine, l’animale sapeva già che prima o poi tutto sarebbe finito, come era già successo troppe volte.

Di certo non si immaginava di dover subire nel breve volgere di una mezzora l’umiliazione di un collare con guinzaglio e museruola che fu costretta ad indossare per salire su un autobus Sita diretto a Poggibonsi . Però si adattò di buon grado a quelle restrizioni perché il suo nuovo padrone la riempiva di coccole e le aveva anche servito un succulento doner kebab in una vaschetta di plastica. Il miglior modo per suggellare una duratura amicizia.

Mentre Lila si allungava sotto il sedile, Marco Bacci sonnecchiava e si godeva il paesaggio.

Da quando era giunto in Toscana si era sentito come rinascere, aveva ripreso a sperare e si rendeva anche conto che l’incontro con quella cagnetta ed il non vedente gli aveva alleggerito l’animo Cominciava ad illudersi di poter trasformare quella fuga in un’interminabile vacanza.

Arrivati in uno dei borghi più antichi della Valle dell’Elsa, scesero nei pressi della porta meridionale.

Lila, di nuovo libera, si mise subito a sgambettare impettita verso ovest, quasi sapesse dov’erano diretti, precedendo di qualche metro il suo padrone che, come gli era sempre successo, aveva bisogno di soffermarsi alcuni minuti a contemplare le vecchie pietre con cui era stato costruito il borgo.

La strada che Marco e Lila avevano imboccato, per un primo tratto era asfaltata e costeggiata da entrambi i lati da una fila di basse casette, poi diveniva sterrata e alle abitazioni si sostituivano querce e cipressi. Prima di raggiungere una macchia di canne al di là della quale cominciava il sentiero che conduceva a casa di Frank e Jenny incontrarono uno straniero, probabilmente alloggiato in una delle tante cascine che integravano il lavoro della campagna con delle attività di agriturismo.

L’uomo sembrava uscito da una stampa d’epoca, vestiva con pantaloni di velluto alla zuava che stringevano sotto il ginocchio dei grossi calzettoni di lana grezza, indossava una camicia a scacchi rossi e blu e sulla testa portava un basco di lana anch’essa blu con un grosso pompon rosso.

Aveva guance rubizze e grossi favoriti che una volta erano sicuramente stati biondi.

Teneva nella sinistra un bastone di legno intagliato e sulle spalle un piccolo zaino di tela e cuoio.

Ci si sarebbe aspettati di sentirlo canticchiare Old Mc Donald had a farm ya ya ho .

Invece si rivolse a Marco in francese.

- Bonjour monsieur.

- Bonjour à vous.

- C’est à vous le chien?

- Oui, c’est ma chienne.

- Oh la la ! Je suis sure qu’elle est super pour les lievres.

- Je ne sais pas, je l’ai trouvée seulement ce matin et par contre je ne fairait jamais de la chasse.

- C’est vrais que vou l’avez trouvée ce matin ?

- Oui.

- Quelle bonheure ! Quelle bonne chance !- l’uomo si accovacciò e prese tra le mani il musetto del cane- T’as vu ? Hier sans espoire et aujourd’hui avec une nouvelle maison dans le coin le plus beau du monde. Pas mal, n’est pas?



Lila lo leccò sul naso.

Il pittoresco francese, divertito si rialzò e si volse al padrone con un sorriso surreale.

- Il y a des surprises dans la vie, quelques fois étonnantes.

Salutò con un gesto che tradiva consuetudini militari e si allontanò dirigendosi verso il paese.


Senza alcun genere di saluto il Dottor Ferrigno fu bloccato e ammanettato da quattro individui armati mentre si accingeva ad entrare nella sua Toyota parcheggiata come di consueto a cavallo di un marciapiede.

L’ironia della sorte volle che la brusca cattura avvenisse proprio mentre il medico si stava rallegrando per l’assenza di contravvenzioni sotto ai tergicristalli.

Solo dopo essere stato spinto dentro un’anonima Alfa 164 grigio sporco, venne informato di essere stato catturato da agenti della Digos e di trovarsi in stato di fermo.

Giunto in questura venne a sapere che la stessa sorte era toccata anche ad Eduardo Sansone.

Entrambi vennero interrogati, in stanze separate.

Ad entrambi venne riferito che l’altro aveva già ammesso la loro appartenenza al gruppo dei Global Warriors e la loro partecipazione al piano per assassinare Franco Faggioni e far fuggire Marco Bacci e Amaranta Blanquez.

Entrambi negarono tutto, si dichiararono ignari dell’esistenza del gruppo, si rifiutarono di sottoscrivere le deposizioni loro attribuite, chiesero di essere assistiti da un avvocato e di avvisare i loro famigliari.

Solo quest’ultima richiesta venne esaudita.

Nella sua cella Amaranta Blanquez aveva potuto rivolgere le sue richieste solo all’Altissimo.

Per lunghe ore nessuno aprì la porta metallica dietro alla quale non si percepiva alcuna presenza.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo avesse già trascorso lì dentro, quando cominciò a sentire il rumore di una chiave nella serratura, c’era finalmente qualcuno che armeggiava con i chiavistelli.

Per istinto cercò di coprirsi i seni con le braccia, ma subito preferì mostrarsi nella sua nudità totale piuttosto che assumere una posizione così goffa ed umiliante.

La porta si aprì e lo spazio fu invaso dalla sagoma imponente dell’infermiere che l’aveva sequestrata..

Lei nuda e seduta in un angolo, lui vestito di pelle nera, con una rivoltella nella destra ed un sacchetto di carta nella sinistra.

Lei aveva uno sguardo da cerva ferita ed intrappolata, già predisposta alla morte.

Lui aveva gli occhi spenti, privi di sentimenti. Era un automa pronto ad uccidere.

- Chi siete? Che volete da me?

Per tutta risposta l’uomo sollevò il braccio sinistro e fece cadere il sacchetto di carta che si squarciò. Sul pavimento rotolarono una bottiglia di acqua minerale, due mele e una pagnotta.

L’infermiere motociclista avrebbe voluto vederla gettarsi famelica verso quel misero pasto.

Amaranta non si mosse, si sforzò di trattenere le lacrime e domandò ancora.

- Perché?

Una smorfia di disgusto prese forma su quella testa di pietra, seguita da uno sputo parabolico che raggiunse la donna in pieno volto.

Amaranta rimase immobile, limitandosi a chiudere gli occhi.

Sentì la porta sbattere e lo scatto delle serrature.

Attese ancora qualche istante trattenendo il fiato e poi si lasciò andare ad un pianto dirotto.

- C’è nessuno? Ohi ! C’è nessuno in casa?

La casa era aperta, ma vuota.

La macchina di Frank, una Opel piuttosto datata, era parcheggiata in un angolo dell’aia.

Marco Bacci e Lila fecero un giro dell’abitazione senza incontrare nessuno.

Probabilmente Frank e Jenny erano andati a fare un giro a piedi o a sbrigare qualche lavoro nei campi.

Non poteva certo aspettarsi di trovarli in casa in uno splendido pomeriggio domenicale, con il cielo di metà settembre di un azzurro intenso che invitava a perdersi tra gli oliveti e le vigne .

Trovò un secchio e lo riempì d’acqua fresca per permettere a Lila di dissetarsi, poi entrò nuovamente in casa con l’intenzione di scrivere un biglietto ai padroni ed andarsi a nascondere nel vecchio caprile.

Una volta entrato, non seppe resistere alla voglia di sentire un poco di musica.

Lo stereo era già acceso, schiacciò play e un sitar cominciò a tessere nell’aria un classico Raag.

Per Marco era quasi impossibile sottrarsi alla fascinazione di quelle musiche .

Frank sicuramente le usava per esercitarsi con gli strumenti a percussione da lui stesso fabbricati.

Jenny le teneva come sottofondo per le sue meditazioni. A Marco quelle note procurarono un immediato desiderio di riposarsi e lasciar andare una parte della tensione accumulata.

Non riuscì a resistere alla tentazione di allungarsi un attimo sul divano, davanti al camino angolare.

Amava quella vecchia casa colonica recuperata con pazienza ed ingegno dai suoi amici.

Tutti la mobilia era stata costruita da Frank, con criteri di praticità ed essenzialità coniugati all’ecologia dell’arredamento.

Nell’allegro disordine che regnava nella stanza si potevano trovare testi di yoga e di ayurveda, ricette macrobiotiche e trattati di feng-shui, ricerche sull’utilizzo delle biomasse e studi di bioarchitettura.

Insomma Frank e Jenny facevano di tutto per cercare di costruirsi un’esistenza in armonia con il cosmo ed in pace con l’umanità.

- Che cazzo ci fai tu qua?

Marco si era assopito e quell’urlo inatteso lo fece morire di paura.

Jenny stava di fronte a lui con un cesto colmo di fichi sotto il braccio e gli occhi che sprizavano scintille di autentico furore.

Con un gesto nettissimo del braccio libero gli indicò la porta più vicina.

- Sparisci immediatamente o chiamo i carabinieri.

Non li arvrebbe mai chiamati. Aveva troppa paura che le sequestrassero le sue amatissime pianticelle di cannabis sativa.

Però era evidente che non voleva tendergli una mano e farsi coinvolgere in quella brutta storia.

Discutere era del tutto inutile. Il peso della frustrazione e del dispetto schiacciavano Marco contro il materasso in futon ..Alzarsi non fu facile.

- Capisco. Avete saputo.- scosse la testa sconsolato- Le cose non stanno come credi, comunque calmati. Ce ne andiamo lo stesso e subito.

Le parole di Marco ottennero di far inalberare Jenny ancora di più.

- Come ce ne andiamo? Non sei venuto solo. Ma che bella sorpresa! Ti sei pure portato dietro qualche fuorone del tuo gruppo, qualcuno di quei pazzi assetati di sangue. Non ho mica paura delle vostre armi io. Andatevene immediatamente. Tutti quanti! E portate la vostra maledetta artiglieria il più possibile lontano da qui. Come se non ci fossero abbastanza guerrafondai a giro per il mondo.

- Jenny, non so cosa dicano sul mio conto. In ogni caso non ho fatto male nemmeno ad una mosca. Almeno non consapevolmente. Chiaro? E poi non so di quale gruppo vai parlando e a quali armi ti riferisci. Sono venuto soltanto con lei, e come vedi nessuno dei due porta armi.

Jenny vide lo sguardo di Marco rivolto a qualcuno alle sue spalle e si voltò di scatto convinta di ritrovarsi faccia a faccia con Amaranta.

Lila se ne stava seduta, tutta impettita, in una posa da vera signora e per mostrare di essere venuta in pace cominciò a battere la coda sul vecchio tappeto turco.

Era così carina che avrebbe fatto sorridere anche il Savonarola.

- E questa da dove sbuca?

- L’ho trovato a Firenze in piazza di S. Croce.

- Tutti i telegiornali parlano di te, dei tuoi piani sovversivi, della tua banda armata, sei considerato più pericoloso di Bin Laden. Ti immaginavamo braccato da tutta la polizia del mondo, Eravamo in pena per te e per le tue vittime. Invece tu te ne stavi a fare il turista a Firenze, come se niente fosse.

- Come se niente fosse è un po’ esagerato. Se fossi stato a mio agio mi sarei guardato intorno meglio e forse avrei visto che anche il Mullah Omar stava facendo la coda per entrare agli Uffizi.

Risero, si abbracciarono, piansero.

- Giurami che non è vero niente. – pretese Jenny, mentre gli bagnava di lacrime il collo.

-Te lo giuro.

Rimasero così per qualche secondo, con Marco che le strofinava la schiena e le accarezzava la nuca sorpreso a ritrovarsi nel ruolo di consolatore, avendo lui stesso così bisogno di consolazione.

Lila decise che era ora di finirla con quelle effusioni che la escludevano e piazzò le sue zampe anteriori nella schiena di Marco, con un impeto tale da provocare dolore, stupore e nuove risate.

Jenny prese del pane e un pezzo di formaggio, due bicchieri ed un coltello.

Li mise in un vassoio di legno e diede il tutto a Marco.

- Aspettami sotto la veranda. Ti raggiungo con il vino e i fichi.

Senza essere stata invitata Lila prese posto sulla panca accanto a Marco e si preparò allo spuntino.

- Raccontami tutto.- disse Jenny versando due calici di rosso.

- Prima dimmi tu cosa sai. Perchè io so che mi accusano di aver ucciso il marito di Amaranta. Ma tra le tue urla mi è sembrato di capire che avrei combinato anche altri casini.

- Alla faccia dei casini. Ieri sera stavi tentando di far saltare in aria un ipermercato dalle parti di Pavia. Questa mattina hai fatto fuggire Amaranta dalla clinica in cui era sotto sorveglianza. Il tuo gruppo ha riempito di scritte chiese e monumenti tra Milano e Roma.

Quale sarebbe il mio gruppo?

- I Global Warriors.

- Mai sentiti.

-Terroristi ecologisti animalisti terzomondisti mangiapretisti multietnici, Sei il loro capo.

-.Non credo, non so neanche dare ordini a questa cagnolina e metterla al suo posto invece che lasciarla tranquillamente a tavola con noi. Figurati se riuscirei a guidare un gruppo armato.

-Secondo me ci riusciresti benissimo. Incazzato come sei. Quando sei venuto qua l’ultima volta sembravi una bomba innescata. Ho pensato che fossi pronto a diventare un terrorista.

- Tutto qua? Non c’è altro? -domandò Marco senza riuscire ad essere spiritoso.

- Certo che c’è? Oltre alla polizia sembra che tu abbia conti in sospeso con dei malavitosi. Per ritorsione hanno malmenato una tua collega che è sospettata di essere una del vostro gruppo.

- Oddio! Chi?

- Non ricordo.

- Jenny è pazzesco. Cosa sta succedendo?

- Speravo che me lo dicessi tu.

-Non ci capisco niente.

- Nemmeno io- proseguì sconsolata Jenny – Qualcuno ha parlato di prove, di intercettazioni, di pedinamenti. Sembra che vi tenessero sotto controllo da un pezzo.

- Questo e vero e lo sai, ne abbiamo già parlato. Ma credevo che fosse solo per impedire ad Amaranta di separarsi dal marito. Per tenermi lontano da lei, per ricattarmi. Credevo che potessero ritenersi soddisfatti dall’avermi fatto buttare fuori di casa da mia moglie e messo nell’angolo.

- A proposito. Tua moglie è stata ripresa questa mattina, mentre usciva con la sua auto da una stazione dei carabinieri, in un paesino della Val Sesia, almeno così mi è parso di capire. Sembra che si trovasse là con un gruppo di canoisti. Fotografi e reporter le stavano bloccando la strada per estorcerle qualche commento. Lei è uscita dalla macchina e li ha presi a pagaiate.

- Non stento a crederlo.- la situazione era sempre più incasinata- Ma ora cosa posso fare? Devo assolutamente andarmene o finirete nei guai anche voi.

Lila si mise ad abbaiare e dopo qualche secondo comparve Frank.

Sul viso ossuto, sotto i baffi da topone, comparve subito un sorriso.

- Ma guarda che bel quadretto! – disse mentre si avvicinava .

Mise una mano sulla spalla di Marco e gliela strinse per fargli sentire erano ancora amici.

- Questo cagnetto è con te?

- Sì , ci siamo conosciuti questa mattina. Si chiama Lila.

Frank cominciò ad accarezzarla.

-Davvero si chiama Lila? Lo hai scelto tu questo nome?

-No. Lo ha scelto un cieco che stava con me.

- Sai cosa vuol dire?

- Non credo che voglia dire nulla.

- In qualche lingua indiana, forse in Indù, si usa questa parola per indicare i capricci degli dei, l’imprevedibilità del destino, l’imponderabile.

- Un nome adatto a questa situazione- disse Jenny allungando il bicchiere a Frank.

Frank bevve un sorso e poi guardò Marco negli occhi, quasi volesse leggergli nell’anima.

- Mi farebbe piacere sapere quali dei e quali capricci hanno stravolto la mia vita. Sono nei guai Frank.

- Guai grossi, mi sembra. Ma se la volontà degli dei è inconoscibile e non si può che rassegnarsi, per quel che riguarda le nostre vite coltiviamo l’illusione di poter risolvere qualche problema utilizzando la nostra piccola mente per riflettere su ciò che ci accade. Raccontaci tutto Marco, con tutta la sincerità possibile. E speriamo che gli dei abbiano un po’ di pazienza e non ci travolgano subito.

-Forse è meglio che vada via immediatamente. Se mi trovano qui finirete nei guai.

- Se verranno fin qua prima che noi si abbia avuto modo di denunciare la tua visita, finiremo comunque nei guai. Allora, vuoi per favore farci sentire la tua campana?

Marco si versò dell’altro vino e cominciò a parlare.

Gaetano Cascione e sua moglie Luciana approfittarono del pomeriggio di sole per fare due passi nei giardini di Porta Venezia.

Il posto era affollato da cani, bambini, famiglie di ogni genere e razza che cercavano come loro un angolo di verde nel centro della città.

La presenza di tante persone non impedì a Gaetano e Luciana di comportarsi nel modo in cui si comportano gli innamorati quando vanno al parco. Camminavano allacciati, si tenevano per mano, buttavano pane secco alle paperette. Il loro innamoramento durava da quasi vent’anni ed era forte e robusto come i tronchi degli enormi ippocastani sotto i quali si erano seduti di tanto in tanto.

Come tutti gli innamorati si comportavano da incoscienti e facevano progetti per il loro futuro.

Luciana aveva accolto la decisione di Gaetano come la migliore delle notizie.

Più volte aveva tentato di far capire a suo marito che l’incomprensibile malattia da cui si era a stento ripreso, poteva essere la reazione del suo organismo ad una professione diventata troppo diversa da come era stata immaginata e sempre più lontana dagli ideali di legge e giustizia con cui era cresciuto.

Senza nessuna paura per l’incertezza economica, Luciana cominciò a sfornare una quantità di progetti.

Li aveva coltivati nei suoi indicibili sogni, in quei film ad occhi aperti che proiettava sul soffitto della camera matrimoniale, nelle notti che suo marito aveva passato in servizio o nella stanza di un ospedale.

Lei e suo fratello avevano una vecchia casa nell’interno della Gallura. Si sarebbero trasferiti laggiù e ne avrebbero fatto un centro culturale. Gaetano si sarebbe occupato dell’organizzazione. Avrebbero dato vita a seminari di danza, invitando maestri e coreografi da tutto il mondo. Avrebbero organizzato spettacoli di teatro-danza con ambientati tra le scogliere. Il pubblico avrebbe seguito le performance sorseggiando vermentino a bordo di barconi ancorati in rada. D’estate avrebbero danzato tra gli olivi e d’autunno tra le foglie delle sughere che cadendo avrebbero creato magici effetti cromatici.

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