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Lorenzo Negri L’uomo sbagliato


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Allo stesso tempo era evidente, anche dalle parole di Fulvio Santerno e dagli appunti del Dott Ferrigno, che la storia dei GW fosse stata incollata in modo posticcio sulle vicende di Marco Bacci ed Amaranta. Come già Cascione, anche Gatto e Carbone erano ora convinti che tutta la vicenda ruotasse attorno ai Faggioni e che gli uomini di Cozzi fossero mossi come burattini da fili destinati a restare invisibili.

-Se provassimo a parlare con Galante ?- buttò lì Carbone.

- Sarebbe come dire che lasciamo a lui decidere.- rispose Gatto con una punta di dispetto.

- D’altra parte è lui il capo della nostra squadra.

- In questo momento noi non siamo la squadra anticrimine, siamo quattro poliziotti cocciuti che agiscono al di fuori della legalità.

- Ispettore, è arrivato Peruzzi. Scendo ad aprirgli.- gridò Ruvolo già fuori dalla porta.

- Adesso che siamo in cinque, forse possiamo fare un’assemblea - ironizzò Gatto.

Tutti, tranne l’ammanettato Folgore si accesero una sigaretta e dal terrazzo si levò una nuvola di fumo.

Maglio fumava seduto in poltrona senza perdere d’occhio il prigioniero.

- Vuò fummà?- gli domandò tendendo verso quelle labbra serrate la sua cicca.

Neppure quella cameratesca offerta ebbe risposta.

Ruvolo era già di ritorno con il nuovo arrivato.

Appena Peruzzi mise piede nell’abbaino, strabuzzò gli occhi e cominciò a bestemmiare.

-Maremma maiala- concluse- ma lo sapete chi è codesto costì?

Peruzzi aveva il senso della teatralità e prolungò ad arte la pausa per ottenere un massimo di tensione.

- Codesto costì gli è quel bischerone d’infermiere che si è portato via la signora dalla clinica.

Mentre tutti gli sguardi si spostavano da Peruzzi all’uomo allungato sul tappeto, alcuni sommessi singhiozzi cominciarono a scuotere il possente corpo del gigante ammanettato.

A quasi quattrocento chilometri di distanza piangeva un altro uomo.

Marco Bacci aveva raccontato tutto ai suoi amici, si era svuotato completamente.

Infine esausto era crollato, dando la stura ad un pianto consolato in mille modi da Frank e Jenny e osservato con attenzione dagli occhi saggi e compassionevoli della vecchia Lila.

Quando, dopo abbracci e tisane, il pianto fu placato, Frank aveva tirato le conclusioni.

- Ti stanno usando. Qualcuno aveva bisogno di scatenare un polverone per screditare i movimenti della sinistra radicale e tu eri perfetto. Fuggendo hai fatto il loro gioco e ora da latitante gli servi ancor di più.

- Non credo che potrei sopravvivere a lungo in galera.

- Sei tu che devi decidere. Se vuoi davvero espatriare non credo che incontrerai grossi ostacoli. Secondo me stanno solo facendo finta di cercarti perché gli servi più come latitante. In ogni caso devi trovare il modo di far sentire la tua voce, di raccontare quello che hai detto a noi. Devi parlare a qualcuno che ti possa proteggere, ma anche cercare i responsabili dei crimini di cui ti accusano. Ti suonerà assurdo, ma la galera mi sembra il posto più sicuro per te. Se riuscissero a farti sparire o a far sembrare che qualche malavitoso ti abbia eliminato per regolare una sporca faccenda, per quelli che muovono i fili di questa vicenda, la tua fine sarebbe una vera manna. Devi trovare un poliziotto disposto ad ascoltarti e a provvedere affinché ti proteggano e ti garantiscano un giusto processo.

-Esisteranno anche dei poliziotti onesti, no? – s’intromise Jenny che nel frattempo si era messa a tagliare verdure per preparare la cena- Qualcuno di loro avrà anche un cuore come ce l’abbiamo noi o saranno tutte bestie come quelli della Diaz?

- Quel Cascione con cui ho parlato al telefono, aveva una voce da essere umano e usò parole che avrei dovuto ascoltare meglio. Penso che potrei rivolgermi a lui. Hai ragione Frank, meglio la galera che una vita divorata dalla paura di essere seguito da un killer. Meglio la morte civile che tutte le infamie attribuite alla mia persona.

Ci fu un attimo di silenzio.

Si sentiva solo il canto degli uccelli che si preparavano all’arrivo della sera.

Lila si allungò a terra appoggiando il muso sulle gambe con un mugolio sommesso, sembrava voler esprimere il suo dispiacere per quella scelta.

-I cani capiscono quello che diciamo – constatò Jenny – e anche di più.

-Dovete promettermi che vi prenderete cura di lei - disse Marco con un nuovo groppo in gola- non credo di poterla ritrovare viva quando uscirò.

Il Folgore aveva parlato.

Aveva spiegato che non poteva andare in prigione e lasciare da sola la donna nuda e affamata. Bisognava portarle dei vestiti e del cibo altrimenti sarebbe morta come sua sorella.

Si rifiutò di fare il nome del Comandante o di aggiungere altri dettagli.

Gatto spiegò a tutti che aveva deciso di rischiare e di giocare sporco.

Se fosse andata male, le conseguenze avrebbero potuto essere davvero pesanti, ognuno di loro era libero di andarsene e abbandonare la partita.

-Ispettore - fece Maglio - in questo nostro mestiere ci giochiamo la vita tutti i giorni, che ce ne può fregare delle conseguenze?

Ruvolo rimase con Santerno e la ragazza, nel caso qualcuno fosse andato a cercare il Folgore.

Quest’ultimo fu caricato sulla macchina di Maglio, con tanto di manette, ben nascoste dal giubbotto ripiegato sugli avambracci.

Accanto a lui, sul sedile posteriore della Audi A4 con motore personalmente elaborato dal proprietario, si sedette Carbone.

Peruzzi e Gatto seguivano a ruota, a bordo della Tigra gialla.

Scesero il Naviglio Grande fino a Gaggiano e poi si diressero verso nord in direzione di Cusago . Da lì raggiunsero Cisliano e poi ancora verso nord fino a qualche chilometro prima di Bareggio, dove imboccarono una strada sterrata che conduceva ad una vecchia cascina nascosta tra i campi di granturco.

La cascina aveva un’aria disabitata e spoglia. Però qualcuno, negli anni, aveva mantenuto ben oliato i cardini del cancello, così come sembravano in ordine la recinzione e gli altri serramenti.

Nel fienile era parcheggiata una Mercedes 200Slk nero metallizzato.

- Quella è mia- disse il Folgore con una punta d’orgoglio.

- Forza ora andiamo.

- Io non vengo. Non la voglio vedere più.

Maglio rimase in macchina con lui.

Peruzzi tornò con la Tigra oltre la sterrata per segnalare eventuali visitatori.

Il Folgore spiegò a Gatto e Carbone come fare per raggiungere il Rifugio 2.

L’ingresso della vecchia cascina, come consuetudine, immetteva in una grande cucina completata da un immenso camino.

Seguendo le istruzioni ricevute entrarono nella stanza padronale e, accanto al grande letto in legno scuro, trovarono il baule che dovevano spostare per avere accesso alla botola.

Una ripida scala portava nel sotterraneo.

Le vecchie cantine erano state rimodernate e le pareti di cemento grezzo erano perfettamente asciutte. Sui soffitti brillavano luci al neon in grado di illuminare crudamente ogni angolo. Scaffalature metalliche contenevano diversi imballaggi, tra cui molte casse dipinte con il grigioverde dell’Esercito Italiano. Contenevano un vero e proprio arsenale. Bombe a mano, fucili, mortai, mitragliatrici, bazooka e pistole.

Verso il fondo del sotterraneo si trovava una porta metallica chiusa da grossi chiavistelli.

Amaranta tremava come una foglia, ma si sforzava di stare seduta con la schiena diritta appoggiata alla parete nuda come le sue carni.

Il primo ad entrare fu Gatto.

- Madonna.santa!

Il forte odore d’urina lo prese allo stomaco e fu costretto ad indietreggiare per contenere i conati.

Carbone lo scansò e avanzò risoluto verso la donna togliendosi la giacca.

Si accucciò davanti a lei, le coprì le spalle e avvolse le piccole mani tremanti nel calore delle sue.

-Non abbia paura signora, siamo della polizia.

Amaranta appoggiò la testa sul petto di Carbone e bagnò di lacrime la sua camicia azzurra.


Alle diciotto e trenta Marco Bacci accese il cellulare e cominciò goffamente a trafficare coi tasti per trovare il modo di accedere alla rubrica e pescare il numero di Edoardo.

Voleva chiedergli di fare da tramite per un contatto con il Commissario Cascione.

Aveva deciso di consegnarsi a lui.

Fuggire non serviva.

Avrebbe esposto a quel poliziotto i suoi timori e ne avrebbe chiesto l’aiuto.

In quella il suo cellulare suonò.

Marco rispose convinto che a chiamare fosse uno dei suoi amici.

- Pronto?

- Pronto Signor Bacci. Finalmente posso parlare con lei- a parlare era una voce del sud cortese e neutra - lei non mi conosce ma...

- Chi parla ?

- Come le dicevo non ci conosciamo, però Fulvio Santerno ci ha dato il suo numero.

- Lei è della polizia?

- Si, sono l’Ispettore Gatto.

- Senta, parlerò solo con un certo Cascione.

- Cascione al momento è impegnato altrove.

- Allora non ho niente da dire.

- Aspetti Non le sto chiedendo di parlare. Mi auguro solo che mi stia ad ascoltare. Sappia che se volessimo rintracciare il luogo in cui si trova avremmo già avuto modo di farlo con una certa precisione. Per cui mi conceda ancora un attimo.

- Si sbrighi, non ho molta pazienza.

- Lei, come molte delle persone che le sono più care, si trova sotto seria minaccia di morte. Alcuni suoi amici sono da diverse ore in stato di fermo.

- Cosa vuol dire?

- Vuol dire che abbiamo assolutamente bisogno di metterla sotto la nostra protezione. Noi sappiamo che lei è innocente, ne abbiamo le prove...

- Avete trovato chi ha ucciso Franco Faggioni?

-Non ancora, ma abbiamo preso chi ha rapito la signora Amaranta.

- Davvero?

- Si. L’abbiamo liberata.

- Amaranta ? Dov’é? Come sta?

- Per ora è al sicuro, se può servire posso farla chiamare da lei.

-.......


- E’ ancora lì? Signor Bacci?

- Sì .


- Vuole parlare con la signora Amaranta?

- No, meglio di no. Sono contento che sia al sicuro.

- Senta, non credo che convenga dilungarsi. In Questura ci sono persone che vogliono fare di lei un mostro. Hanno mezzi potenti. Se lei mi dà un appuntamento, la mando a prendere al più presto possibile. Si fidi.

- Verrà a prendermi Cascione?

- No. Le mando l’agente Maglio, una persona più che fidata. E faremo di tutto per metterla in contatto con il Vice Commissario Cascione al più presto.

- Dove ci possiamo incontrare?

- Può raggiungere un casello autostradale o meglio ancora una stazione di servizio?

- Penso di poterlo fare.

- In che zona?

- Firenze.

- Perfetto la richiamerò tra due ore, ci dirà lei dove la potremo prelevare.

- Ci proverò.

- Mi raccomando, non chiami né la Polizia né i Carabinieri, eviti i posti di blocco.

Si ricordi che siamo costretti a giocare sporco.

Anche Gaetano Cascione, mentre varcava il portone di Piazza Filangeri, si ritrovò a pensare che stava giocando sporco.

Non aveva con sé il tesserino identificativo e non poteva esibire nessuna autorizzazione per parlare con Halyni.

Le probabilità che all’ingresso ci fosse qualche novellino animato da eccessivo zelo erano scarse.

La maggior parte delle guardie carcerarie conoscevano da molti anni il Vice Commissario e ovviamente nessuno era al corrente della sua decisione di buttare alle ortiche gli attuali gradi e la futura carriera.

In portineria c’era Juliano. Come al solito si scambiarono salaci battute in napoletano stretto.

Cascione fu introdotto in una delle stanze riservate agli interrogatori.

Passò un lungo quarto d’ora prima che Halyni comparisse.

Nonostante tutto, il suo viso lentigginoso appariva fresco e vispo sotto i riccioli rossi.

Si guardarono, ma non si salutarono.

Saddan Halyni prese posto su una sedia e tirò su con il naso.

Gaetano Cascione estrasse da ogni tasca del giacchino e dei jeans un pacchetto di Marlboro. Ne impilò dieci e poi spinse la torretta rossa e bianca verso l’albanese.

- Non te le meriti.

- Non dici così, prego dai.

- Mi hai sputtanato, avevo detto a tutti che eri a posto, che avevi smesso di spacciare.

- Ho cercato Gaetano, ho cercato da lavorare, mi ho rotto mia schiena a fare bianchino e manovale. Tanto lavorare, pochi soldi. Ma bene. Io era contento. Mia donna anche lei trovato pulizie.

- Allora perché cascarci ancora?

- Perché non mi lasciavano in pace. Dicevano: tu non vuoi più vendere l’erba perché tu amico di Polizia, un giorno o l’altro noi ... Zac!

Il gesto che seguì fu più che eloquente.

- Capisco, però avresti dovuto contattarmi prima. Magari, sarei riuscito a sistemarti in un’altra zona, dove nessuno ti avrebbe più trovato.

Saddan sorrise.

- Tu farai questo per me.

- No Saddan adesso è tardi. Un chilo di roba è veramente troppo per uno come te. Ti condanneranno e poi ti rispediranno in Albania. Non posso più farci niente. Vedrò di aiutare la tua donna e di mandarti qualcosa. Ti sei fatto fregare.

Saddan si guardò attorno come se temesse che qualcuno potesse sentirlo.

- Ascolta commissario tu mi tiri fuori ed io ti passo una soffiata super.

Anche la Giustizia era sottomessa alle leggi di mercato e se l’albanese fosse stato in grado di vendere delle buone informazioni, avrebbe potuto ottenere considerevoli favori.

- Pensi di poter mandare me e mia donna veramente lontano? Anche Germania?

- Dipende. Chi collabora con la giustizia può essere aiutato in diversi modi .

- Ascolta io ti dico chi ha ucciso l’uomo a via Villoresi e ti spiego perchè anche . Ma dopo devo sparire. Altrimente uccidono me. Anche qua dentro. Anche in sicureza.

- E’ vero quello che stai dicendo?

- Vero come è vero che questo carcere fa schifo.

- Ti ascolto.

- Il morto non doveva essere quelo. Hanno ucciso uomo sbagliato.

- Cosa dici?

- Chi ha sparato è stato uno dei nostri. Atiàs Kumay.

- Come lo sai?

- Atiàs ha detto sempre che lui spara a Katalin e quello zozo rumeno abita a Via Villoresi. Stesso casa di morto

Cascione si sovvenne del racconto di Amaranta. La lite nei box. Gli stranieri.. .

- Secondo te Atiàs ha sparato a Faggioni per errore?

-E’ così. Stesso casa, stesso machina, altro uomo. Uomo sbagliato.

Alla fine dello spettacolo Luciana corse fuori contenta di come avevano danzato le sue ragazze e ancor più contenta per la serata che l’attendeva.

Il cuore le batteva come quello di una ragazzina al primo appuntamento e allungava il collo per cercare di riconoscere la sagoma di suo marito avvicinarsi tra gli spettatori che sciamavano.

Quando rimase sola davanti al piccolo ingresso del Teatro Litta, si maledisse per aver dimenticato a casa una volta di più il telefonino. Chiese alla cassiera se ci fosse un messaggio per lei. Nessun messaggio le e era stato inviato. Stava per tornare di nuovo sul Corso Magenta, cominciando anche a preoccuparsi, quando il telefono del teatro squillò.

Era per lei. Era Gaetano.

- Scusami amore, siamo costretti a rimandare la nostra cenetta romantica.

- Perché ?

- Devo urgentemente raggiungere gli altri della squadra. Torna a casa e non aspettarmi.

-Credevo che non facessi più parte di quella squadra. Pensavo che avessi smesso.

- Devo assolutamente andare. Non ti preoccupare. Smetterò presto. Forse domani stesso. In fin dei conti si dice sempre così: da lunedì smetto.

“Già - si disse Luciana - smettere di fare il poliziotto dev’essere più difficile che smettere di bere e di fumare. Forse è come smettere di drogarsi. “
Il Commissario Capo Galante fu strappato al suo ozio domenicale e ancor più dolorosamente fu allontanato dal gattò di patate, con la provola e la salsiccia piccante, che la signora Annarosa aveva infornato e già stava pervadendo del suo delizioso aroma tutta l’abitazione.

Fu Cascione a chiamarlo.

Galante ebbe qualche esitazione, non solo per via del gattò, ma anche per la riluttanza a riprendere in mano quel caso spinoso.

Infine, mosso dall’idea di una rivalsa nei confronti di tutti i tromboni che quella stessa mattina gli avevano suonato la marcia funebre giudicandolo un inetto, si risolse a mordere il succulento osso che gli veniva gettato.

- Casciò , l’ho sempre detto che tu sei un vero genio, il pilastro, la colonna della nostra squadra . E’ o vero o nonne?

- E’ o vero Commissario, E’ o vero.


Mentre Galante correva verso S Vittore per prelevare Cascione, chiamò Gatto e venne a sapere il resto.

Si diedero appuntamento al Rifugio 2.

Il Commissario capo trovò Peruzzi e Carbone intenti a mangiare delle pizze comprate sotto casa di un’amica di Carbone che aveva offerto ospitalità e conforto ad una provata Amaranta.

Gatto invece sedeva accanto al Folgore che era stato ammanettato ad una sedia a sua volta incatenata alla cucina economica.

Non se la sentivano di rinchiuderlo nella cella, spoglia e maleodorante, in cui aveva trascorso la giornata Amaranta.

Gatto cercava di convincerlo a farsi imboccare, ma il colosso sembrava deciso a rifiutare anche il cibo e le bevande. Come se avesse deciso di reagire alla sua cattura con uno sciopero della fame e della sete.

- Quello bisogna portarlo al più presto in questura. - disse Galante

- Come ce la caveremo per giustificare il suo arresto e il ritrovamento di queste armi?- domandò Carbone- Nessuno di noi avrebbe dovuto essere in servizio?

- Semplice. Io a voi non vi ho trovati e non vi ho informato per tempo che l’indagine ci era stata avocata. Voi avete continuato e siete andati da Santerno. State sicuri che quando un’operazione ha successo, non si va troppo per il sottile. Quando fallisci ti levano anche la pelle, altrimenti solo peana, alleluja e osanna .

Gli mostrarono le armi e le munizioni nascoste nel sotterraneo.

Ogni pezzo portava ancora i numeri di matricola, non sarebbe stato difficile scoprire da dove provenissero e far partire altre importanti inchieste.

Galante si rese subito conto di come la fortuna si fosse decisa a dare una mano alla sua sorte. Ora il suo avanzamento di carriera era a portata di mano. Avrebbe avuto il suo quarto d’ora di celebrità e un sacco di foto sui giornali.

Tutti avevano una gran voglia di passare all’azione e di andare a cercare Atiàs Kumay.

Galante guardò l’orologio. Le otto erano già passate. Probabilmente il Cozzi era ormai seduto a tavola. Era il momento ideale per rompergli i coglioni.

Galante sorrise contento. Se lui aveva dovuto rinunciare al gattò e alla Domenica Sportiva anche al Cozzi qualcosa doveva andare di traverso.

Chiamò in questura e diede disposizioni perché Cozzi venisse a vedere cosa avevano trovato in quella cascina e si portassero via il bestione ammanettato alla cucina economica.

- Peruzzi tu resta qua ad aspettarli e cerca di essere il più evasivo possibile. Tu non sai niente. Non dire nulla, fai l’indiano sia con la Digos che con i giornalisti. Però se arrivano con le telecamere mettiti bene in mostra che sei bello e riesci bene.

- Avete già chiamato i giornalisti?- domandò Gatto tra il sorpreso ed il perplesso.

- No- rispose Galante- lo farai tu mentre andiamo da Kumay.

Zeba abitava a Binasco a meno di duecento metri da Michelangelo Covini, l’impiegato delle pompe funebri a cui nella notte di venerdì Atiàs Kumay aveva rubato la Yamaha.

La donna di Atiàs Kumay aveva sicuramente un vero nome però tutti la conoscevano come Zeba, il nome d’arte procuratole dal suo agente italiano.

Zeba era un’artista della lap-dance e alla domenica si esibiva in un night club in zona fiera. Il locale si trovava in un seminterrato, portava l’esotico nome di Tortuga, ed era ovviamente ispirato alle più scontate fantasie sulla vita dei bucanieri. Quando Zeba finiva il suo numero aveva addosso solo un tricorno con teschio e tibie incrociate. Halyni non aveva specificato se la passione esagerata di Atiàs per Zeba fosse nata durante una di queste esibizioni . Quando Zeba, poco dopo le nove della domenica sera, usciva dalla sua villetta per andare ad eccitare altri maschi, Atiàs russava sempre pesantemente per via degli eccessi di droga, alcol e sesso a cui gradiva abbandonarsi.

Più di una volta era toccato proprio a Saddam Halyni l’ingrato compito di dover correre a rimettere in sesto il suo distrutto compare in preda ad un coma etilico o in collasso da overdose.

Zeba non beveva mai, in compenso aveva bisogno di tirarsi frequenti piste di cocaina di cui il bravo Atiàs aveva scorte inesauribili.

Anche quella sera Zeba uscì puntuale e sola.

Il Porche era parcheggiato subito fuori dalla villetta.

Ne aveva già fatto scattare le serrature con il telecomando, quando l’abbraccio di Carbone le bloccò qualsiasi possibilità di muoversi o di gridare.

Atiàs Kumay russava così forte che le bottiglie vuote di Cointreau tintinnavano sul tavolino da notte.

Anche quando Gatto accese la luce, l’albanese continuò a navigare prono tra le onde sismiche del suo russare.

Cascione riempì un secchiello del ghiaccio con acqua fredda e gliela tirò addosso.

Con una mossa istintiva si voltò e fece subito correre la mano sotto il cuscino all’inutile ricerca della 44 ormai penzolante sull’indice guantato del Commissario Capo Galante.

Pur da ubriaco riuscì a capire che quegli uomini armati non erano criminali rumeni venuti per vendicare Katalin, ma bensì poliziotti italiani a cui qualcuno l’aveva venduto.

Bestemmiò nella sua lingua, ma quando riuscì a focalizzare il suo sguardo su Cascione con il secchiello d’argento in mano disse:

- Fa culo tu, perchè non usa acqua calda per svegliare me?



Epilogo
La Questura di Milano nella notte tra il 14 ed il 15 fu teatro di un fitto via vai. Numerose persone transitarono al suo interno per periodi più o meno lunghi.

Marco Bacci e Maglio arrivarono in Via Fatebenefratelli poco dopo la mezzanotte. Un impietoso schieramento di cameramen e fotografi si era attestato davanti al portone, spianando obiettivi e microfoni pronti a ghermire un’immagine o una parola da parte dell’ormai noto maestro. Uomini in uniforme si adoprarono per proteggerlo e condurlo al sicuro ai piani superiori, dove fu interrogato dagli inquirenti fino alle prime ore del mattino.

Marco Bacci spiegò per filo e per segno tutto quello che gli era capitato tra sabato e domenica senza dimenticare di citare le sue paure dei giorni precedenti quando si era accorto di essere di nuovo spiato dalla famiglia Faggioni per via del suo lavoro di intermediazione tra Amaranta e Garcia Blanquez. Non si dimenticò neppure di autodenunciarsi per il furto della Guzzi, anzi fornì coordinate piuttosto precise del luogo in cui aveva abbandonato la motocicletta, nella speranza che potesse essere al più presto ritrovata e restituita al legittimo proprietario. Si dichiarò anche disponibile al pagamento degli scarponi involontariamente sottratti all’Ipermercato Stella.

Nel frattempo il Dott. Ferrigno ed Eduardo Sansone furono rilasciati con molte scuse e ci si adoprò in modo che potessero lasciare indisturbati la questura a bordo di auto di servizio. I due non ebbero modo di incontrarsi né tanto meno di conferire con colui che aveva portato tanto scombussolamento nella loro vita.

Atiàs Kumay si era avvalso della facoltà di non rispondere e restava in attesa del suo legale di fiducia che sarebbe rientrato a Milano l’indomani con il primo aereo disponibile da Nassau.

Se Kumay teneva la bocca chiusa, Galante distribuiva sorrisi a 360 gradi e spiegò volentieri ai giornalisti riuniti in una sorta di conferenza stampa estemporanea, che il caso dell’omicidio di Via Villoresi si era risolto.

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