Ana səhifə

Lorenzo Negri L’uomo sbagliato


Yüklə 0.76 Mb.
səhifə17/22
tarix25.06.2016
ölçüsü0.76 Mb.
1   ...   14   15   16   17   18   19   20   21   22

Si riunivano per condividere quel che potevano mettere insieme a mo’ di colazione e poi salivano su sferraglianti furgoni per essere scaricati in qualche girone infernale a guadagnarsi una paga da schiavi.

C’era anche un gruppo di cinesi, ben attrezzato, con pentolini impilati uno sopra l’altro, dai quali usciva una brodaglia calda e fumante, dall’odore poco invitante.

Una dozzina di colossali neri stavano seduti sopra grandi borse. .

Fumavano e intanto rovistavano in sacchi colmi di capi d’abbigliamento usati.

Un tizio male in arnese ciondolava attorno.

Aveva l’aspetto e l’odore di uno che aveva dormito nel proprio vomito.

Barcollando si avvicinò a Marco.

- Tzigara?

- Spiacente.

- Italiano?

- Sì.

- Pptuh!


La sputazza cadde tra gli scarponi nuovi.

Troppo stravolto per reagire, Marco agitò un braccio come per scacciare una mosca e cambiò direzione.

Arrivò un rugginoso Ford Transit , velocemente i neri si ammassarono all’interno con i loro borsoni.

Molti abiti erano rimasti ammonticchiati nello spazio da loro abbandonato.

Subito i cinesi si fiondarono a rovistare tra gli indumenti.

Purtroppo per loro quasi tutti i capi erano di taglie grandi, adatte alle corporature slanciate e muscolose di quei figli d’Africa che li avevano portati fin lì.

Con acuti lamenti gli asiatici esaminavano e scartavano quasi tutto.

Marco si avvicinò titubante e poi si decise a raccogliere una grossa giacca azzurra di tela cerata.

Era un po’ abbondante, puzzava di cantina muffosa, ma lo riparava dalla fresca aria mattutina.

Si fece coraggio e cercò ancora.

Trovò una camicia di cotone a scacchi gialli e marroni aromatizzata alla naftalina e un golf a girocollo di un orripilante verdolino pastello, ma senza buchi e nemmeno troppo odore.

Sotto una pila di braghe, che dovevano essere appartenute ad un grande obeso, intravide una borsa di lana come quelle che portava a tracolla al tempo del suo primo viaggio in Nepal.

Odorava di patchouli, era integra e la tracolla teneva.

Ci avvoltolò la camicia ed il golf appena conquistati e si allontanò prima che lo sputatore si aggiungesse al gruppo dei cercatori.

Accattone.

Un accattone come tanti.

Camminò puntando quella che sembrava essere la tangenziale.

La fortuna lo aiutò una volta di più e presto s’imbatté in un bar aperto.

L’odore dei croissant caldi era irresistibile.

Il posto doveva essere un luogo di appuntamento per le bande di motociclisti domenicali

Si mescolò ai centauri, ordinò prima dell’acqua e poi cappuccio, spremuta e brioches, pagò e si appoggiò in un angolo dietro la porta, semicoperto da un espositore girevole per occhiali da sole.

Mentre trangugiava con ingordigia quella colazione a base di prodotti precotti che il giorno prima avrebbe schifato, considerò l’opportunità di comprarsi un paio di occhiali da sole per mascherarsi.

Aveva cominciato ad aggeggiare con l’espositore quando il rumore di una Guzzi lo mise in allarme.

Il rumore delle Guzzi nella sua esperienza si era spesso accompagnato all’apparire di un uomo in uniforme da servitore della Legge.

I tempi erano cambiati e ora i tutori dell’Ordine preferivano grandi BMW o scattanti motori giapponesi.

La vecchia Guzzi, una 350 Custom degli anni ottanta, si era fermata davanti alla cafeteria.

La montava un giovanotto con i capelli lunghi , biondi e stopposi, che spuntavano dal mezzo casco e gli si appiccicavano pesantemente alla fronte e alle guance, conferendogli un’aria da guerriero celtico.

Marco si rilassò , scelse un paio di occhialoni neri bordati d’azzurro,intonati ai suoi abiti di fortuna.

Pagò li inforcò e si guardò allo specchio del bagno. Gli davano un aspetto aggressivo, stemperato però dalla dominante celeste .Si chiuse dentro e fece quel poco di toilette permessa dalle circostanze.

Quando uscì vide di nuovo il biondo gallico scambiare un cinque con un orso barbuto e borchiato a bordo di una scoppiettante Harley Davidson corredata da bisacce frangiate.

L’orso estrasse da una di queste un caschetto di cuoio con lunghi paraorecchi, identico a quello che ricopriva i suoi riccioli scuri.

Il gallo sfilò il suo mezzo casco e se lo mise in testa.

I due ridevano di gusto guardandosi negli specchietti.

Il gallo baciò l’orso affondandogli la lingua nella bocca, poi tolse le chiavi dal cruscotto della Guzzi e sistemò il mezzo casco nel bauletto posteriore.

In quella arrivarono altre due coppie di centauri a cavallo di un paio di chopper.

Subito cominciarono a salutare gli altri e a scambiarsi pacche sulle spalle senza smontare dalle selle.

Marco li guardava stralunato. Provava una certa invidia per quel senso di libertà e spensieratezza che diffondevano attorno a loro.

Forse aveva ragione Rita: i gay sapevano godersi la vita meglio degli etero.

Forse però. Forse era una facciata dietro alla quale si nascondevano angosce più grandi delle sue.

Una fiaschetta d’argento, ben sagomata per stare comodamente nelle tasche posteriori dei jeans, cominciò a girare nel gruppo. Tutti bevvero.

Poi uno dei nuovi arrivati accese uno spinello sottile e lo fece circolare.

Appena il cerchio del fumo si chiuse, il gallo saltò in sella alla Harley e abbracciò il suo orso, lanciando un urlo belluino come segnale di partenza.

Tra grida e scoppi s’involarono rapidamente.

L’orizzonte non li aveva ancora del tutto inghiottiti quando Marco si accorse che il biondastro aveva dimenticato le chiavi della Guzzi appese al bauletto.

Accidenti!

Cosa gli stava capitando?

Perché il Fato che tanto lo stava avversando gli offriva, poi occasioni così ghiotte per continuare a trasgredire e prolungare la sua fuga?

Non aveva risposte e non voleva nemmeno cercarle.

D’impulso, così come era balzato sul treno merci, si avvicinò alla moto, prese il casco , lo allacciò, montò in sella e avviò il motore.

Nessuno gli badava. Diede gas e partì.

Ladro, ora era diventato anche ladro di moto.

Il vetusto mezzo filava via come un andante sostenuto.

Il rumore ritmico delle valvole metteva allegria.

La Toscana , Firenze , la casa di Frank e Jenny in Val D’Elsa, tutto era diventato raggiungibile.


Il tè della clinica S. Giuseppe, a dispetto dell’alto prezzo imposto ai degenti, era di qualità piuttosto ordinaria. Amaranta ne sorseggiò solo qualche goccia e non osò nemmeno sfiorare i biscotti e il cornetto, ben avvolti in confezioni di cellophane sul piccolo vassoio di peltro.

Erano quasi le otto e voleva farsi trovare vestita e pettinata all’arrivo del Vice Commissario Cascione.

Si affacciò sul corridoio e vide, di spalle, un nuovo agente in borghese passeggiare annoiato, con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, in attesa che finisse il suo turno.

La camera 519 disponeva di una piccola stanza da bagno completa di doccia.

Amaranta cercò il sollievo dell’acqua corrente per lunghi minuti. Si strofinò con una ruvida manopola di fibre intrecciate, poi si avvolse in un grande asciugamano bianco, caldo e morbido.

Caldo e morbido come la voce di Cascione.

Quel poliziotto atipico la rassicurava, le ispirava fiducia. Aveva voglia di aggrapparsi a lui come ad un salvagente, sperando di riuscire a superare la buriana in cui era stata risucchiata.

Guardandosi nello specchio si rivide bambina, a Roma, seduta ad aspettare suo padre, sopra una balaustra di travertino ingrigito dallo sporco di qualche secolo.

I sandaletti bianchi penzolanti in fondo alle sue gambette scure che la gonnicciola di cotonina rosa non riusciva a coprire, gli occhi a scrutare la strada, come un cane in attesa del suo padrone.

Lo avrebbe davvero ritrovato? Come sarebbe stato quest’incontro?

Sarebbero riusciti ad abbracciarsi di nuovo? La sua barba l’avrebbe ancora punta?

Qualcuno stava bussando alla porta.

Sperò che non fosse Cascione.

Le sembrava sconveniente farsi trovare semisvestita.

Aprì un piccolo spiraglio.

Fortunatamente non era lui.

Un uomo corpulento in divisa bianca stava piegato dietro ad un grande carrello.

Le fece capire di essere venuto per cambiare le lenzuola.

Lo fece senza guardarla in faccia, senza nemmeno dover aprire bocca.

Chiaro, non conosceva l’italiano.

Di sicuro era un altro lavorante straniero.

Un rumeno dai lineamenti forti e marcati.

Amaranta chiuse la porta della stanza da bagno e sperò che se ne andasse presto.

Voleva vestirsi in fretta.

Aveva una faccia sciupata e si domandò se non fosse il caso di darsi un filo di trucco.

Ritenne il trucco troppo civettuolo e quindi scarto subito l’idea.

L’uomo dietro la porta domandò.

-Posso cambiare le salviette per favore?

Si era sbagliata, l’uomo conosceva bene l’italiano.

Altro che rumeno, l’accento era proprio romano.

Amaranta apri la porta del bagno intenzionata a chiedergli di ripassare più tardi.

L’uomo aspettava con gli asciugamani impilati sulle grandi mani, i polsi appoggiati sul largo petto.

Con un anello al lobo dell’orecchio sarebbe stato un perfetto Mastro Lindo.

All’improvviso gli asciugamani furono compressi sulla sua faccia con tale forza che Amaranta si ritrovò sbattuta contro il bordo duro e freddo del lavandino .

Fu un colpo fortissimo che le provocò un’acuta fitta all’altezza dei reni, le ginocchia le cedettero e si ritrovò ad accasciarsi sul pavimento con la vista annebbiata e la testa che girava.

Le mancava l’aria e cercò disperatamente di rialzarsi e respirare , di gridare e di graffiare.

Tutto girava.

Un’altra puntura sottile e bruciante nel fianco destro.

Capogiri, vertigini.

La paura, il dolore, Mastro Lindo... tutte le cose perdevano senso e forma.

Il mondo intero se ne stava andando, ingurgitato da un gorgo lattescente.


La frusta del contachilometri non era ben agganciata al mozzo della ruota anteriore.

Marco Bacci valutava a spanne la sua andatura e si guardava bene dal forzare il vecchio motore.

Evitò l’autostrada dove un piccolo guasto, anche solo una banale foratura, lo avrebbe consegnato alla Polstrada o costretto ad ardue fughe attraverso i dirupi appenninici.

Scartò anche la Porrettana. frequentata da troppi camion, attesi al varco da coppie di gendarmi.

Quindi circumnavigò Bologna e si risolse ad imboccare la SS65, percorsa per lo più da traffico locale.

Valicò il passo della Raticosa e poi quello della Futa per ritrovarsi sul versante toscano, di fronte al grande spettacolo delle pendici del Mugello.

Borgo S. Lorenzo e Fiesole erano ormai ad un tiro di schioppo.

La bellezza del paesaggio lo riempiva di speranze. Sentiva la voglia di libertà gonfiarsi come una mongolfiera pronta a prendere il volo verso nuove terre.

Ce l’avrebbe fatta di sicuro.Ce l’avrebbe fatta comunque. Avrebbe trovato un posto in cui nascondersi nella natura che tanto lo attraeva. Si sarebbe costruito una nuova identità , una seconda vita.

Forse avrebbe anche potuto trovare il modo di trasformare il suo esilio in qualcosa di positivo, magari dandosi da fare per il prossimo come il padre di Amaranta.

Anche Fra Cristoforo era stato spinto a fare del bene da un assassinio.

Marco Bacci a differenza di Lodovico aveva ucciso solo nei suoi sogni e non nella realtà.

Ma diversamente dal personaggio manzoniano era costretto a scappare, senza nemmeno poter chiedere un pane in segno di perdono.

“Qui pane fichi e pecorino”

Sotto una tettoia di paglia una vecchia contadina esibiva formaggi e frutti al bordo della strada.

Marco non riuscì ad impedirsi quella sosta da goloso.
L’agente Donato Peruzzi non riusciva a stare seduto.

Continuava a camminare in su e in giù per il lungo corridoio della clinica S Giuseppe controllando nel riflesso delle finestre l’impeccabilità del suo abito di puro lino color sabbia, comprato pochi giorni prima da Dolce e Gabbana insieme alla sua ultima fidanzata.

Lo aveva indossato la sera precedente per far bella figura al Casinò di Sanremo dove avevano progettato di trascorrere la serata .Stavano già per imboccare l’Autostrada dei Fiori quando giunse irrevocabile l’ordine di rientrare in servizio.La ragazza l’aveva presa davvero male e Peruzzi che si considerava un conoscitore del mondo femminile, a buon diritto,visto che annoverava almeno duecento conquiste, aveva intuito che il fascino della divisa e il senso di potenza e avventura, generati dallo stare al fianco di un uomo sempre armato e spesso coinvolto in pericolose azioni, stavano scemando a causa del poco tempo che riusciva a dedicare a quella peperina poco più che maggiorenne.

Certo, poteva ancora contare sulla sua virilità esagerata e sulle sue sorprendenti prestazioni sessuali, ma anche lì si rendeva conto che dallo stupore per la sua superba dotazione si era ormai passati al continuo lamentare dolori e stanchezze per mettere freno alla sua esuberanza.

Doveva guardarsi attorno per cercarsene un’ altra oppure doveva ottenere quel sospirato trasferimento nella sua città, Arezzo, in cui il suo soprannome di lancia d’oro, era così conosciuto tra le signore e le signorine che frequentavano i locali giusti da evitargli ogni preoccupazione.

A distoglierlo dalle sue preoccupazioni fu l’arrivo del Vice Commissario Cascione.

Vedendolo si illuse che fosse venuto a portar via quella giovane vedova e per dar forza al buon auspicio si toccò le palle con una certa energia.

La domenica era appena cominciata e se avesse avuto un inaspettato via libera, Peruzzi aveva buone possibilità di riuscire a santificarla a modo suo.

-Tuttapposto?

- Appostistissimo. Tutto tranquillo.

- La signora è già sveglia?

- Sì. Le hanno pure portato la colazione e il cambio di biancheria.

- Perfetto.

Peruzzi non riuscì ad aggiungere altro, Cascione si era già avviato verso la camera 519.

Un secondo dopo averlo visto entrare nella stanza, Peruzzi sentì urlare il suo nome.

Corse mettendo mano alla pistola e togliendone la sicura.

La stanza era vuota.

Il letto sfatto.

Cascione guardava basito un mucchio di lenzuola appallottolate, sparse sul pavimento assieme ad alcuni asciugamani usati ed altri ancora piegati.

Nell’armadietto aperto c’erano ancora gli abiti e la biancheria della signora.

Sul comodino, accanto ai resti della colazione, un cellulare acceso.

Peruzzi aprì con un calcio la porta del bagno, puntò la sua arma e poi di scatto entrò.

- Dottore venga qua!

Cascione si affrettò in bagno pregando ogni dio di non dover trovare il cadavere di Amaranta.

Fu felice di non trovare nient’altro che una scritta sullo specchio.

PAGHERETE CARO

PAGHERETE TUTTO.

Il vecchio slogan era stato scritto con del rossetto ed era siglato GW.


Eduardo Sansone aveva sempre potuto contare su una grande risorsa il sonno ristoratore.

Qualunque cosa accadesse nella sua vita, qualunque affanno lo cogliesse nelle sue giornate, qualunque preoccupazione lo assillasse, meno di un minuto dopo aver toccato il letto si ritrovava immerso nel più beato dei sonni, per risvegliarsi al mattino successivo pronto ad affrontare il mondo con rinnovata energia.

Anche quella notte non fu diversa.

Era riuscito a dimenticare Marco, Gatto e le movimentate vicende del giorno prima per più di otto ore. Si era svegliato con il piacevole aroma di caffè proveniente dalla cucina in cui Adele stava già trafficando.

Il suo primo caffè fu interrotto dal cicalino del citofono.

-Gatto.- rispose una voce lontana resa gracchiante dal cattivo funzionamento dell’apparecchio.

Rito Gatto, vestito esattamente come la sera prima, ma con il volto segnato da una notte di veglia, si presentò all’uscio senza nessun agente al seguito.

Eduardo ne fu contento perché immaginava che la vista di un poliziotto in divisa avrebbe turbato ancor più Adele, visibilmente sorpresa da quella visita mattutina, ma non così sconvolta da dimenticarsi di offrire all’Ispettore una tazza di caffè.

Gatto accettò di buon grado l’offerta e mentre veniva fatto accomodare in cucina domandò alla signora il permesso di fumare.

Servito il caffè, Adele scomparve nella stanza da bagno.

-La posizione del suo amico si è ulteriormente aggravata.

- Che ha fatto?

- Questa mattina la Signora Amaranta Blanquez, vedova della vittima, è sfuggita alla nostra sorveglianza, allontanandosi dalla camera alla Clinica S.Giuseppe in cui si trovava sotto piantone.

-Com’è potuto succedere?

- Qualcuno l’ha nascosta nel carrello della biancheria, sfilando sotto gli occhi del piantone.

- Però Marco non può essere stato. Il piantone lo avrebbe riconosciuto.

- Infatti. Bisogna che lei sappia che il quadro è cambiato. Bacci e la vedova sono evidentemente complici. Agiscono insieme ad un gruppo che si sigla GW. Le dicono niente queste lettere?

Eduardo non si raccapezzava più e sentiva vacillare ogni certezza.

Di sicuro però, non aveva mai sentito né visto quella sigla.

- Per quale motivo ritenete che Marco sia collegato a questo gruppo?

- La donna ha scritto alcune minacce sullo specchio del bagno e ha lasciato il suo cellulare sul comodino. Abbiamo trovato un SMS firmato MB . Il testo annunciava che i GW erano pronti per prelevare la donna e portarla dal Bacci. Il messaggio è stato inviato nelle prime ore della mattinata.

Eduardo sbiancò. Se era vero quello che stava sentendo, il messaggio doveva esser stato inviato con il cellulare del nipote. Il che significava che prima o poi sarebbe stato sputtanato.

- L’ho vista impallidire. Non si sente bene?

Gatto allungò una mano che sfiorò il braccio di Sansone.

- Non faccia l’eroe. Si decida a collaborare.

Sansone aveva già ripreso il controllo delle sue emozioni.

- Purtroppo non ne ho modo, vi ho già detto tutto quello che so. Marco non mi ha confidato alcun segreto ed io non ho mai sospettato che militasse ancora in qualche gruppo.

Gatto si alzò e nel suo volto stanco apparve una smorfia di delusione.

- Senta, posso capire tante cose e sono disposto a dimenticare le sue bugie.Lei mi faccia il piacere di ricordarsi che in Italia ci sono persone alle quali sono stati affibbiati sette ed anche otto anni di galera per aver dato ospitalità a terroristi. Quando si è potuto provare che ne abbiano fattivamente favorito la fuga, le pene sono state più pesanti. Sono stati considerati al pari dei membri effettivi dei gruppi eversivi. Ci tiene così tanto a far parte di questo club?

Appena Gatto se ne fu andato Eduardo cominciò a rendersi conto della gravità del guaio in cui si era cacciato per proteggere il suo amico

Come ogni domenica il Dottor Ferrigno fu il primo a svegliarsi.

Dormivano tutti, pure la cagnetta.

L’ampio loft, situato in un cortile interno, era pervaso dal silenzio.

L’unico rumore che giungeva alle sue orecchie era quello del cinguettio dei passeri intenti a becchettare nel giardino condominiale.

Ma il pensiero di Marco lo aveva tormentato tutta notte e non vedeva l’ora di inviargli il messaggio convenuto con Edo.

Per sicurezza avrebbe dovuto usare una cabina del telefono, visto che davano per scontato che tutte le utenze intestate a loro fossero sotto controllo.

Ma anche i loro movimenti erano sorvegliati.

La notte prima si era accorto che una berlina scura lo aveva seguito dal pub a casa di Edo e poi da lì fino al suo loft.

Non si erano mai avvicinati troppo, ma sui lunghi viali della circonvallazione avevano mantenuto una distanza costante.

Certamente erano ancora là fuori pronti a pedinarlo.

Per quanto si sforzasse non riusciva ad immaginare con quali diavolerie si poteva intercettare un SMS.

Era però a conoscenza del fatto che nessun genere di comunicazione poteva sfuggire alle grandi orecchie degli spioni dell’era tecnologica.

Si accese una sigaretta e si risolse a farsi un caffè al bar dell’angolo per annusare l’aria.

Anche Corso Lodi pareva resistere al risveglio.

Il dottore aveva tra le labbra la prima sigaretta della giornata e moriva dalla voglia di accendersela.

Invece finse di frugarsi le tasche in cerca dell’accendino, girandosi e rigirandosi su se stesso allo scopo di potersi guardare meglio attorno, poi cominciò a chiedere del fuoco agli scarsi passanti, prolungando così la sua osservazione.

Non c’era nessuno che lo stesse osservando attraverso due fori nelle pagine di un giornale e nemmeno qualcuno con cappello, occhiali scuri e impermeabile dal bavero rialzato che camminava in su e in giù .

L’Ispettore Clouzot era stato destinato ad altro incarico in compagnia del Tenente Colombo.

Si convinse che uno come lui, del tutto ignaro di tecniche d’indagine poliziesche, non avesse modo di capire se era stato messo sotto sorveglianza.

Fu un cinese che gli porse la fiamma da un accendino ricoperto di brillantini multicolori.

Fumando s’incamminò verso il primo locale aperto.

Nel bar dell’angolo trangugiò un pessimo caffè che necessitò di ben quattro cucchiaini di zucchero per diventare bevibile.

Si ricordò che nei film americani aveva visto spesso gli agenti addetti alle intercettazioni e alla sorveglianza nascondersi con tutte le apparecchiature dentro grossi furgoni.

Quando uscì dal bar si accorse che a meno di cinquanta metri dal suo portone era parcheggiato un Ducato bianco. Apparentemente era un furgone qualsiasi, però aveva tutti i vetri bruniti e ben due antenne sul tetto, di cui una insolitamente lunga.

Se il proprietario non era un fanatico radioamatore, era da lì che cercavano di spiarlo.

Comprò La Repubblica e si diresse rapidamente verso l’entrata della metropolitana. Scese i primi cinque scalini poi si voltò e si chinò come se volesse allacciarsi una scarpa.

Trenta secondi più tardi, un uomo con una giacca a quadri imboccò le scale in gran fretta. Subito l’uomo rallentò il passo e finse di cercare qualcosa nelle tasche poi proseguì lentamente la sua discesa.

Ferrigno tornò verso casa, entrò e si chiuse il portone alle spalle.

Contò fino a trenta, poi dischiuse leggermente la grossa porta di legno.

L’uomo con la giacca a quadri stava tornando sui suoi passi

Si sedette in giardino e per meglio raccogliere i pensieri si accese un’altra sigaretta.

Doveva davvero contattare Marco?

No, non doveva.Però voleva farlo.

Voleva farlo per dargli una speranza, un cenno di solidarietà nel tormento di quella dannata storia.

Gli venne in mente che il cellulare di Pietro aveva una sim-card intestata alla suocera.

Poteva essere sufficientemente certo che quel numero non fosse sotto controllo.

Se i pulotti avevano piazzato il loro furgone così vicino a casa ne conseguiva che per funzionare le loro macchine non potevano essere sistemate oltre un determinato numero di metri.

Gin-gi , la vecchia cinese e tutta la banda di mangiatori di riso, abitavano in una di quelle vecchie case di ringhiera di via Col di Lana caratterizzate da una fuga di cortili infilati uno dopo l’altro.

Tra il portone d’ingresso e l’abitazione correvano almeno duecento metri e una quantità di pareti.

Di soppiatto si avvicinò al letto di Pietro, scippò il cellulare dalla tasca delle braghe appallottolate di fianco al letto, lo infilò nella sua borsa di pelle e se ne uscì nuovamente.

Non era mai stato così contento di visitare una vecchia cinese nel suo giorno di riposo.

Per un’auto della polizia raggiungere Palazzo di Giustizia uscendo da Via Fatebenefratelli è questioni di pochi minuti .

1   ...   14   15   16   17   18   19   20   21   22


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət