O2 ossigeno per l’informazione.Rapporto 2010
osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza
3/ Quando sono
carte bollate
Le minacce non vengono solo con proiettili
o lettere anonime
di Roberta Mani e Roberto Salvatore Rossi
Non sono solo le lettere di minacce, le automobili che saltano
in aria, gli avvocati dei mafiosi, le pallottole in redazione.
Esiste una forma di condizionamento che passa dalle procure e
dalle cancellerie dei tribunali civili. Il tentativo di togliere la serenità
e di metterci al suo posto un bel bavaglio assume sempre
più spesso la formula subdola della carta bollata, delle perquisizioni,
del sequestro dei file, di richieste di danni pretestuose. Avviene
grazie a una legislazione italiana lacunosa, a magistrati che
non conoscono, o fingono di non conoscere, la giurisprudenza
nazionale ed europea in materia, che è molto esplicita sul divieto
di sottoporre a perquisizione le redazioni e i giornalisti che proteggono
le loro fonti. Ecco solo i casi degli ultimi mesi.
Ce l’hanno con «la Repubblica»?
La squadra di polizia giudiziaria dei vigili urbani piomba nella
sede de «la Repubblica» a Torino alle tre del pomeriggio. L’avviso
di garanzia è per Diego Longhin. L’accusa, fuga di notizie. Gli
agenti notificano l’atto, poi gli sequestrano tutto: due cellulari,
uno aziendale, l’altro personale, block notes, taccuini, cartelle, la
memoria fissa del computer, copiata fino all’ultimo file. La perquisizione
prosegue nell’abitazione del giornalista e nell’auto privata.
Alla ricerca delle fonti, quelle tutelate dall’articolo 2 della
legge istitutiva dell’Ordine che sancisce il segreto professionale.
La colpa di Diego Longhin è quella di aver raccontato una truffa.
Di aver scritto un articolo dettagliato su un presunto accordo
tra almeno sette vigili urbani e alcuni proprietari di autosoccorso.
A far scattare l’inchiesta, lo stesso comandante della Polizia municipale.
Troppe ricetrasmittenti sparite. Rubate, imprestate, perse.
E invece molte erano finite sui carri attrezzi. Segnalavano in
tempo reale gli incidenti. Un affare per i soccorritori che si trovavano
al posto giusto nel momento giusto. E un affare per gli
agenti che «affittavano» i trasmettitori per 400 euro alla settimana.
L’articolo esce il 26 agosto 2009. Poche ore dopo scatta la
perquisizione.
Ispezione personale e sequestro del computer anche per Francesco
Viviano, de «la Repubblica». La Digos è entrata nella redazione
di via Cristoforo Colombo a Roma la sera del 18 marzo, alla ricerca
del documento pubblicato dal quotidiano il giorno prima.
Il pezzo di Viviano illustrava una quarantina di pagine contenenti
intercettazioni riguardanti l’inchiesta di Trani sulle presunte pressioni
del premier Silvio Berlusconi all’Agcom e ai vertici Rai per
far chiudere la trasmissione Annozero. Dalle carte rese pubbliche
emerge anche il coinvolgimento del sottosegretario alla presidenza
del Consiglio Gianni Letta. Viviano è indicato per furto pluriaggravato
e pubblicazione arbitraria di atti segreti. Del reato di ricettazione
è invece indagato Giuliano Foschini, inviato de «la
Repubblica» a Trani. Interrogato da tre magistrati e un dirigente
della Digos, prima come testimone e poi come indagato, per
quattro ore di fila. Non sarebbero gli unici giornalisti indagati
per la vicenda. Anche la redazione di Bari de «la Repubblica» è
stata sottoposta a una severissima perquisizione che ricorda quella
di fine dicembre 2007, quando il lavoro fu compromesso per
alcuni giorni e furono perquisite anche le abitazioni dei redattori
Alessandra Ziniti e Francesco Viviano.
Sempre la testata ammiraglia del Gruppo L’Espresso, lo scorso
agosto, è stata suo malgrado, oggetto di un primato nazionale:
primo giornale nella storia dell’informazione italiana a finire davanti
a un tribunale civile per degli interrogativi. Al centro della
vicenda le dieci domande scritte da Giuseppe D’Avanzo e indirizzate
al presidente del Consiglio. Pubblicate quotidianamente per
mesi sul giornale. Nella richiesta di danni (un milione di euro)
avanzata dai legali di Silvio Berlusconi, si faceva riferimento anche
ad un articolo che riprendeva la stampa estera sul caso Noemi-
D’Addario scritto da Giampiero Martinotti, invitato a comparire
davanti al giudice del Tribunale di Roma assieme a Ezio Mauro,
direttore de «la Repubblica».
Se la prendono anche con Il Tirreno» e«La Nazione»
Carabinieri in redazione anche a «Il Tirreno» e «La Nazione».
Computer e taccuini sequestrati rispettivamente a Paolo Nencioni
e a Elena Duranti. Scrivono anche loro di un’indagine che coinvolge
le forze dell’ordine. Due carabinieri sotto inchiesta, uno
accusato di violenza sessuale nei confronti di un diciassettenne.
Secondo la versione del ragazzo, il militare lo avrebbe invitato a
casa per vedere un film porno, dopo averlo fermato per possesso
di hashish. Di quel controllo non esiste verbale. Gli accertamenti
scattano d’ufficio. I due cronisti raccontano, fanno il loro mestiere.
La perquisizione arriva poco dopo, al giornale e a casa, disposta
dalla procura di Prato. Violazione del segreto istruttorio. Silenzio.
E poi in Sicilia
Favoreggiamento personale di ignoti per rivelazione di segreto
d’ufficio. È il reato del quale, secondo la magistratura di Enna,
«con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso», si
sarebbero macchiati Giulia Martorana, de «La Sicilia», e Josè
Trovato, del «Giornale di Sicilia», già tutelato dalle forze dell’ordine
per le minacce di morte subite dal boss di Leonforte. La
vicenda riguarda il caso di un cadavere carbonizzato ritrovato
nelle campagne di Piazza Armerina il 20 ottobre del 2007. Per
undici mesi quel corpo è rimasto senza un nome. A renderlo
noto, il 9 settembre 2008, Trovato e Martorana sui rispettivi
giornali. Finalmente un funerale, il corpo è restituito ai familiari,
i quali, sconcertati, vanno a protestare coi carabinieri. Josè e
Giulia sono interrogati telefonicamente: chi vi ha detto il nome
del morto? Da parte loro nessuna risposta. La segretezza delle
fonti. Il 22 novembre del 2009 per i due scatta il decreto penale.
Sono pubblicisti, non professionisti, e per questo tenuti a svelare
le fonti al Pm che gliele chiede, secondo l’art. 200 del codice di
procedura penale. Di fatto, però, per l’ennesima volta, due gior-
nalisti hanno guai con la giustizia solo per aver fatto il loro lavoro.
Per aver restituito pace, dopo undici mesi, alla famiglia dell’ucciso,
per aver dato un servizio alla collettività.
Professionisti dell’antimafia, gira intorno a questa espressione
coniata da Leonardo Sciascia e, suo malgrado, troppo spesso
abusata, il caso che vede il giornalista Rino Giacalone citato per
danni dal sindaco di Trapani Girolamo Fazio, il quale ha chiesto
al cronista 50 mila euro a titolo di rimborso. Giacalone è un
prolifico giornalista d’inchiesta trapanese. Scrive per «La Sicilia»,
ma può pubblicare le cose più scottanti solo su Narcomafie, Libera
Informazione e Articolo 21. Proprio con un pezzo pubblicato
su questo sito ha criticato la decisione del primo cittadino di revocare
la delibera del Consiglio comunale che intendeva concedere
la cittadinanza onoraria all’ex prefetto Fulvio Sodano, per
meriti antimafia. Probabilmente una risposta alle critiche avanzate
dallo stesso Sodano nei confronti di alcune prese di posizione
del sindaco Fazio.
Questo un passaggio dell’articolo di Giacalone: «Quando vengono
scritte cose che al sindaco di Trapani non piacciono, non si è
bollati come mafiosi ma come “professionisti dell’antimafia” che
(…) hanno tanti interessi, tranne uno: quello che la mafia venga
sconfitta perché, spiega, si metterebbero in discussione tante carriere
e tanti vantaggi. Fazio ha ripetuto il suo solito esercizio che
è quello delle negazione della realtà, ha ribaltato le cose come in
queste stesse ore si è scoperto sta facendo il capo mafia latitante
Matteo Messina Denaro. Per carità, non vogliamo dire che ci siano
collegamenti, il caso vuole che, in un pizzino diventato conosciuto
adesso, Matteo Messina Denaro grida anche lui al complotto,
parla di una nuova inquisizione di Torquemada da strapazzo
a proposito di chi indaga e dirige la sua ricerca. Si rivolge
così ad uomini che tra le mani utilizzano un codice penale mentre
lui tra le mani continua a tenere stretto un codice d’onore
sporco del sangue di tanti morti ammazzati. Anche del sangue di
giornalisti, di quelli che Fazio, alla pari di altri, magistrati compresi,
bolla come professionisti dell’antimafia. Forse è ora che il
sindaco di Trapani faccia i nomi e indichi i vantaggi conquistati
da ognuno di questi».
Fazio ha scritto di suo pugno una nota in cui dice di essersi «sentito
diffamato» per l’accostamento al boss Messina Denaro, nonostante
il giornalista abbia esplicitato chiaramente di non voler
fare «collegamenti» tra i due. Piuttosto che querelarlo, Fazio, lo
cita in giudizio chiedendo 50 mila euro. Un salasso che potrebbe
azzoppare chiunque, e che non può che essere letto come una
forma legale di condizionamento. Tanto più che i danni sono
chiesti solo al giornalista scomodo e a nessun altro, né all’editore
del sito, né alla piattaforma che lo ospita.
Ma anche al Nord
Da registrare, infine, la storia di due fotografi lombardi, Dardo Rigamonti
e Stefano Barbusca. 30 gennaio 2009, Castasegna, Cantone
dei Grigioni. Dardo scatta alcune foto sul fermo di un furgone
diretto in Svizzera sul quale viaggiavano una ventina di profughi.
Il servizio, pubblicato il giorno successivo sull’edizione di Sondrio
de «La provincia», pare irriti i finanzieri. I quali, per tutta risposta,
qualche alba dopo, si presentano in sette nel negozio di fotografia
di Rigamonti per eseguire controlli sulla contabilità. Il giornale
manda l’altro fotografo, Stefano Barbusca, per documentare il tutto.
Appena arrivato, i finanzieri gli sequestrano la macchina fotografica
e il tesserino dell’Ordine. Nel rispetto della privacy…
Per fortuna, nella magistratura italiana prevale una impostazione
liberale, che porta spesso all’archiviazione dei procedimenti a
carico dei giornalisti che si rifiutano di rivelare la loro fonte, attenendosi
al dettato dell’articolo 2 della legge professionale che
recita: «sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte
delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di
esse». Questo orientamento dei giudici è attestato da varie sentenze
e anche dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo di
Strasburgo che ha emesso in proposito alcune sentenze esemplari.
Questi pronunciamenti, ha fatto osservare Franco Abruzzo in un
interessante studio in materia1 disponibile sul web, dovrebbero
essere conosciute da tutti, dovrebbero fare giurisprudenza, e dovrebbero
frenare l’uso intimidatorio delle perquisizioni.
1 www.francoabruzzo.it/docs/segretoprof-6lu08_3.rtf
3/ Quando sono carte bollate
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