Ana səhifə

E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


Yüklə 1.07 Mb.
səhifə16/23
tarix26.06.2016
ölçüsü1.07 Mb.
1   ...   12   13   14   15   16   17   18   19   ...   23
Minghetti e Sella condussero tra il 1868 ed il 1876 l’indirizzo economico del governo su linee progressivamente interventiste”. Ed ancora: “contrariamente a quanto è stato detto e scritto la politica economica interventista fu sorretta da una cultura economica di carattere statalista prima ispirata dalla scuola italiana e poi da quella storica di tipo tedesco. Della scuola italiana fu esponente Minghetti, della scuola storica Luzzatti. Dopo Luzzatti, fu Nitti … a ispirare la politica economica italiana conducendola su binari statalisti; dopo Nitti, sotto il Fascismo, Beneduce” (Ivi: 88).
Dopo la delusione einaudiana rispetto alla esperienza di A. De Stefani, nella difesa del «liberismo economico tra il 1928 ed il 1943, Einaudi si trovò del tutto isolato»; anzi fu «l’unico che potesse in qualche modo ricollegarsi alla economia di mercato a guida statunitense» (ivi:230). Svolse, effettivamente, un ruolo culturalmente tanto coraggioso quanto imponente. Insieme a compagni di viaggio di volta in volta diversi, rappresentò una linea di continuità della tradizione italiana di tipo neoclassico, che lo condusse, fra l’altro, ad erigersi come difensore estremo della natura, autonomamente scientifica, della teoria economica.

Tutto si tiene in questo disegno interpretativo di A. Cardini che può dirsi centrato sulla “non presenza” di una importante componente culturale italiana nel forgiare i destini politici, economici e sociali dell’Italia.

Nella storia del nostro Paese, è stata, e forse ancor oggi è, pervicace l’idea che l’Italia, priva di capitali, di significative esperienze imprenditoriali di tipo multinazionale, di materie prime, poteva accorciare i tempi di un suo allineamento con paesi economicamente più avanzati, solo con una presenza diretta, ed una responsabilità, dello Stato nella vita economica che, sul piano internazionale, voleva dire ricorrere a pratiche protezionistiche e, su quello interno, a misure di tipo pubblico con la nascita di un imponente sistema di imprese statali od a partecipazione statale, a ruoli crescenti nelle economie locali dovuti a imprese municipalizzate ed attive in ogni ambito dei servizi pubblici locali, ad una rete inestricabile di beni e servizi offerti a “prezzi politici”. In questo disegno l’interesse del consumatore veniva dato come risolto ab origine e non veniva collegato al gran tema dei costi che provocava e come essi, e da chi, venissero pagati.

Il tema centrale di ogni riflessione di politica economica non può non riguardare il modo in cui si forma il prezzo di un bene o di un servizio, dei costi necessari per produrlo, del ruolo che deve assegnarsi alla concorrenza ed al mercato comprese quelle che sono delle reali antinomie.

E’ stata edificata una economia vivace e vitale utilizzando un vero e proprio arsenale di prezzi amministrati, distaccati dai rispettivi costi di produzione in condizioni di capacità che impedivano di scoprire chi ne sopportava l’onere ultimo (magari le prossime generazioni) e perché qualcuno ne traeva vantaggio.

Quello che mi pare assente per lunghi periodi della storia economica italiana è il rispetto del “vincolo di bilancio” insieme al modo in cui è considerato il valore della meritocrazia. E’ da trovare in queste ragioni la incompiutezza della nostra crescita, la sua anomalia, con l’enorme debito pubblico accumulato, la persistente arretratezza del nostro Mezzogiorno, le forme di criminalità organizzata che vi prevalgono, la “intermediazione impropria” che vi è molto diffusa, e tutte le altre tipicità del tutto italiche come la corruzione, la concussione, la mancanza di senso dello Stato, la tentazione di conseguire un interesse particolare pensando o dicendo di perseguirne uno generale. L’idea che si debba disporre di fonti legislative, amministrative o di puro “enforcement” di regole davvero “terze” per potersi dire nazioni davvero moderne continua ad essere considerata esterna e non avvertita nella nostra coscienza comune.

Non trascurerei il fatto che, nei due periodi nei quali la nostra economia mostrò una accentuata dinamica espansiva (il decennio giolittiano, ed il quindicennio post 1947), l’intervento pubblico fu sì diffuso, ma temperato; si ebbe una buona apertura verso i mercati internazionali, prevalse l’idea di una regolazione dei mercati creando le condizioni, o le pre-condizioni, perché le forze imprenditoriali di mercato potessero manifestarsi al meglio o perché le imprese pubbliche fossero condotte con criteri di economicità.

Senza dubbio, anche in questi due periodi l’alito del liberalismo fu debole e si manifestò per le vie le più diverse.

E questo è davvero “il problema storico e non contingente” della nostra vicenda storica che vale la pena cercare di mettere a fuoco senza aspirare a darne una convincente univoca spiegazione.

E’ certo, però, che hanno avuto il loro ruolo in questa evoluzione non poche vicende biografiche. Penserei alla prematura scomparsa di uomini come U. Mazzola o C. Conigliani, il tratto caratteriale di V. Pareto e di M. Pantaleoni, il precoce ritiro dall’agone politico-culturale di A. De Viti De Marco. Penserei infine alla lunga parentesi dell’economia corporativa che ridusse al silenzio tanti economisti e ne influenzò la ricerca di tanti altri.

Il punto da discutere è però diverso. Resta da spiegare perché questo “gruppo” non “divenne mai un partito”, non riuscì mai a divenire organico a un importante movimento di massa, fu troppo spesso visto come il portatore di valori e di interessi di ristretti gruppi dominanti che rappresentavano la proprietà fondiaria, i mercati finanziari, gli industriali. C’è molto spesso in questi autori un senso di albagia intellettuale tipico di chi è già lieto di parlare a se stesso, ai propri accoliti, ai propri consolidati seguaci. Ed emerge, fra le righe, l’idea che è un “generico paese” che deve scoprirne le virtù, se non vuole sopportarne le conseguenze.

E tuttavia, mi sembra che una risposta adeguata alla domanda che ci siamo posti non possa omettere di chiamare in causa il generale orientamento culturale che ha dominato in Italia dal 1925 in poi, e che ha tre componenti: quella corporativa, quella cattolica, quella social-marxista ognuna delle quali è stata egemone per qualche tempo ed è stata capace di divenire movimento politico di massa.

Senza voler ricorrere alle esemplificazioni storiche che pur si renderebbero necessarie, ognuno di questi filoni culturali scorse nel mercato un valore di dubbia realizzazione, o di scarsa virtù per una crescita equilibrata, oppure il luogo dove sono gli interessi dei più forti a prevalere. Molta della nostra storia può essere costruita lungo l’asse antinomico efficienza-giustizia sociale ed è naturale che, in un paese economicamente arretrato così come è stata l’Italia nel primo secolo della sua storia unitaria, sia stato il secondo termine a divenire il valore portante capace di scaldare i cuori ed ottenere consensi elettorali. Al liberalismo, visto come un blocco dogmatico unitario, si sono contrapposti altri sistemi di valore concepiti in modo ideologico. L’epoca della loro valutazione critica sta forse arrivando, purtroppo, per la spinta di una globalizzazione che tutto rende omologo e riconduce alle più elementari esigenze concrete le realtà produttive.

Ma questo libro ci suggerisce qualche spunto costruttivo per chi ama riflettere sui destini dell’Italia di oggi?

Direi di sì.

Ci consiglia intanto che è bene rifuggire dalla critiche e dalle discussioni costruite su contrapposizioni polemiche confrontando posizioni “estreme”.

La storia ci dice che non può essere tutto ridotto in questi termini. Ed allora c’è da riflettere sul “produttivismo” di Nitti (ed anche di Beneduce e di Saraceno), e sulle preoccupazioni per permettere una allocazione ottimale dei capitali che è ricorrente in De Viti.

E va ricordata una pagina di Einaudi, che è un modello per intervenire nella politica economica:


…di fronte a problemi concreti, l’economista non può essere mai né liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo; ma a volta a volta osteggia i dazi doganali protettivi, perché reputa che l’attività economica sia massima quando sia aperta senza limiti la via alla concorrenza della merce estera; è favorevole alle leggi limitatrici del lavoro delle donne e dei fanciulli, alla proibizione del lavoro notturno, al risarcimento degli infortuni sul lavoro, alle pensioni di vecchiaia, perché considera cotali freni e presidi legislativi mezzi efficaci a crescere la produttività operaia; è contrario alla socializzazione universale perché prevede che essa attenuerebbe l’interesse a produrre; ma vuole che lo Stato consideri le ferrovie come industria pubblica, reputando dannoso alla collettività il monopolio privato dei mezzi di trasporto. E così via, ogni problema darà luogo ad una soluzione propria, dettata da un appropriato calcolo di convenienza (Einaudi 1955:211).149
Non c’è, dunque, da pensare ad una “terza via” come bisettrice ideale fra due semirette ideologiche, ma come un sistema “aperto” di soluzioni storicamente condizionate, ma sempre teoricamente ancorate a dei principi.

E’ dunque possibile pensare a soluzioni concrete con una presenza di capitale pubblico non soccombente rispetto alle logiche dell’appartenenza politica e partitica e ad un confronto nel mercato che non sia soltanto la preminenza del più forte tale divenuto per occasionali favorevoli ragioni?

Eppure il dibattito avviene ancora fra autori che cominciano sempre con i fallimenti del mercato ed altri che denunciano i misfatti ed i costi (e gli sprechi) dell’intervento pubblico.

Ma dei “limiti del mercato” è pronto a parlarne qualsiasi economista in buona fede anche quando fa notare ch’essi possono essere superati in vario modo. E sulla trasmodazione della presenza pubblica nell’economia è pronto a parlare anche qualche economista che è purtuttavia insoddisfatto di come il capitalismo funziona.

Nella mia esperienza di imprenditore pubblico prima e privato poi ho sperimentato che le tentazioni sono le stesse e che la prossimità con la vita politica, sovente ricercata, è sempre e soltanto dannosa. Anche i costi sono comunque elevati: più subdoli e persistenti nel primo caso, più concentrati nel tempo nel secondo.

Ma allora cosa si può fare. Credo due cose:



  1. Rifuggire da ogni idea che sia possibile trovare una soluzione “pura” e senza costi;

  2. Prendere atto che su alcune premesse non c’è da discuterle, ma solo da realizzarle.

C’è anche da prendere atto che il pensiero di matrice liberale ha molto lavorato, nel senso di cercare di rendere meno alterabile il corretto meccanismo del mercato, proponendo una riflessione a favore delle autorità di sorveglianza (anche multinazionali), per quelle di regolamentazione, per quelle della concorrenza cercando di assicurare loro indipendenza e trasparenza di azione, oltre che tutela del consumatore.

Ma nessuna di esse è “perfetta” ed ognuna ha bisogno di un continuo ripensamento.

La ragione è di fondo. Il mercato ha una caratteristica inelimi-nabile: è sempre il luogo del peccato (Rosmini), perché l’obiettivo di ogni concorrente è fare uscire dal mercato l’oppositore ed ottenere così un “profitto non normale”.

La domanda da farsi, per chi è consapevole di questo e conosce l’insidia che contiene sempre l’azione sociale e, quindi, politica nel suo sviluppo (così come avrebbe detto De Viti De Marco), è allora questa: si possono immaginare soluzioni di presenza pubblica nella vita economica che non siano portatrici di privilegi, abusi, forme sistematiche di concussione, di burocrazia avida di potere per il potere?

Non ho risposte precise. Conosco il passato e conosco le insidie del futuro. So però che vale la pena lavorare con realistica fantasia in questa direzione.

Il campo della concorrenza deve essere livellato per tutti; qualcuno deve essere pronto a tagliare le unghie a chi ha conseguito durevolmente privilegi non guadagnati ed a chi trae vantaggi occasionali non meritati.

Il dibattito, ancora aperto, sui “fondi sovrani” e su quelli “privati” può meritare una riflessione al netto della tendenza di qualcuno di essi di introdurre nel loro operare la funzione-obiettivo del “potere politico”.

Si può pensare ad un fondo sovrano che si riprometta di ottimizzare un rendimento di medio periodo, nel quale il capitale pubblico sia in minoranza, un fondo che investe in partecipazioni che debbono convivere con altro fondo della stessa natura, con il limite ch’esse non possono superare nel totale una soglia limitata? Riconosco che c’è il problema della trasparenza nella redazione dei bilanci di questi fondi e della responsabilità del CEO. Ne sono consapevole.

Ma nessuna soluzione è perfetta nella vita economica, quella reale. Si tratta però di muoversi con l’idea che si tende verso un “limite” che mai sarà raggiunto e che si presenta come una tela di Penelope destinata all’incompiutezza. Cominciamo ad immettere l’enzima della concorrenza in ogni ambito dell’attività produttiva. La concorrenza sola, di per sé, non è salvifica; ma è una garanzia per tutti. Più che altro riponiamo le armi di un confronto manicheo. Ben sappiamo che in quel confronto non agiscono uomini, ma sembianze di uomini, fuori della storia: scheletri senza vita. I modelli sulla carta “perfetti” hanno prodotto immani disastri. Si deve fare di più e di meglio; dipende anche dalle analisi degli operatori politici e della cultura che gli intellettuali contribuiscono a formare. Da L. Einaudi ho imparato la cautela con la quale si deve guardare ai “modelli ideali astratti”, vorrei essere capace di essere fedele a quel passaggio citato in precedenza.

Ma su questi aspetti la letteratura corrente è enorme e qualche tentativo di produrre interpretazioni convincenti è stato già tentato. Restiamo fiduciosi in attesa che qualche storico ci dia un libro di sintesi simile a quella che A. Cardini ci ha fornito per cento anni della storia dell’Italia unitaria e della quale, in casa sua, gli rivolgiamo un grazie affettuoso.



Bibliografia
Barucci Piero (1981), Il contributo degli economisti italiani (1921-1936), in AA.VV, Banca e industria fra le due guerre, vol. I, L’economia e il pensiero economico, Bologna: Il Mulino.

Cardini Antonio, 2010, Storia del liberalismo. Stato e mercato dal liberismo alla democrazia, Napoli: Edizioni scientifiche italiane.

Einaudi Luigi, 1955, Il Buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), a cura di Ernesto Rossi, Bari: Laterza.
Abstract
La storia del liberismo italiano di Antonio Cardini

(Antonio cardini’s History of italian liberalism )


Keywords: Liberalism, Italian state and politics, government intervention, Italian economists

JEL classification codes: B1


This paper deals with Cardini’s Storia del liberismo. Stato e mercato dal liberismo alla democrazia (2009). It offers the reader a consideration on the non-success of liberalism as a philosophical system and a line of political conduct in Italy. This historical fact makes the country different from the other western nations, and partly explains the weaknesses of the productive structure, the governmental and political instability and the recurring of an unsolved moral question.

Piero Barucci

Autorità Garante

della Concorrenza e del Mercato



P
ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100307
iero.Barucci@agcm.it

Giuseppe Sciara


RECENTI STUDI SUL PENSIERO POLITICO DI BENJAMIN CONSTANT

La figura e il pensiero di Benjamin Constant nell’ultimo trentennio hanno goduto di una straordinaria riabilitazione presso gli studiosi. Il personaggio non è più oggetto di pregiudizi150 né per la sua inquieta biografia, né per la tradizionale lettura storiografica delle due età di cui il liberale svizzero fu protagonista, il Direttorio e la Restaurazione, per lungo tempo concepite e sminuite come periodi di transizione. È stata largamente rivalutata soprattutto l’importanza della sua riflessione politica, svilita nel corso del Novecento a sinistra da una lettura marxista che la riduceva a mera maschera sovrastrutturale degli interessi borghesi e a destra da un’interpretazione ultraliberale e privatista inaugurata dall’identificazione della libertà moderna con quella libertà negativa teorizzata da Isaiah Berlin nel famoso saggio Two Concepts of Liberty.

La rinnovata fortuna del pensiero constantiano aveva inizio negli anni Ottanta e molto doveva al mutamento del clima culturale causato dalla crisi del marxismo. Inoltre, la scoperta nel corso degli anni Sessanta e Settanta dei trattati inediti del periodo consolare-imperiale aveva reso necessarie una più rigorosa analisi filologica e una più attenta ricostruzione della biografia di Constant, imponendo peraltro una riconsiderazione della tradizionale perio-dizzazione dualistica151 della sua riflessione politica. Con la scoperta dei Principes de politique del 1806 e dei Fragments d’un ouvrage abandonné sur la possibilité d’une constitution républicaine dans un grand pays, infatti, l’età di maturazione del pensiero constantiano si spostava dal periodo della Restaurazione a quello consolare-imperiale, rivalutando per questa via anche gli scritti direttoriali.

Pioniere di queste nuove direttrici di ricerca è stato innanzitutto Etienne Hofmann, direttore dell’Institut Benjamin Constant di Losanna, il quale nel 1980 ha curato, premettendovi un’ampia monografia di carattere storico e filologico, la pubblicazione dei Principes de politique del 1806, assurti in breve tempo a scritto centrale nel corpus dell’opera constantiana e nella storia del pensiero liberale dell’Ottocento (Constant, II:1980).152 Lo studioso svizzero, nel richiamare l’attenzione su aspetti metodologici sottovalutati dalla critica tradizionale, quali ad esempio il nesso inscindibile tra l’opera e la biografia di Constant e la fondamentale unità della sua riflessione, ha posto le basi per nuove e differenti interpretazioni del suo pensiero politico153. Tra le più influenti è il caso di ricordare quella proposta da Stephen Holmes nel 1984, incentrata sul ridimensionamento della critica constantiana a Rousseau e sulla sopravvalutazione della convergenza di idee tra il Ginevrino e Constant riguardo al principio della sovranità popolare (Holmes 1984: 86 e sgg). In Italia, i principali artefici della riscoperta e della rivalutazione del pensiero politico constantiano sono stati due studiosi di differente ispirazione, Mauro Barberis e Stefano De Luca. Il primo, sulla scia di Holmes, ha fornito un’interpretazione revisionista della teoria politica del liberale svizzero, finalizzata a evidenziarne le componenti democratiche e a ridurre le argomentazioni constantiane contro la dottrina roussoviana a mera critica ideologica, che avrebbe come unico bersaglio gli usi strumentali che ne hanno fatto i giacobini e i bonapartisti (Barberis 1988: 273-283). Il secondo ha invece ribadito l’ispirazione essenzialmente liberale della riflessione di Constant, sottolineando come la critica a Rousseau abbia un’importanza teorica fondamentale e qualora si parli di aspetti “democratici”, ciò possa avvenire soltanto postulando una concezione liberale della democrazia, che non è certamente l’unica possibile (De Luca 2003: 13).

Le tappe della prima fase della Constant Renaissance (1980-1993) e le cause di questo ritorno d’interesse, sono state ricostruite, discusse e contestualizzate nel dibattito contemporaneo su liberalismo e democrazia proprio da De Luca nel suo esauriente saggio-rassegna del 1997 (De Luca 1997), fondamentale sia per le importanti e accurate indicazioni metodologiche, sia per la definizione di paradigmi interpretativi utili non soltanto a capire l’orientamento di fondo degli studi sul pensatore svizzero, ma anche a smascherarne eventuali interpretazioni tendenziose (ivi: 156-157)154. Gli studi successivi al 1993 sono invece stati presi in esame da Maurizio Griffo (2005:75-85), la cui attenta ricostruzione si ferma alla monografia di De Luca del 2003.

In questa sede ci si concentrerà dunque sui contributi apparsi negli ultimi cinque anni. In primo luogo si farà il punto sullo stato degli studi constantiani nel nostro Paese prendendo in considerazione le monografie dedicate alla riflessione di Constant e le più recenti traduzioni in italiano dei suoi scritti; in secondo luogo si esamineranno i volumi stranieri che propongono un’interpretazione generale della figura e del pensiero politico del liberale svizzero. Analizzando questi contributi si avrà modo così di ripercorrere complessivamente i principali snodi teorici del pensiero politico e costituzionale di Constant attraverso tre fasi storiche: l’età direttoriale, quella consolare-imperiale e la Restaurazione. L’ultimo lustro della storiografia constantiana è assai significativo, sia sotto l’aspetto metodologico sia sotto quello interpretativo, per capire le prospettive di studio e le ultime tendenze di ricerca. Prendendo atto dell’ormai comprovata validità del paradigma metodologico basato sulla dicotomia tra princìpi e circostanze, nella maggior parte dei casi appaiono più convincenti quegli studi che all’analisi del pensiero etico-politico o costituzionale di Constant affiancano un’attenta e approfondita ricostruzione del contesto storico in cui il liberale di Losanna si trovò ad operare. Inoltre, come dimostrano soprattutto le ricerche condotte dalla studiosa americana Helena Rosenblatt, risulta oltremodo proficuo prendere in considerazione, sulla scia della tesi di Hofmann sulla complessiva unità della riflessione constantiana, non solo gli scritti politici, ma anche quelli letterari e quelli dedicati alla storia della religione, forse i meno indagati dalla critica tradizionale, e ricostruire anche i movimenti culturali e i dibattiti cui Constant prese parte nel corso della sua vita, per verificarne l’influsso sulla teoria politica. A livello interpretativo, infine, è evidente come negli ultimi anni continuino a contrapporsi due letture, “democratica” (o revisionista) e “liberale” (o neo-classica), del pensiero constantiano. L’interpretazione revisionista, ancora dominante la critica internazionale soprattutto grazie alle tesi di Holmes, sembra in parte in declino nel nostro Paese.

Come accennato, in Italia l’interpretazione “liberale” ha trovato la sua formulazione più convincente nella produzione scientifica di Stefano De Luca, autore nel 1993 di un volume su Constant corredato da un’ampia antologia e dieci anni dopo di quella che rimane tuttora la monografia più completa e approfondita sul pensiero politico di Constant negli anni del Direttorio e dell’Impero napoleonico (De Luca 2003). Con la sua rigorosa attività di ricerca, riconosciuta anche a livello internazionale155, ha inoltre colmato una lacuna non da poco per lo stato dell’opera constantiana in Italia traducendo nella nostra lingua(Constant 2007) quei Principes de politique del 1806 che nella storia del pensiero politico rappresentano «il passaggio obbligato tra lo Spirito delle leggi e il Contratto sociale da un lato e la Democrazia in America dall’altro»(De Luca 2003: 11).

Il volume italiano dei Principes de politique curato da De Luca si apre con una premessa di Etienne Hofmann che ripercorre le tappe della riscoperta di questo trattato rimasto inedito per più di un secolo e mezzo e ne sottolinea l’importanza per la rinascita degli studi constantiani a partire dal 1980. Hofmann si sofferma anche sulle modalità di scrittura e di pubblicazione di Constant il quale spesso negli anni della Restaurazione recuperò interi brani dai trattati inediti per rimodellarli, adattandoli alle circostanze, e farne discorsi parlamentari, saggi e pamphlets da gettare nella temperie politica156.

Nell’ampia introduzione De Luca condensa quanto già espresso in maniera approfondita nella seconda parte del suo volume sul pensiero constantiano tra il Termidoro e l’Impero, soffermandosi in particolar modo sulla complessa genesi e sulle modalità di composizione dei Princìpi di politica. Intorno al 1800 Constant comincia a lavorare a un Grande traité, eminentemente costituzionalistico che, concluso nel 1803, comprende anche una breve premessa sui princìpi della sovranità. L’opera in realtà nasceva da un lavoro intrapreso per motivi circostanziali e teorici negli ultimi anni direttoriali, la traduzione commentata dell’Enquiry on Political Justice di William Godwin, la cui pubblicazione verrà vanificata dal mutamento del clima politico in seguito al colpo di Stato di Brumaio. Constant, grazie alla collaborazione con Madame de Staël e alla lettura di un’opera di Sismondi, ha comunque modo in questa fase di mettere a punto la critica a Rousseau e la distinzione tra libertà antica e moderna che andranno a far parte del Grand traité del 1803, mai pubblicato e andato perduto. Proprio da quest’opera il liberale svizzero estrapola la premessa, contenente la critica al Ginevrino e alcune riflessioni sul principio di sovranità, per farne un saggio che diverrà ben presto un consistente trattato sui princìpi applicabili a tutte le forme di governo. L’opera, ci spiega De Luca, costituisce un passaggio cruciale nel pensiero constantiano poiché con essa Constant scinde «la problematica della libertà dalla questione del governo»: se durante il Direttorio per lui «la repubblica rappresentava ancora un ideale etico-politico complesso – l’incarnazione della tradizione della libertà e dei lumi – ora è soltanto una forma di governo che non è legata in modo consustanziale alla libertà» (De Luca, Introduzione a Constant, 2007: XLIII). La forma di governo da questo momento in poi per Constant non rileva più sulla natura liberale o dispotica di uno Stato.

Dopo aver analizzato la struttura del trattato constantiano e averne proposto una sorta di indice ragionato, De Luca, impossibilitato a tratteggiarne le idee principali, si concentra sul «tema che costituisce il cuore e la ragion d’essere dell’opera: la riflessione sui princìpi relativi alla natura e all’estensione del potere» (ivi:XLVIII) Lo studioso italiano ricostruisce in maniera rigorosa la critica di Constant a Rousseau, mettendo in luce la distanza che separa i due autori e sottolineando come le argomentazioni anti-roussoviane abbiano «un indubbio rilievo» (ivi: LVI) per il luogo in cui si collocano all’interno del trattato, per lo spazio che occupano, per l’articolazione dei concetti, tutti fattori che non ne giustificano il ridimensionamento teorico proposto da studiosi come Holmes e Barberis. Certo, riconosce De Luca, Constant critica apertamente gli usi pretestuosi che sono stati fatti della dottrina di Rousseau e riconosce le intenzioni liberali del Ginevrino. Tuttavia, è lo stesso Constant che ha ben chiara la differenza tra critica ideologica, rivolta alle strumentalizzazioni di una dottrina, e critica teorica ed è altrettanto chiaro che il sistema roussoviano gli appaia «intrinsecamente anti-liberale» (ivi: LVII): certamente i princìpi di Rousseau sono divenuti un pretesto per abusare del potere, ma avrebbero condotto inevitabilmente a quei risultati nefasti. Quanto alle intenzioni liberali di Rousseau, Constant riconosce al Ginevrino il «sentimento della libertà, ma non la paternità di una teoria liberale» (ivi: LVIII): la dottrina roussoviana gli appare al contrario assolutamente dispotica poiché si fonda sull’identificazione della libertà con il potere sociale.

Se dal punto di vista editoriale la versione italiana dei Principes costituisce senza dubbio il contributo più importante, è il caso di segnalare brevemente altre recenti traduzioni di scritti constantiani, a testimonianza del continuo e duraturo interesse del mondo culturale italiano per l’opera del pensatore svizzero. A distanza di cinquantotto anni dalla prima edizione (Constant 1950) e a dodici da un volume dedicato alla polemica tra Constant e Kant sul diritto di mentire (Kant, Constant, 1996)157, nel 2008 sono stati infatti riproposti in italiano i due pamphlets direttoriali più noti: Le reazioni politiche e Gli effetti del Terrore (Constant 2008). La breve premessa di Mauro Barberis, nel ricostruire il contesto storico e la situazione politica degli anni del Direttorio, poco aggiunge a quanto già espresso dall’autorevole filosofo del diritto nei contributi precedenti, salvo sottolineare maggiormente, rispetto alla monografia del 1988, il valore teorico e normativo della critica constantiana al Terrore. Certo, l’aspetto circostanziale e le motivazioni strategiche della riflessione constantiana rimangono dominanti nella lettura di Barberis, il quale tuttavia evidenzia come nel Des effets de la Terreur se il giovane Constant «rifiuta una giustificazione di principio del Terrore non è solo per ragioni tattiche; manifestamente vi è già, in questo testo repubblicano, la tesi liberale secondo cui ci sono cose che nessun governo può fare»158.

Più interessanti sono le pagine con cui Barberis, insieme con Giovanni Paoletti, introduce una nuova traduzione italiana del pamphlet del 1814, De l’esprit de conquête et de l’usurpation dans leurs rapports avec la civilisation européenne (Constant 2009). I due studiosi italiani, pur ricostruendo attentamente le ragioni d’occasione della stesura del testo, sottolineano giustamente come in questo scritto sia presente anche una forte componente teorica. Le argomentazioni sul commercio come strumento moderno e pacifico di acquisizione della proprietà opposto all’anacronismo intrinseco della guerra sono assai chiare nell’analisi constantiana. I due studiosi italiani, però, mitigano l’aspetto apparentemente economicistico di queste considerazioni e mettono in guardia dall’interpretare l’elogio del commercio come un’esaltazione individualistica dell’economia di mercato, affermando che per Constant come «la guerra non è sempre un male quando è legittima guerra di resistenza» allo stesso modo «non si può esser sicuri che il commercio sia da solo garanzia di benessere e libertà»159. Se da una parte, non si può certo negare che il liberalismo constantiano sia tutt’altro che d’ispirazione economicistica, dall’altra Barberis e Paoletti nelle ultime pagine di questa introduzione sembrano individuare proprio nella dicotomia e nella contrapposizione tra sfera politica e sfera economica il tratto distintivo del liberalismo constantiano. In questo pamphlet come nelle altre opere constantiane, però, lo scarto non riguarda politica ed economia, ma potere istituzionalizzato e sfera personale. L’individualismo constantiano, privo di tratti economicistici, ma anche di esigenze puramente politiche, si configura come rivendicazione di uno spazio interiore in cui avviene il perfezionamento spirituale del singolo.

Barberis e Paoletti tentano dunque in più occasioni di assimilare i contenuti dello scritto legittimista del 1814 al Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni, con esplicito riferimento alle affermazioni constantiane sul valore della libertà-partecipazione. Il contrasto tra sfera politica ed economica si risolverebbe a favore della prima poiché per Constant «la politica, lungi dall’essere al servizio dell’economia, era davvero, come dirà nella conferenza del 1819, “il mezzo più possente e più energico di perfezionamento che il Cielo ci abbia dato”» (Constant 2009a: XXVI). Nel De l’esprit de conquête e de l’usurpation, però, manca l’appello, presente invece nel Discours del 1819, alla libertà politica come mezzo di perfezionamento della specie umana, ciò che rende l’opera del 1814, grazie anche ad argomentazioni permeate di legittimismo monarchico, lo scritto che meno si presta ad un’interpretazione democratica del pensiero constantiano.

D’ispirazione profondamente diversa è la lettura che Luigi Marco Bassani fornisce dello stesso pamphlet, la cui traduzione è condotta sulle quattro edizioni pubblicate da Constant tra il gennaio e il maggio del 1814 (Constant 2009b). Nella sostanziosa introduzione il curatore (e traduttore) si sofferma innanzitutto sulle interpretazioni tradizionali del pensiero constantiano nel secondo dopoguerra, criticando l’operazione culturale e ideologica messa in atto dalla storiografia marxista. Il riferimento, nello specifico, è alla lettura di Umberto Cerroni (Constant 1970), che, imperniata sul confronto tra il pensiero di Rousseau e quello di Constant, è finalizzata allo «scavalcamento» delle dottrine dei due pensatori svizzeri da parte della riflessione di Marx, «araldo di nuove e più alte forme di libertà»(Constant 2009b: 18). Tuttavia, spiega Bassani, anche nella prospettiva liberale della seconda metà del Novecento, diffidente verso le costruzioni sociali razionalistiche, il pensiero constantiano viene relegato in una posizione marginale per via del ruolo centrale riconosciuto alla ragione quale «tribunale a cui sottoporre tutte le questioni umane» (ivi: 22).

Bassani, nell’affermare il suo apprezzamento per le recenti linee di ricerca di matrice liberale e criticando a più riprese le letture revisioniste, ripercorre alcuni aspetti del costituzionalismo e del pensiero politico constantiano e indugia in particolar modo sulla questione dei diritti naturali, caratterizzata da «un’ambiguità di fondo»(ivi: 34), e sulla concezione della proprietà privata in Constant. Lo studioso italiano pone l’accento sulla natura di “convenzione sociale” della proprietà, escludendo tuttavia che il liberale svizzero intendesse in qualche modo legittimare alcun intervento della società su questo diritto inviolabile. La sacralità della proprietà, più volte ribadita da Constant, non trova fondamento come in Locke in una condizione presociale, ma nel conferimento dei diritti politici ai soli proprietari, poiché il diritto di voto è visto come un’arma «che logicamente sarebbe utilizzata dai non proprietari»(ivi: 37) per espropriare i possidenti. Bassani condivide dunque la lettura privatista di Isaiah Berlin, ma rileva tuttavia che il diritto di proprietà, declassato da Constant dal cerchio dei diritti inalienabili, diventa «fondamento politico e garanzia del sistema»(ivi: 38). Insomma, nel pensiero constantiano si avrebbe «un potenziamento del diritto di proprietà per mezzo di una sua apparente degradazione»(ivi: 55).

Anche in Conquista e usurpazione il profilo ultraliberale, e per molti versi economicistico, del pensiero constantiano si manifesta in tutta la sua evidenza secondo lo studioso italiano, il quale nelle argomentazioni a favore del commercio legge una confutazione della tesi che «l’economia di mercato, gli scambi fra individui adulti e consenzienti, siano il regno della sopraffazione»(ivi: 44). Riguardo alla nota tesi sulla libertà degli antichi e dei moderni, poi, Bassani non ha dubbi nell’affermare che in Constant è incontrovertibile l’esistenza di un «progetto di disimpegno totale dalla politica»(ivi: 51), poiché l’uomo per essere felice ha bisogno di essere lasciato in uno stato di indipendenza assoluta nella sfera dei propri affari e delle proprie occupazioni. Come si può vedere, la lettura di Bassani è antitetica a quella di Barberis e Paoletti e sembra eccedere nella direzione opposta: affermando un disinteresse totale dell’individuo per le istanze politiche, dipinge un Constant quasi libertario e trascura una delle ricorrenti preoccupazioni del pensatore svizzero, ossia la ricerca di una stabilità statuale ritenuta essenziale per l’affermarsi della libertà individuale.

Oltre alle nuove traduzioni di opere constantiane, negli ultimi anni vedono la luce in Italia due nuovi contributi monografici sul pensiero di Constant, ad opera di Paola Giordano e Tarcisio Amato. Entrambi gli studi poco aggiungono sul piano dell’interpretazione generale del pensiero constantiano, ma risultano assai interessanti per la capacità di mettere in luce, da prospettive in parte differenti, il fervore liberale che caratterizza la riflessione costituzionale.

Lo studio di Paola Giordano (2005), pur inserendosi in quella tradizione interpretativa che sulla scorta di Hofmann e De Luca individua nelle opere direttoriali le idee, in embrione, che verranno sviluppate nei periodi successivi, non segue un criterio espositivo cronologico. È questo forse un punto di debolezza dell’intero lavoro, costruito sulla lettura decontestualizzata di opere scritte da Constant in periodi storici sensibilmente diversi. La studiosa italiana tenta una ricostruzione “per concetti” del costituzionalismo constantiano, considerato notevole non per l’importanza tecnica dei dispositivi istituzionali, quanto perché il pensatore svizzero pone alcune questioni che rimangono tuttora nodali nella riflessione contemporanea di giuristi e politologi. Le idee di Constant secondo Giordano, costituiscono l’anello di congiunzione tra il costituzionalismo anglosassone, che individua nel meccanismo di bilanciamento dei poteri l’elemento chiave che garantisce il funzionamento istituzionale, e il costituzionalismo francese imperniato sul concetto centrale dell’«idea unitaria del popolo sovrano»(ivi: 15), che nella variante di Rousseau si traduce nella volontà generale, in quella di Sieyès nella sovranità nazionale, ma in entrambi i casi nega il pluralismo. Proprio su questo punto si concentra Constant, individuando nella libertà il principio che legittima le leggi e la costituzione.

Secondo Giordano la posizione politica constantiana, all’indomani della Rivoluzione, è ispirata da due esigenze differenti: da una parte la necessità di preservare l’individuo dal conformismo culturale e dal carattere ipertrofico della politica, dall’altra di difenderlo da quell’instabilità di istituzioni e società spesso causata dall’eccessivo relativismo. La confutazione dell’unitarietà e dell’illimitatezza della sovranità e la ricerca, per gli atti statali amministrativi e legislativi, di una nuova base di legittimità differente dall’idea della legge come espressione infallibile della volontà generale costituiscono, secondo la studiosa italiana, i tratti originali della riflessione del liberale svizzero.

Tralasciando la puntuale ancorché ormai convenzionale ricostruzione delle argomentazioni sulla limitazione della sovranità, su cui Giordano individua l’incolmabile distanza rispetto alla teoria roussoviana, è possibile individuare un punto di forza del volume nell’analisi del concetto constantiano di legalità. L’autore dei Principes de politique richiama una nozione di legge non unitaria, fondata non astrattamente sull’idea di volontà generale, «ma sulla razionalità individuale riconoscibile attraverso forme comuni, storicamente riconoscibili, poste a tutela della libertà»(ivi: 111). Per il pensatore svizzero la libertà non può identificarsi nella legge se quest’ultima non riconosce come suoi limiti i diritti individuali. Non è sufficiente il principio di garanzia stabilito da Montesquieu, cioè che la libertà consiste nel poter fare ciò che le leggi non proibiscono, poiché questa affermazione non chiarisce ciò che le leggi hanno il diritto o meno di proibire. Constant insomma intuisce che l’idea di diritto non deve esaurirsi nell’idea di legalità, ma pone l’accento sulla valorizzazione della componente individuale che fa emergere un sostanziale spazio di critica e di autonomia. In questo modo la libertà si configura come «fondamento non solo ideologico, ma giuridico della legalità»(ivi: 116) e l’obbedienza alle leggi diviene un dovere relativo fondato sulla supposizione dell’origine legittima della legge. È nella forma costituzionale che risiede la razionalità del diritto, una razionalità che non si tramuta in sacralità della legge come nella concezione illuministica, poiché il contenuto dell’atto legislativo viene sottoposto all’esame critico individuale.

La duplice esigenza dell’individuo moderno da una parte di esprimere la propria individualità attraverso l’esame critico e dall’altra di poter contare su di un sistema di valori stabili espresso attraverso forme giuridiche ben precise che si consolidano nel tempo è, secondo Giordano, il tratto distintivo del pensiero di Constant, il quale individua nel federalismo lo strumento più adatto a regolare il rapporto tra individuo e Stato. In primo luogo perché, creando le condizioni ideali per l’esaltazione del conflitto e dell’antagonismo, permette all’individuo di porre rimedio ai pericoli di omologazione insiti nell’accentramento politico. In secondo luogo, grazie al ritorno dell’individuo alle proprie radici e grazie alla vicinanza fisica alle istituzioni, il federalismo fa sì che l’individuo non si disaffezioni alle questioni riguardanti il proprio Paese e non si adegui all’indifferenza e all’apatia politica tipica dei moderni.

Tutta l’analisi di Giordano è orientata alla confutazione, da una prospettiva giuridico-politica, delle interpretazioni democratiche del pensiero di Constant. Riconoscendo il centro gravitazionale della sua riflessione nell’indagine del rapporto tra individuo e Stato, la studiosa italiana mette in luce gli elementi che permettono l’inserimento a pieno titolo del pensiero constantiano nel novero del liberalismo classico, spesso elitariamente borghese. Del resto, Giordano non manca di sottolineare che un’altra grande intuizione constantiana, la concezione della rappresentanza intesa come necessità di rassegnarsi a una limitata alienazione di sovranità, viene concepita comunque in funzione di un suffragio conferito su base censitaria. Su questo punto l’autrice fa uso di una terminologia marxista ormai superata, definendo Constant come uno «scrittore politico borghese, che non nasconde l’ostilità per le eventuali conseguenze di una possibile estensione del suffragio, se non su rigida base censitaria» (ivi: 61-62), trascurando il contesto storico in cui il pensatore svizzero esprime queste idee, un contesto, quello della Restaurazione, in cui praticamente nessuna forza politica chiede il suffragio universale e soltanto i liberali, di cui Constant è il leader parlamentare, si battono per un progressivo allargamento del diritto di voto. In ogni caso, a Giordano preme sottolineare che per il liberale svizzero la rappresentanza permette all’antagonismo di rimanere vivo e, grazie alla negoziazione e al compromesso, consente il comporsi in Parlamento di una volontà comune che scaturisce dalla molteplicità delle istanze individuali.

Analogamente, la concezione constantiana dell’opinione pubblica, vista come un’alternativa fondamentale alla struttura di potere espressa dalla maggioranza in parlamento, non può che rientrare a pieno titolo nella tradizione liberale classica. Intendendo l’opinione pubblica come un corpo intermedio fra istituzioni e cittadini, Constant richiama l’idea di consenso come concetto legittimante il potere, ma resta senza dubbio ancorato a una visione elitaria della struttura statuale, in nessun modo riconducibile al pensiero democratico.

Il breve volume di Amato, godendo di un’opportuna contestualizzazione storico-politica e di un approccio non ideologico al pensiero constantiano, si presenta come una buona sintesi dei suoi princìpi politici e costituzionali (Amato 2006). Il lavoro, nella prima parte, ripercorre i capisaldi della teoria politica constantiana, mentre nella seconda e nella terza ha il merito di ricostruire la riflessione costituzionale del periodo imperiale, nei Fragments, e dell’età della Restaurazione, nelle Réflexions160. Le argomentazioni sulla limitazione della sovranità, nelle quali Amato rintraccia il fondamentale influsso di Sieyès, costituiscono la premessa concettuale per il costituzionalismo. Alle critiche a Rousseau e Montesquieu lo studioso italiano assegna un’oggettiva importanza teorica, presentandole come centrali nell’impianto dottrinale constantiano. Assai interessante è la ricostruzione della teoria dello Stato minimo, sulla quale Amato mette in luce i debiti constantiani nei confronti di Adam Smith e mostra come Constant, ininterrottamente ispirato dall’esigenza di difendere l’individuo dall’arbitraire, distingua tra funzioni positive e funzioni speculative dello Stato. Le prime, che individua nella difesa esterna, nella tutela dell’ordine interno e nel prelievo fiscale per coprire le spese connesse alle prime due funzioni, corrispondono ai limiti dell’autorità sociale. In aggiunta a queste, fa notare Amato, Constant implicitamente ammette, sempre sulla scorta di Smith, la necessità di adempiere a compiti infrastrutturali per lo Stato. Le funzioni speculative si riferiscono invece ad uno Stato interventista sul mercato, ad eventuali operazioni di correzione e, non avendo alcun tipo di limite, per Constant possono portare facilmente all’arbitraire. La condanna delle misure speculative dimostra che le posizioni constantiane in economia sono più liberali delle sue posizioni politiche.

La parziale apertura ad istanze democratiche del pensiero constantiano emerge dall’analisi che Amato conduce sui Fragments. Lo studioso italiano contestualizza la proposta costituzionale di Constant nelle vicende del Tribunato e si sofferma in particolare sulle critiche alla Costituzione dell’anno VIII, al potere di iniziativa attribuito esclusivamente all’esecutivo e al ruolo puramente consultivo del Tribunato nelle fasi di proposta e di promulgazione delle leggi (Amato 2006: 77). All’interno della funzione legislativa, il liberale di Losanna individua un’anomalia assai pericolosa nella netta separazione tra momento della discussione di competenza del Tribunato e momento della decisione prerogativa del Corpo legislativo. È anomalo che il potere d’iniziativa sia unicamente nelle mani dell’esecutivo (attraverso il Consiglio di Stato) e ne vengano esclusi i rappresentanti del popolo, portavoce dei bisogni della nazione. Questo potere per Constant dovrebbe spettare a diversi organi, dal cui confronto scaturirebbero varie e molteplici idee.

La prospettiva muta solo in parte nel costituzionalismo monarchico del periodo della Restaurazione, in cui è palese il «recupero pressoché integrale del modello costituzionale inglese» (in proposito cfr. anche De Luca, 2007-2008: 107-123). Tutti i poteri costituiti, compreso il monarca, derivano la loro legittimità dalla Charte, i cui cardini devono essere la suddivisione dei poteri, i diritti politici e quelli individuali. Nelle Réflexions, ai tre poteri tradizionali Constant aggiunge il potere neutro, già enunciato nei Fragments e qui riproposto in chiave monarchica. L’analisi si concentra inoltre sull’importanza del bicameralismo e su un quinto potere in aggiunta ai tre tradizionali e a quello neutro, ossia il potere municipale, indipendente dall’esecutivo. Amato ben ci mostra come la ripartizione dei poteri per Constant non sia sufficiente a garantire gli individui dall’arbitraire, nei confronti del quale un ruolo decisivo è giocato dalla libertà di stampa in grado di formare un’opinione pubblica. A questo proposito lo studioso italiano mette in luce i temi pretocquevilliani presenti nelle argomentazioni constantiane sulla difesa delle autonomie locali e sulla critica del centralismo di Parigi. Questi aspetti del pensiero constantiano, l’idea che non siano sufficienti i dispositivi costituzionali per preservare l’individuo dai soprusi dei governanti, il ridimensionamento del carattere positivista della politica così come la rivalutazione del ruolo dei corpi intermedi consentono ad Amato di mettere in luce il non trascurabile versante liberal-conservatore della riflessione di Constant.

Allargando lo sguardo ai contributi stranieri, si può notare una certa vitalità e fertilità degli studi constantiani non soltanto nell’ambiente accademico franco-svizzero, che gode peraltro dell’incessante attività scientifica dell’Institut Benjamin Constant di Losanna, ma anche in quello statunitense. Francia, Svizzera, Italia e Stati Uniti sono dunque i Paesi in cui il pensiero constantiano suscita maggior interesse e non è un caso, come si vedrà più avanti, che i maggiori studiosi constantiani chiamati a contribuire al Cambridge Companion to Constant provengano da queste aree geografiche.

Come accennato, la dicotomia tra princìpi e circostanze costituisce per gli studi constantiani un valido paradigma metodologico, che diviene una chiave di lettura interpretativa dell’intera riflessione politica nel volume di Emeric Travers (2005). La monografia dello studioso francese si presenta fin dall’inizio come un’opera a tesi, che spesso soffre di un’eccessiva astrazione teorica e che prende le mosse dall’esame del periodo termidoriano e dello iato creatosi tra princìpi e storia: Constant, all’indomani della Rivoluzione, appare a Travers il teorico in grado di «réconcilier les principes et l’histoire» (ivi:19) , di promuovere il ritorno a una politica fondata sulla ragione e di dimostrare in tal modo che i princìpi rivoluzionari si sono trovati associati al Terrore a causa di una interpretazione abusiva favorita dalla loro astrattezza. Travers ricostruisce, in questa prospettiva, il tentativo constantiano di separare i princìpi dell’Ottantanove da quelli del Novantatre, la formulazione del concetto di pretesto politico e il dibattito sul Terrore con Lezay-Marnesia.

L’analisi si basa, soprattutto nella prima parte, essenzialmente sull’esame degli scritti direttoriali, in cui l’esigenza di «défendre le régime républicain» è per Travers una conseguenza logica della visione storica di Constant e «ne peut en aucun cas être réduit à une prise de position purement conjoncturelle» (ivi: 202). La preferenza per la forma repubblicana, che per lo studioso francese è una costante nel pensiero politico constantiano, è legata ad una filosofia della storia che vede nell’avvento dell’uguaglianza un inesorabile processo cui è inutile opporsi. La riflessione del periodo direttoriale sarebbe dunque ispirata essenzialmente all’esigenza di dimostrare l’ineluttabilità del valore dell’eguaglianza, di cui il Direttorio è l’espressione istituzionale.

Premesso ciò, Travers esamina le basi filosofiche della visione storica di Constant, il quale, «partisan d’un rationalisme souple et concret» (ivi: 320), arriva a criticare il giusnaturalismo non solo per la rappresentazione distorta della società come somma di unità omogenee, gli individui, ma anche per l’intrinseco apriorismo che presuppone una concezione deduttiva della scienza. Per il liberale svizzero i princìpi possiedono invece una natura induttiva che sul piano politico si esplica in una concezione della società che non necessita di un atto fondante e che è in grado di autoregolarsi. Questo ragionamento permette a Travers, sulla scia delle tesi di Gauchet (1980; 1989: 865-873), di identificare nella ricerca di un nuovo assetto politico basato sull’«auto-regolation» l’essenza della riflessione constantiana, un’esigenza che allo studioso francese sembra superiore all’affermazione del valore della libertà individuale. Ecco quindi che Constant diviene il teorico di un sistema rappresentativo, in cui «la discussion et la délibération deviennent la règle» (Travers 2005: 422). Le argomentazioni sulla definizione di una sfera individuale in cui l’autorità non ha alcun diritto di intervenire rimangono sullo sfondo, mentre l’analisi dello studioso francese si concentra sul concetto di perfettibilità e sull’eguaglianza come fine ultimo della storia.

Anche la posizione politica constantiana durante la Restaurazione viene interpretata secondo il medesimo approccio. Travers non ascrive a motivazioni di natura circostanziale il passaggio dalle posizioni repubblicane a quelle monarchiche, ma ritiene che «la forme républicaine est abandonnée au profit de la forme monarchique parce que cette dernière est en mesure d’accomplir ce que la première laissait inachevé» (ivi: 553). Insomma nell’opzione monarchica e nel potere neutro del re si concretizzerebbe quella riconciliazione dei princìpi con la storia che sarebbe l’obiettivo perseguito fin dall’età direttoriale da Constant. Tuttavia, come conciliare l’ereditarietà della monarchia con una visione della storia che coincide con il progressivo raggiungimento dell’eguaglianza? Più che l’esigenza congiunturale di vedere garantita la libertà, ad ispirare questa posizione politica constantiana sarebbe dunque, ancora una volta, l’esigenza teorica di armonizzare la propria concezione della storia con la ricerca di una soluzione politica adatta ad una società «d’egaux»: «c’est parce que l’égalité est devenue le principe fondamental des sociétés modernes que Constant juge indispensable une déclinaison politique et institutionnelle de l’hérédité» (ivi: 568). Il liberale di Losanna dunque sosterrebbe la monarchia ereditaria non solo per la difesa del principio di libertà – della libertà possibile in quelle determinate circostanze storico-politiche –, ma anche per trovare una soluzione istituzionale conforme alla marcia verso quell’eguaglianza civile cui l’umanità tende inesorabilmente.

È in quest’ottica che nelle ultime pagine del volume Travers si concentra sul richiamo, nella riflessione constantiana, alla «nécessité du politique» (ivi: 628). Sottolineando il fascino che gli antichi (ivi: 636)161 esercitano su Constant e ponendo l’accento su quell’unico passo degli scritti constantiani, nelle ultime pagine del Discours del 1819, in cui si fa riferimento alla libertà-partecipazione come potente mezzo di perfezionamento umano, arriva a sostenere che «“le triomphe de l’individualité” n’est pas réductible à la seule garantie des droits de l’individu» (ibidem). Inoltre, secondo lo studioso francese, la libertà politica per Constant «ne peut se réduire au seul contrôle des gouvernants» (ivi: 633), non ha cioè soltanto un valore di garanzia della libertà individuale, ma costituisce l’altra faccia della libertà moderna. Nell’analisi di Travers il pensatore svizzero, pur rifiutando «l’omnicompétence et la primauté du politique» (ivi: 640), diviene dunque «tout à la fois le contempteur d’un Etat hypertrophié et le défenseur des vertus spécifiques de la participation politique» (ibidem). Tuttavia, così come non è possibile sostenere che nella riflessione constantiana ci sia un disinteresse totale per la politica, allo stesso modo è difficile considerare Constant un difensore delle prerogative della libertà partecipativa e tentare di equiparare, come fa Travers, le istanze politiche alle istanze individuali. Nel pensiero constantiano la libertà individuale è assiologicamente superiore alla libertà politica, che viene concepita come un mezzo di garanzia della prima. Al di là del retorico162 richiamo alla libertà politica come potente mezzo di perfezionamento umano, sembra difficile sostenere, come fa Travers, che Constant si ponga il problema di «comment inciter les individus à participer de manière plus active à la vie de leur nation» (Travers 2005: 638). In definitiva, l’analisi di Travers se pur apprezzabile per il tentativo di ricostruire i presupposti filosofici del pensiero politico di Constant e di interpretarlo e valutarlo alla luce della sua filosofia della storia, non fa altro che riprendere da una diversa prospettiva, svuotando peraltro il personaggio della sua dimensione pratica di uomo profondamente calato nella temperie politica del suo tempo, alcune tesi revisioniste ormai classiche nella storiografia constantiana.

Ben altra acutezza interpretativa mostrano i due volumi nati dall’intensa attività di Helena Rosenblatt, già attenta studiosa del pensiero etico-politico di Rousseau (Rosenblatt 1997) e negli ultimi anni concentrata principalmente sulla riflessione religiosa di Constant.

La sua monografia edita nel 2008 costituisce indubbiamente una tappa di grande interesse nella recente storiografia sulla figura e sul pensiero del liberale di Losanna. Come la stessa autrice evidenzia in più punti, lo studio è ispirato dalla tesi di Hofmann secondo cui la riflessione di Constant, indiscutibilmente connessa con la sua biografia, nonostante si esprima sotto varie forme (trattati, romanzi, articoli, pamphlets) e in ambiti assai diversi (politica, letteratura, religione) costituisca un corpus unitario e organico. Tenuto conto di ciò, l’idea di fondo del volume è che la riflessione sul tema della religione, troppo spesso sottovalutata dalla critica, e il lungo dibattito intellettuale e politico su cattolicesimo e protestantesimo che ha investito la Francia all’indomani della Rivoluzione abbiano avuto un’importanza fondamentale non soltanto nell’evoluzione personale e spirituale di Constant, ma soprattutto nell’elaborazione della sua teoria politica e della sua idea di libertà.

La forte carica spirituale del liberalismo constantiano è una componente che non è certo sfuggita ai maggiori studiosi, ma non è mai stata oggetto di un’indagine sistematica. Per colmare questa lacuna Rosenblatt si affida allo strumento della biografia intellettuale e a scelte metodologiche ben precise: da una parte l’adozione di un criterio storico-cronologico, nell’ottica di una ricostruzione evolutiva dell’attività intellettuale di Constant attraverso le opere letterarie, gli scritti dedicati alla religione, i pamphlets e le opere teoriche; dall’altra la minuziosa ricostruzione del contesto religioso, dei dibattiti, delle discussioni politiche sulle tematiche del culto, della tolleranza religiosa e della morale cristiana negli anni di formazione e in quelli in cui il pensatore svizzero visse da protagonista la realtà politica francese. Il pluralismo di punti di vista nella ricostruzione del pensiero constantiano, condotta attraverso le critiche e le argomentazioni dei suoi oppositori, costituisce senza dubbio un punto di forza di questo studio.

Rosenblatt si concentra anzitutto sull’analisi dell’ambiente aperto e tollerante di Edimburgo, alla ricerca di quelle componenti religiose e filosofiche che influenzeranno fortemente il pensatore svizzero negli anni seguenti: l’interesse quasi ossessivo per la storia, l’attenzione al concetto di progresso, l’importanza attribuita al cristianesimo nel processo di civilizzazione. Se in questi primi anni Constant appare più vicino alle posizioni atee dei philosophes della Parigi di fine Settecento, dove trascorre brevi periodi all’indomani dell’esperienza scozzese, qualche tempo dopo, negli anni di Brunswick, il protestantesimo comincerà a configurarsi come una matrice fondamentale nella sua visione, grazie all’incontro con Jakob Mauvillon, intellettuale che lo introduce all’Illuminismo e alla nuova teologia tedesca.

Uno dei punti di maggiore interesse del volume è l’analisi dedicata al periodo direttoriale, quando Constant, tornato a Parigi, si schiera apertamente a favore della Repubblica. La studiosa americana, opportunamente, evita di ricostruire il contenuto dei pamphlets direttoriali, un’operazione che sarebbe priva di originalità essendo già stata compiuta da altri autorevoli studiosi. Certo, Rosenblatt non manca di mettere in luce l’evoluzione del pensiero politico constantiano in quegli anni decisivi, facendo propria la lettura secondo cui gli scritti giovanili contengono in nuce il liberalismo constantiano delle opere più mature163. Tuttavia, la studiosa americana è interessata soprattutto alle dispute politiche in materia di valori morali e di libertà religiosa e alle politiche termidoriane nei confronti del cattolicesimo, scaturite dalla preoccupazione per il pericolo controrivoluzionario insito nelle forze clericali. L’atteggiamento filogovernativo di Constant, conforme alle idee anticattoliche degli Idéologues, viene ricostruito non soltanto attraverso gli scritti d’occasione e la pubblicistica, ma anche attraverso le critiche rivoltegli da Bonald, La Harpe e Necker. Si tratta di un’analisi che, condotta su più fronti e su fonti diversificate, getta una nuova luce sul ruolo politico e intellettuale ricoperto da Constant in quegli anni cruciali, sulla sua totale e ininterrotta aderenza alla politica governativa, sul suo rapporto privilegiato con i membri del Direttorio e sul suo coinvolgimento politico in qualità di presidente del cantone di Luzarches. Nel descrivere l’enorme fervore intellettuale racchiuso nella dinamica tra difensori e oppositori del cattolicesimo l’analisi della studiosa americana apre a nuovi spunti d’indagine e a nuove riflessioni sulla effettiva coerenza del pensatore svizzero con i princìpi liberali di cui si fa portavoce.

Anche per il periodo napoleonico Rosenblatt dipinge un quadro storico complesso e variegato in cui al «catholic revival»(ivi: 76), avviato da Bonaparte, personaggi “illuminati” come Constant, Madame de Staël e Necker oppongono un «plan to protestantize France»(ivi: 80). In questi anni il liberale svizzero, pur non scrivendo nulla sul tema della religione, grazie all’influenza di Charles de Villers e soprattutto del poeta tedesco Christoff Martin Wieland, conosciuto durante un viaggio a Weimar, matura l’idea che la religione sia sottoposta al progresso nel corso del tempo e fa propria la distinzione tra le “forme” esteriori delle religioni positive e il concetto di “sentimento” religioso, che diverrà fondamentale in tutto il suo pensiero.

Sono questi gli anni in cui Constant da semplice autore di pamphlets diviene «a truly liberal political thinker»(ivi: 122) scrivendo il suo «most definitive political texte»(ibidem), i Principes de politique del 1806. La completa maturazione del pensiero constantiano, secondo Rosenblatt, si coglie soprattutto nell’ottavo libro, dedicato alla libertà religiosa, in cui Constant si pone in maniera critica sia nei confronti dei pensatori d’ispirazione cattolica, sia nei confronti degli Idéologues. La religione non costituisce per lui, come nella visione più conservatrice, uno strumento del potere per il mantenimento dell’ordine sociale, né tantomeno rientra nella sfera di competenza statale stabilire una confessione nazionale; allo stesso tempo però Constant non svaluta l’importanza della religione e, prendendo le distanze dai philosophes, ne sottolinea al contrario le potenzialità nell’educazione e nel progresso morale dell’uomo.

Passando all’età della Restaurazione, il minuzioso studio di Rosenblatt intende innanzitutto demolire un pregiudizio biografico, ossia l’etichetta di «inconstant Constant» attribuita al liberale svizzero dai suoi oppositori per via del suo coinvolgimento nelle politiche napoleoniche durante i Cento Giorni. In secondo luogo, analizzando i Principes de politique del 1815 e i Mémoires sur les cent jours del 1820, la studiosa americana focalizza l’attenzione sul concetto constantiano di potere e ci mostra che, nonostante l’abbandono delle simpatie repubblicane in favore di quelle monarchiche, la principale preoccupazione di Constant rimane sempre la medesima, ossia non la titolarità del potere, quanto la sua estensione. Infine, in questa fase di forte riflusso cattolico la difesa della libertà in ambito politico, così come quella in ambito religioso, vanno di pari passo nella riflessione di Constant. La religione non viene da lui concepita come un insieme di dogmi, piuttosto come un “sentimento”, esperito da ciascun individuo, che favorisce lo sviluppo morale dell’uomo. Per questa funzione moralizzatrice circoscritta alla sfera individuale, la religione deve rimanere perfettamente indipendente da ogni autorità politica.

È nel De la religion, opera cui Constant aveva lavorato fin dalla giovinezza, che questa concezione si manifesta in tutta la sua evidenza. In questo trattato il pensatore svizzero stabilisce una connessione biunivoca tra i princìpi ispiratori di ogni religione e i princìpi di libertà: nelle epoche in cui ha trionfato il sentimento religioso, ha trionfato anche la libertà. Inoltre l’opera, benché concepita come una storia del politeismo, contiene una precisa proposta politica. Se in prima istanza l’obiettivo di Constant sembra essere la critica della morale illuminista del self-interest, appare in realtà chiaro, secondo la studiosa americana, che il reale obiettivo del pensatore svizzero è l’opposizione alla politica cattolica e ultrarealista.

Sebbene sul piano dell’interpretazione delle opere politiche l’analisi di Rosenblatt aggiunga poco a quanto già espresso da altri studi, non si può certo negare l’indubbia validità e originalità del suo lavoro. Portando all’attenzione degli interpreti del pensiero politico constantiano alcuni scritti spesso sottovalutati, come il De la religion, e alcune componenti storiche quasi mai considerate, come la profonda influenza della querelle su cattolicesimo e protestantesimo, la studiosa americana ci presenta un Constant diverso, fortemente politicizzato e immerso nello scontro politico-religioso del suo tempo, ma sempre animato e guidato dall’esigenza di rivendicare il valore della libertà individuale, una libertà non fondata sul self-interest, ma sul sentimento religioso.

Le diverse sfaccettature della riflessione constantiana emergono con chiarezza dal volume collettaneo curato da Helena Rosenblatt (2009), di cui appare senza dubbio apprezzabile il tentativo, per molti versi riuscito, di proporre una nuova riflessione corale sulla figura e sull’opera dell’intellettuale svizzero. Il libro raccoglie, infatti, una serie di saggi, quasi tutti inediti, scritti dai maggiori studiosi constantiani a livello internazionale, che vanno a ricostruire tre aspetti differenti e complementari dell’intellettuale Constant: il pensatore politico, lo psicologo, critico e romanziere e lo storico delle religioni. Tralasciando i saggi dedicati all’attività letteraria e di storico delle religioni e l’esauriente saggio di natura biografica in cui Dennis Wood (1993), già autore di un pregevole volume sulla vita del pensatore svizzero, ricostruisce i momenti importanti dell’inquieta esistenza di Constant, in questa sede ci si concentrerà essenzialmente sui contributi che trattano del pensiero politico.

Il saggio di Marcel Gauchet Liberalism’s Lucid Illusion, apparso per la prima volta nel 1980 e ormai divenuto un “classico” della letteratura sul pensiero constantiano, viene qui riproposto in forma ridotta e in lingua inglese. Gauchet fa emergere tutta l’originalità di un Constant che all’indomani della Rivoluzione è sistematicamente impegnato «to incorporate elements derived from the old monarchical vision of power into a system based on representation» (Rosenblatt 2009:28). Secondo lo studioso francese, il reale obiettivo di Constant è ricercare, in un’ottica liberale, quale rapporto debba sussistere tra società e potere, tra rappresentanti e rappresentati, ovvero di indagare ciò che il principio democratico lascia pericolosamente imprecisato: la relazione tra l’agente rappresentante del potere e la società in nome della quale, per la quale, ma anche sulla quale esercita il potere. Le argomentazioni constantiane sulla volontà generale, principio che ha creato una sorta di illusione di unicità e di totalità, il ricorrente parallelo tra mondo antico e moderno con le relative critiche all’anacronismo della Rivoluzione, il nuovo individualismo contemporaneo e il potere neutro come garanzia costituzionale sono gli elementi che caratterizzano l’approccio del pensatore svizzero alla libertà, un approccio allo stesso tempo teorico e storico.

Il successivo saggio di Stephen Holmes, dal titolo The Liberty to Denounce: Ancient and Modern, è in linea con la generale lettura democratico-liberale del pensiero constantiano già svelata dall’autore nell’assai influente monografia del 1984. In queste nuove pagine lo studioso americano amplia e attualizza la sua interpretazione del celebre Discorso del 1819, qui riletto sullo sfondo di temi come la tutela delle procedure legali nella fase accusatoria e l’uso dei denunciatori segreti da parte dei regimi totalitari. La constantiana libertà degli antichi pone maggior enfasi, secondo Holmes, non tanto sul diritto di voto, quanto sul coinvolgimento collettivo nel punire, mettere a morte o ostracizzare i cittadini. La libertà moderna viene a delinearsi, in maniera differente dalla berliniana libertà negativa, come «freedom from expulsion and exile» (Rosenblatt 2009: 60) bisogno di sicurezza di ciascun cittadino di rimanere membro della propria società. L’originale e audace lettura proposta dall’illustre studioso statunitense si lega a quello che per Constant è un pericolo insito nella libertà moderna, ossia l’eccessivo privatismo. Il deficit di partecipazione da cui il liberale svizzero mette in guardia nel Discorso si rivela, secondo Holmes, nella presa di coscienza da parte dell’individuo che in una società moderna influisce maggiormente sugli eventi inviare una lettera anonima di denuncia alla polizia piuttosto che andare a votare. In questo modo, dunque, si supplisce alla carenza di partecipazione. Questa dimensione psicologica della libertà moderna, strettamente connessa al residuo fascino della libertà antica nella società contemporanea e tipica dei regimi comunisti in cui è emblematico l’uso pervasivo di denunciatori civili, costituisce secondo Holmes una delle possibili chiavi di lettura del totalitarismo fornitaci da Constant.

L’obiettivo di contestare la tradizionale identificazione della libertà moderna con la libertà negativa teorizzata da Berlin è perseguito anche da Jeremy Jennings col suo Constant’s Idea of Modern Liberty. Tuttavia, mentre Holmes si concentra su un preciso aspetto del concetto di libertà constantiano, mettendone in luce le presunte assonanze con i valori democratici, Jennings intende lumeggiare complessivamente il multiforme liberalismo constantiano in modo da mostrarne l’intrinseco individualismo, ma allo stesso tempo l’assenza di privatismo. La sua analisi riprende le classiche affermazioni sulla libertà come sfera del tutto indipendente dall’azione governativa, facendone emergere tuttavia la profonda caratterizzazione spiritualistica. In quest’ottica torna utile a Jennings riprendere tanto le argomentazioni di Constant sull’interesse bene inteso, indicative della sua ostilità nei confronti dell’utilitarismo di Bentham, quanto le ultime ricerche di Rosenblatt sull’influsso che la riflessione religiosa ha esercitato sulla formulazione del concetto di libertà. L’analisi dei due commentari sulle opere di Godwin e di Filangieri consente infine all’autore di evidenziare il versante economico del liberalismo di Constant e l’influenza della teoria di Adam Smith sulla sua concezione della proprietà privata, della tassazione, del ruolo dello Stato in economia e del commercio, elemento peculiare della libertà moderna in opposizione a quella antica.

I saggi analizzati finora prendono dunque in considerazione i principali snodi teorici del liberalismo constantiano, così come vengono a delinearsi durante l’età imperiale, mostrando come autori di differente ispirazione tendano a porre l’accento su determinati aspetti piuttosto che su altri. I tre contributi successivi, beneficiando di una maggiore contestualizzazione storica, mettono in relazione le idee constantiane con le due fasi storiche che precedono e seguono il periodo della “teorizzazione”, il Direttorio e la Restaurazione, durante le quali il liberale svizzero partecipa da protagonista alle vicende politiche e intellettuali.

Il puntuale saggio di Stefano De Luca, Benjamin Constant and the Terror, illustra l’atteggiamento del giovane Constant, in epoca direttoriale, nel contesto del dibattito sul Terrore. Sulla scorta di storici come Lefebvre e Furet che definiscono il pensatore svizzero come l’intellettuale termidoriano per eccellenza, tenacemente impegnato a salvare i princìpi rivoluzionari dalla degenerazione del Terrore, De Luca ricostruisce non soltanto le tesi dei controrivoluzionari come Maistre, cui Constant non ritiene necessario rispondere, ma anche e soprattutto la querelle nella quale il teorico liberale si oppone alla giustificazione morale proposta da Lezay-Marnésia il quale «invoked exceptional circumstances to explain the Terror» (Rosenblatt 2009: 99). Si tratta di una polemica, tutta interna al fronte dei difensori della Repubblica direttoriale, particolarmente importante secondo lo studioso italiano sia perché costituisce «the model for all subsequent discussion of the Terror» (ivi: 95), sia perché anticipa lo scenario politico del secolo successivo in cui la divisione ideologica non passerà più tra rivoluzionari e controrivoluzionari, ma tra i seguaci delle diverse anime della Rivoluzione francese. De Luca sposta infine l’attenzione sulla successiva e più matura interpretazione del Terrore, nei Principes del 1806, fondata sulla saldatura tra critica della concezione roussoviana della sovranità (per la quale Constant deve molto ad un’opera inedita di Sismondi, le Recherches sur les peuples libres de l’Antiquité) e la distinzione tra libertà antica e moderna (anticipata da M.me de Staël in un’altra importante opera inedita del periodo direttoriale, il Des circostances actuelles).

Dall’età direttoriale si passa al Constant della Restaurazione con il saggio di Jennifer Pitts Constant’s Thought on Slavery and Empire. La prima parte dello studio, basata sull’analisi del pamphlet del 1814 De l’esprit de conquête et de l’usurpation, individua nell’espansionismo imperiale una delle principali moderne tecniche di governo per mobilitare, entusiasmare e allo stesso tempo controllare l’opinione pubblica. L’originalità del saggio di Pitts si rileva però nella lucida analisi dell’atteggiamento constantiano nei confronti della schiavitù. In questo particolare aspetto l’autrice coglie l’ambivalenza e l’apparente contraddizione di Constant. La sua convinzione che la modernità abbia posto fine alla schiavitù e la contestuale ammissione dell’esistenza del commercio degli schiavi, con le relative critiche alla connivenza del governo francese, appaiono in contraddizione. Malgrado la sua vicinanza ai circoli abolizionisti, negli interventi parlamentari e nei contributi pubblicistici Constant «remained nearly silent about the abolition of slavery itself» (Rosenblatt 2009: 130), concentrando la sua battaglia politica piuttosto sull’abolizione della tratta degli schiavi e sui diritti delle gens de couleur. La mancanza di una critica diretta ed esplicita alla schiavitù si giustifica secondo Pitts con una generale condotta moderata e gradualistica del pensatore svizzero e con il suo approccio “burkeano” al riformismo, refrattario ai mutamenti radicali, ritenuti non necessari e pericolosi.

Del resto, questa tendenza anti-radicale traspare anche dal saggio di Robert Alexander Benjamin Constant as a Second Restoration Politician, in cui viene ricostruita la carriera politica dell’intellettuale svizzero dal 1816 al 1830. Dopo un breve excursus necessario per descrivere le condizioni circostanziali in cui versa il parti libéral, Alexander si oppone a quanti sostengono un certo isolazionismo constantiano all’indomani dell’esperienza dei Cento giorni e sottolinea al contrario il ruolo cruciale svolto da Constant fin dai primi anni della Restaurazione. Ricostruisce il lungo processo che lo porta ad acquisire gradualmente lo status di capo dell’opposizione liberale, sia grazie alla sua attività pubblicistica, cui Alexander accenna brevemente, sia attraverso le battaglie e i discorsi parlamentari pronunciati regolarmente durante i tre mandati da deputato alla Camera.



In conclusione, nel volume curato da Rosenblatt la sezione dedicata al Constant teorico e uomo politico è sicuramente la più rilevante ed è caratterizzata, nonostante la natura collettanea, da una certa coerenza di fondo. Dal punto di vista teorico ha per di più il merito di non fornire un’interpretazione univoca del pensiero del liberale svizzero, ma di palesarne invece le diverse letture offerte dalla storiografia recente. Oscillando così tra l’interpretazione “democratica” dei saggi di Holmes e Gauchet e quella “liberale”, ma non privatista, di De Luca e Jennings, vengono ripercorsi in maniera esaustiva i classici macroargomenti teorici, quali la concezione di sovranità, di libertà moderna e l’interpretazione del Terrore. Infine, grazie ad analisi puntuali condotte attraverso una precisa contestualizzazione storica, saggi come quelli di Pitts e di Alexander pongono l’attenzione sull’attività militante di Constant, sull’effettiva coerenza tra i suoi principi teorici e la sua prassi politica, inaugurando nuovi importanti filoni di ricerca, a dimostrazione di quanto il personaggio e il suo pensiero politico abbiano ancora molto da dire a chi voglia studiarli.

Bibliografia
Amato Tarcisio, Sul liberalismo di Constant ed altri saggi, Salerno: Gentile editore.

Amato Tarcisio, 2006, Costituzioni e liberalismo in Benjamin Constant: linee di lettura, Fisciano: C.U.S.L.

Barberis Mauro, 1988, Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso, Bologna: Il Mulino.

Constant Benjamin, 1950, Le reazioni politiche. Gli effetti del Terrore, a cura di F. Calandra, traduzione di M. Fiore, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane.

Constant Benjamin, 1970, Principi di politica (1815), introduzione di U. Cerroni, Roma:Editori Riuniti.

Constant Benjamin, 1980, Principes de politique applicables à tous les gouvernements, Tome I, Texte établi d'après les manuscrits de Lausanne et de Paris avec une introduction et des notes par E. Hofmann, Genève: Droz.

Constant Benjamin, 1999, Riflessioni sulle costituzioni e le garanzie, a cura di T. Amato, Roma: Ideazione editrice.

Constant Benjamin, 2007, Principi di politica applicabili a tutte le forme di governo. Versione del 1806, a cura di S. De Luca, prefazione di E. Hofmann, Soveria Mannelli: Rubbettino.

Constant Benjamin, 2008, Le reazioni politiche. Gli effetti del Terrore, traduzione di C. Maggiori, prefazione di M. Barberis, Macerata:Liberilibri.

Constant Benjamin, 2009a, Lo spirito di conquista e l’usurpazione, traduzione di C. Maggiori, introduzione di M. Barberis e G. Paoletti, Macerata:Liberilibri.

Constant Benjamin, 2009b, Conquista e usurpazione, introduzione, traduzione e cura di L. M. Bassani, Torino: IBL Libri.

De Luca Stefano, 1993, Il pensiero politico di Benjamin Constant
1   ...   12   13   14   15   16   17   18   19   ...   23


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət