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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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Una seria politica familiare non può limitarsi a parlare semplicemente di introdurre dei correttivi nel sistema fiscale, ma deve tenere presente anche altre aree di intervento, tra le quali le principali sono quelle di promuovere e proteggere il lavoro dei giovani, di un piano case per le giovani coppie e di una politica di contrasto alla povertà.

Sostenere che i processi di globalizzazione sono irreversibili non è completamente esatto. Lo sono, indubbiamente, sotto l’aspetto tecnologico-informatico, ma sotto l’aspetto della loro gestione politica non possono in alcun modo essere considerati irreversibili. Il guaio è che sino ad oggi l’interesse su questo argomento da parte della politica ha lasciato tracce di dubbia consistenza.

Eppure, per quanto riguarda la nostra società, un segnale certamente positivo giunge da un recente sondaggio sui valori intramontabili, cui gli italiani attribuiscono molta importanza. Tra questi valori, la famiglia occupa il primo posto con il 93% delle preferenze.

È, quest’ultimo, un segnale che fa ben sperare, poiché se è vero che la società postmoderna ha notevolmente contribuito alla disgregazione della famiglia, quale eravamo abituati, e alla concretizzazione di una struttura familiare “aperta”, è anche vero che ancora oggi, nonostante tutto, rappresenta sostanzialmente il pilastro su cui si fondano le comunità locali, il sistema educativo e il contenimento delle forme di disagio sociale. In sintesi, la famiglia si rileva essere ancora sostanzialmente una struttura forte e rappresenta ampiamente un punto di riferimento.

Da qui la necessità di mettere in atto scelte politiche coraggiose che tendano principalmente ad avviare processi di adeguamento ai modelli sociali più avanzati. Gli interventi legislativi devono sostanzialmente tendere a valorizzare la scelta familiare e procreativa, contrastando una società che, rifiutandola, può solo divenire sterile.

Bisogna semplicemente e seriamente prendere atto della crisi e leggerla come una opportunità per ritrovare una strada nuova per ripensarla e reinventarla. Divorzi e famiglie ricomposte registrano certamente oggi un aumento vertiginoso rispetto agli anni Trenta o Cinquanta, ma tale rilevazione, sotto il profilo del legame familiare, può da sola autorizzare a pensare ad un processo di declino del matrimonio e, di conseguenza, della famiglia? Possiamo, in sintesi, considerarlo un segnale di regressione?

Sull’argomento, naturalmente, si possono aprire numerosi tavoli di discussione, ma, fra i tanti, potremmo soffermarci a riflettere che se negli anni Venti o Trenta, per fare un esempio, si divorziava o ci si separava meno di oggi, non è detto che la famiglia italiana fosse più felice o più unita.

I matrimoni dei nostri nonni o bisnonni, al di là di una decorosa apparenza, spesso si rivelavano disastrosi, minati da un muro invalicabile di ipocrisia e le donne, che sacrificavano la loro vita sentimentale e professionale al focolare domestico, venivano tradite dai mariti senza il minimo scrupolo ed erano le prime vittime di una unione destinata a rispettare le convenzioni sociali più che le loro legittime esigenze.

Oggi non è più così. La vita in comune è un fatto di sentimenti e di libera scelta, nasce da decisioni individuali private, sottratte il più possibile all’influenza della società, per cui, paradossalmente, potremmo condividere il concetto che l’aumento dei divorzi è direttamente legato all’affermazione del matrimonio d’amore.

L’avvento del matrimonio d’amore costituisce, infatti, una delle condizioni ottimali per l’affetto autentico nei confronti dei figli. Beninteso, sarebbe assurdo pensare che l’istinto o l’amore materno non siano esistiti prima della nascita del matrimonio d’amore. Senza dubbio, senza parlare di passione, sin dall’antichità, c’è sempre stato un attaccamento minimo dei genitori per la prole, non fosse che sotto la forma naturale o biologica che si riscontra anche presso le specie animali.

Tuttavia, una delle conclusioni più stupefacenti sugli studi della famiglia nel passato è che l’amore genitoriale è lungi dall’essere stato una priorità, come è diventato oggi per la maggioranza delle coppie.

A tal proposito, opportunamente rileva Ferry che


Montaigne, il grande umanista, confessava di non ricordarsi il numero esatto dei figli che gli erano morti mentre erano a balia! Rousseau, autore di una importante opera sull’educazione, abbandonò cinque figli senza batter ciglio. Bach e Lutero persero entrambi una decina dei loro figlioli, certo con autentico dolore, ma abituandosi in fretta all’idea. L’atteggiamento di Montaigne e Rousseau non era certamente dovuto ad una loro personale aridità, ma rispecchiava il comportamento dominante nei confronti di quegli esseri ancora in nuce, che sono i bambini (Ferry 2008:72-73).
La famiglia di oggi, invece, malgrado le sue recenti evoluzioni, appare più densa di affettività di quanto non sia mai successo nella sua storia.

È in essa, e forse solo in essa, che sussistono e anche si approfondiscono forme di solidarietà che il resto della società non considera, dominata com’è dagli imperativi della competizione e della concorrenza.

È di fronte ai nostri cari, a coloro che amiamo che siamo pronti spontaneamente a uscire da noi stessi, a ritrovare significato e trascendenza in una società che continua a proporci l’opposto. Questo dato, a dispetto delle apparenze, non è affatto banale.

La famiglia, paradossalmente rispetto alla crisi che sta attraversando, è l’unico luogo vero dove l’individuo ritrova se stesso, grazie anche alla cresciuta qualità e alla sempre maggiore importanza assegnata ai legami affettivi.

Nell’odierna situazione italiana, dove le relazioni tra i partner sono continuamente rinegoziabili, è il vincolo affettivo genitore-figlio ad assumere una nuova valenza, in quanto consente di potere definire la famiglia e riconoscerla come soggetto sociale, facendo leva su una relazione che faccia del legame di convivenza un’istituzione.

A tal proposito, non a torto Calanca scrive che


la storia generazionale, il succedersi delle generazioni, appaiono non più centrati sul patto coniugale, ma sul nuovo patto di filiazione, che, al contrario della relazione di coppia che è continuamente sottoposta a contrattazione ed è diventata reversibile, è una relazione non negoziabile: laddove il legame di coppia si de-istituzionalizza, il legame genitore-figlio diventa la nuova istituzione sociale (Calanca 2005:166).
Sotto questo punto di vista, in una società di iper-consumismo, in seno a cui nulla, nemmeno i valori morali, culturali e spirituali, riesce a trascendere gli imperativi del mercato, non è azzardato ipotizzare che solamente i valori della vita privata potrebbero delineare un orizzonte diverso, giacché a prescindere dalle apparenze ingannevoli, l’unico rapporto sociale che da due secoli si sia approfondito, intensificato e arricchito è quello che unisce le generazioni in seno alla famiglia.

Alla luce di quanto detto sopra, l’odierna crisi della famiglia potrebbe assumere un valore positivo come presa di coscienza della inadeguatezza di una situazione, quando questa tende a cristallizzarsi e a resistere alla temporalità, che, invece, richiede ed esige il suo mutarsi. La crisi, dunque, considerata non come aspetto negativo, ma riconosciuta come il segno stesso del tempo orientato in avanti, sintomo che qualcosa in noi e intorno a noi è mutato e sta mutando; espressione della vitalità e dello sviluppo di una crescita spirituale che abbandona ciò che non serve più e cerca ciò che servirà. Questo credo che oggi sia il vero nodo della questione.



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ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100306




Abstract
La società dell’incertezza: la crisi della famiglia italiana nell’era della globalizzazione
(The society of UNCERTAINITY: the crisis OF italian family in THE globalization era)
Keywords: Baumann, globalization, job precariousness, social unrest, family sociology
The tumultuous entry in the globalization era has influenced the transformation of family and social bonds, multiplying the insecurity factors of individuals. Not only did this process cause the crisis of our society, it also brought a general confusion in the abilities of choice and action of individuals. Notwithstanding the crisis, family is the only true place where individuals can find themselves, thanks to the increasing attention paid to affective bonds. Crisis, as such, should not be considered as a negative factor, but as a sign of the time passing and as a sign that something has been changing within and around us.

Manuela Girgenti

Università di Palermo

girgentimanuela@yahoo.it



Note e discussioni

Notes and discussions

Piero Barucci


La storia del liberismo italiano

di Antonio Cardini



(Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, pp 252)

Fra i fenomeni collettivamente rilevanti che hanno caratterizzato l’Italia moderna e contemporanea, il liberalismo è stato una componente intellettualmente di gran rilievo, ma, nell’insieme, relativamente assente come capacità di influire nella vita economica e politica nazionale.

E’ questo un tema caro a A. Cardini, che da anni lo analizza criticamente da diversi punti di vista. E’ un tema che ritengo di gran momento e meritevole di una attenta riflessione anche perché tutt’ora attuale e, quasi sicuramente, ragione e causa di alcune caratteristiche dell’Italia odierna, nella quale latita un sistema politico efficiente. Peraltro, scarso è il rispetto per i diversi ruoli istituzionali, debole il senso dello Stato, comune il tentativo di inquinare ciò che va fatto per tutti i cittadini per volgerlo al perseguimento di un particolare interesse politico, della corporazione, del partito o, addirittura, di quello personale. Tutto questo dà ragione del fatto che l’Italia non è riuscita a darsi uno Stato amministrativo moderno, mentre è riuscita a far nascere un sistema produttivo di buona efficienza, per quanto squilibrato territorialmente, con una caratterizzazione strutturale probabilmente debole, costruito attraverso soluzioni anomale con continua presenza pubblica, che ha dato luogo non di rado a fenomeni di spreco ed è stata una concausa di fatti di corruzione. E tuttavia, nell’insieme, questo sistema produttivo è assai vitale e capace di essere competitivo, sia pure a suo modo.

Il problema è, dunque, correttamente individuato, anche se nelle pagine di Cardini si ricorre spesso ad un esame per differenza, con la Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda, la Germania, gli USA, paesi che hanno affrontato e in gran parte risolto il tema delle nostre carenze in modi assai diversi. Non c’è dubbio comunque che la concezione e la prassi che ne derivano in conseguenza del rapporto fra “individuo e Stato” in tutti questi paesi sono relativamente omogenee e diverse da quanto accade in Italia.

Non si può mettere in discussione il fatto che la scarsa influenza del pensiero liberale nella vita politica italiana è una ragione di questo stato di cose, per cui è da condividere la domanda iniziale da cui muove Cardini, insieme alla risposta che viene data.

Non ho titolo, né competenza, per parlare di quella che chiamerei la ragione più lontana di questi sviluppi storici individuati da Cardini nel fatto che l’Italia non ha sperimentato la fase della esperienza dello Stato assoluto come presupposto fondante tipico della nascita dello Stato dell’età moderna. Né di discutere le carenze di una nobiltà nazionale in grado di dare corpo e vigore alla prima esperienza unitaria del nostro paese nei lunghi anni della sua modernità.

Mi pare di dover convenire sul fatto che in Italia non si è avuto uno Stato in grado di forgiare la nazione, ma piuttosto una nazione nata tardivamente attraverso fusioni ed incorporazioni di realtà politiche locali più o meno stabili e anche con un glorioso passato, che deve però cominciare a creare lo scheletro di uno Stato unitario moderno in anni di modesta crescita economica, di urgenza per le spese per armamenti, di grande instabilità internazionale ed imminenza di estesi conflitti bellici. In una condizione di tale destrutturazione politica la nostra nobiltà, invece di avere esperienza nazionale od internazionale, come accadeva in altri paesi, invece di avere i crismi della nobiltà “di spada e di toga”, ne aveva una, nel suo genere di buona qualità, con radici di tipo agricolo-fondiario.

Venne così a mancare la cultura di uno Stato che può contrapporsi all’individuo al fine di difendere ed accrescere la libertà e le capacità realizzatrici dei singoli. Non fu adeguatamente avvertito che, nel momento in cui il singolo risponde solo a se stesso ed alla sua morale individuale, l’individualismo che ne deriva non è di stampo liberale, ma anarcoide.

E tuttavia, priva della conoscenza diretta delle drammatiche esperienze da cui nasce lo stato moderno (XVII e XVIII secolo), l’Italia dovette prendere parte, iniziando dal nulla, alla fase della costruzione dello Stato amministrativo a partire dal 1870, dopo che nelle più attente e sensibili menti del tempo era radicata la convinzione che l’Italia fosse arretrata, rispetto agli altri paesi europei, nella costruzione dello Stato e nel processo di industrializzazione (v. Cardini 2009:17). C’era da recuperare il tempo perduto, c’era da imprimere impulsi robusti ad un processo di sviluppo economico, c’era da affrancarsi dai vincoli nascenti della presenza della Chiesa, c’era da tenere conto delle prime esperienze di socialità vissute altrove, c’era anche da rispondere alla domanda politico-sociale promossa da chi si dichiarava socialista o cattolico.

Di fronte a questa variegata ed impegnativa domanda politica si dovette ricorrere ai progressi delle “scienze nazionali”, e si pensò di fare appello ad un diffuso intervento pubblico nella vita economica. Un intervento che fu però visto come “la via della nazione” per conseguire rapidamente specifici risultati e non come un modo di essere dello Stato di tutti, per assicurare la crescita della opportunità di tutti.

Della qualità di questa esperienza storica, l’economia politica -ed in particolare gli economisti- portarono per Cardini non poche responsabilità.

L’economia politica avrebbe risentito per lungo tratto di tempo della sua subordinazione rispetto agli studi di giurisprudenza per poi aprirsi con troppe poche riserve all’influenza della cosiddetta “scuola storica tedesca”. Nonostante la gloriosa esperienza del Giornale degli economisti ed il grande contributo di teorici e polemisti come V. Pareto. M. Pantaleoni e A. De Viti De Marco, il nesso economia- professionalizzazione della stessa- liberismo restò per molto tempo confinato ai margini del potere politico, accademico, amministrativo.

Gli eroi “negativi” di questo sviluppo dovrebbero essere ricercati in G.D. Romagnosi per tutto il Risorgimento, e poi in L. Cossa il cui ruolo accademicamente decisivo mi pare un po’ sovradeterminato da Cardini, e restituito in termini troppo dogmatici, visto che fu proprio l’economista pavese a tradurre i Primer di W.J. Jevons e ad essere rimpianto, al momento della sua scomparsa, come imparziale nei molti concorsi di cui fu giudice.

Nel leggere questo libro bisogna tenere in mente la differenza fra “liberismo” e “liberalismo” e non solo nei termini classici di L. Einaudi. Intendo dire che la scelta a favore di un libero scambio internazionale è stata spesso compiuta per concrete opportunità contingenti, mentre un corretto rapporto fra individuo e Stato, fra preminenza regolatrice e ruolo della concorrenza, fra esigenze produttivistiche e interesse del consumatore, è più idoneo a marcare una diversa visione della politica economica, del motore ultimo della crescita economica, più che altro una diversa concezione del rapporto fra economia e politica.

Emblematico il commento di V. Pareto (1893) sullo scandalo della Banca Romana: «Occorre, disse, togliere le banche dalla unghie dei politicanti. …Fuori di ciò, l’esperienza ci ammaestra non esserci salute» .

E Pantaleoni (1895) concluse il suo classico saggio sulla caduta del Credito mobiliare dicendo: «… venga presto il dies irae. Sappiamo rifabbricare». E sulla Banca di Sconto, scrisse: «Il Banco Sconto era il Banco Nitti. E’ questa in due parole la sua storia» (Pantaleoni 1922).148

Di fatto nella lunga storia dell’Italia contemporanea, dopo la riforma Leopoldina del 1767 –quasi un simbolo di quell’isola liberista che fu la Toscana del ‘700- si ebbe soltanto la tariffa doganale liberista di Cavour, ministro del Piemonte sabaudo, del 1851 e la sua successiva soppressione delle tariffe interne e l’applicazione della tariffa piemontese a tutto il Regno d’Italia realizzata fra il 1859 ed il 1861. Dopo di allora, molteplici e fruttuosi furono i tentativi di ricorrere a misure protezionistiche o politiche di privilegi, esclusive, aiuti di stato, fino al brevissimo interregno einaudiano del 1947. Riesco a vedere con chiarezza ciò che sono stati gli anni fra il 1948 ed il 1992 ( nelle sue varie fasi); non sono in grado di valutare la breve stagione 1992-1993 probabilmente a causa delle irripetibili ragioni di emergenza, in gran parte internazionali, che si dovettero affrontare.

Su questi sviluppi complessivi, Cardini giunge ad una conclusione senza incertezze:


…si deve constatare che il predominio dei liberisti fu … sempre assai incerto, persino nel decennio dell’unificazione nazionale. Si verificò invece una forte continuità della scuola storica e dei socialisti della cattedra nel periodo che va dal 1870 al 1940 con la con la loro permanenza alla guida della politica economica del paese … Non è vero che i liberisti mantennero una loro coriacea continuità da Ferrara a Einaudi. Si trattò di episodi, di battaglie contro idee preponderanti interventiste e protezioniste, sospettose verso il mercato e la libera concorrenza (Cardini 2009:45).
L. Luzzatti e F.S. Nitti possono essere considerati –con i loro diretti o indiretti eredi- i prototipi rappresentativi di questo orientamento che ebbe un lato dottrinario ed uno amministrativo.

Il fatto è che il liberalismo ed il suo compagno di viaggio, l’industrialismo, rompevano -o rischiavano di rompere- la compagine nazionale, o, almeno, erano ritenuti non idonei a saldare il divario fra l’economia meridionale e quella nazionale. Cardini dedica alcune convincenti pagine a mostrare che non necessariamente i liberali erano contrari all’industrializzazione e che non necessariamente gli industrialisti erano dei protezionisti. La questione non è effettivamente unidirezionale, e cautele verso l’industrialismo si ravvisano, ad esempio, negli scritti di Romagnosi, ma anche nelle Lezioni di L. Einaudi.

Cardini è dell’avviso che anche il «decollo italiano del 1896-1914 fu legato in sostanza più alle condizioni esterne che a misure di politica economica interna eccettuato forse il risanamento del bilancio» (Ivi:87).

In tal modo anche la lunga esperienza giolittiana viene ridotta alla sua dimensione economicistica e risolta al di fuori di un più generale disegno politico.

La fase ferrariana durò, dunque, pochi anni (1861-67). Dopo di allora

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