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Lettera aperta di Pier Paolo Pasolini a Luchino Visconti Quel faro di motocicletta


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Lettera aperta di Pier Paolo Pasolini a Luchino Visconti
Quel faro di motocicletta

(da «Tempo», n. 47, XXXI, 22 novembre 1969)


Caro Visconti, ti dispiace se ti parlo con sincerità da amico e anche con l’intemperanza e l’inopportunità che caratterizzano gli interventi degli amici? Perché, sia ben chiaro, anzitutto, che io non riesco a non considerarti mio amico, e non riesco a non considerare me stesso tuo amico. Ciò mi pare naturale, nelle cose. Lo vedo nella tua presenza fisica, nel tuo stampo e nella tua pasta. Lo avverto pensando a me che penso a te. La mia simpatia per te è inalterabile. Non te ne ho voluto (se non, veramente, per lo spazio di due o tre minuti) anche quando mi hanno detto che alla televisione francese hai sconsigliato la Callas a fare un film [Medea] con me; anche quando mi hanno detto che sei stato a Venezia al fianco di Fellini, complice con lui nel dir male, senza nominarlo, dell’assente (cioè di me: che ero assente per protestare contro due processi dovuti alla mia presenza a Venezia l’anno precedente. Non avrei mai preteso la solidarietà di Fellini, figlio obbediente. Ma la tua...).

Bene, voglio parlarti del tuo film [La caduta degli dei], e di quella che è la sua funzione oggettiva, come si dice, nell’attuale momento del cinema italiano.

Il tuo film cade nella seconda parte: dal momento in cui per una stradina buia, appena illuminata da un’aurora atroce, lampeggia opaco il faro di una motocicletta (che è un momento sublime, come direbbe un po’ fatuamente un ragazzo dei «Cahiers» e come dico, sul serio, io). Da quel momento la tua ispirazione è venuta meno: la strage è fatta «cinematograficamente», senza mistero, con litri di colorante rosso sui corpi dei generici; l’SS Aschenbach si sfalda, diventando da personaggio di comodo, personaggio di romanzo d’appendice – giungendo a piluccare l’uva, mentre il figlio sta per violentare la madre – con la calma dei personaggi accademici di de Sade; anche tutti gli altri personaggi si sfaldano, perdendo ogni mistero.

(…) Invece la prima parte del film, fino a quel famoso faro della motocicletta sul lago, è molto bella, degna di Senso (che è il tuo più bel film, non La terra trema). È molto bella, perché non c’è sotto una sceneggiatura con vecchie scene madri, ma è un mosaico, che è opera completamente tua, fondata su esperienze trasformate in presagi.”


Non era frequente che Pasolini intervenisse con una lettera aperta o uno scritto su un film (lo ha fatto solo per La dolce vita, Sussurri e grida o Amarcord, Deserto rosso o I pugni in tasca, e i film degli amici: Sergio Citti, Bertolucci e Nico Naldini). Appare quindi significativo che sei anni prima di girare Salò abbia voluto esprimere a Visconti (con il quale non esisteva peraltro una frequentazione assidua, al contrario) le sue critiche e qualche apprezzamento su un film, La caduta degli dei, che in bene e in male, doveva evidentemente averlo colpito. Forse anche come un modello da rovesciare, da infrangere (e infatti la crudeltà di Salò evita nel modo più categorico la crudeltà melodrammatica del film di Visconti ed esprime la disperazione nel sarcasmo e nella freddezza geometrica). È significativo, soprattutto, che menzioni il nome di Sade a proposito della figura di Aschenbach, come se già, nel guardare il film di Visconti e nel vedere ricreato il clima degli anni del nazismo, immaginasse in trasparenza le figure dell’autore delle Centoventi giornate di Sodoma.

Roberto Chiesi, Centro Studi Pasolini della Cineteca di Bologna


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