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Altre testimonianze di altri presunti “attori”


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capitolo 5 versione ufficiale altre testimonianze

ALTRE TESTIMONIANZE




7. Testimonianze di altri presunti “attori


di quel 28 aprile 1945

Analizziamo, a questo punto, alcune testimonianze rese in vari periodi da presunti partecipanti (secondo la versione ufficiale) a quegli eventi, trovatisi all’epoca dei fatti tra casa De Maria e Villa Belmonte e dintorni, le quali dovrebbero, ma come vedremo non lo saranno, essere decisive per attestare con precisione quella versione.

Trattasi delle testimonianze, dei coniugi De Maria, che ebbero Mussolini e la Petacci in casa loro, di Sandrino (Guglielmo Cantoni) uno dei loro guardiani e dell’autista della spedizione di Valerio, raccattato a Dongo, Giovan Battista Geninazza.

A questi occorre aggiungere quei pochi testimoni che ebbero la ventura, tra Giulino di Mezzegra e Bonzanigo, di vedere o sentire qualcosa tra la mattina ed il pomeriggio di quel sabato 28 aprile 1945 e soprattutto di venirlo poi a riferire a qualche cronista visto che, come oggi sappiamo, ben più numerosi erano quelli che sapevano qualcosa, ma rimasero con le bocche cucite perchè erano soggiogati dall’imposizione minacciosa di un silenzio cinquantennale.

Chi pensasse però di utilizzare queste poche testimonianze confuse e contraddittorie per cercare la verità, in un senso o nell’altro, su come in effetti quel giorno andarono le cose, se lo tolga subito dalla mente.

Questi racconti, infatti, spesso raccolti da fonti giornalistiche modello rotocalco, o ricercatori politicamente interessati, non hanno quella garanzia di autenticità che dovrebbe avere una attendibile testimonianza ed oltretutto risulterebbe vacuo affannarsi dietro l’esatta interpretazione di alcune dubbie frasi, o del come furono esattamente pronunciate e sopratutto poi riportate da chi le ha ricevute e pubblicate. Forse qualcosa di più serio ed attendibile si può trovare nelle testimonianze raccolte all’epoca da Franco Bandini, ma anche qui non c’è alcuna certezza..

Testimonianze di questo tipo in ogni caso, spesso di seconda mano o di riporto, dove l’illogicità e spesso la mitomania albergano sovrane, vanno prese con molte cautele e tante riserve, essendo esse alquanto problematiche ed a volte forse manipolate ed infine sono anche state, nel corso degli anni, di sovente modificate e corrette, se non addirittura smentite o ritrattate dagli stessi testimoni.

La confusione mediatica che ne è derivata non giova certo a fare chiarezza, né alcuno di questi testimoni dell’epoca fu chiamato in tribunale per rispondere a precise domande (a Sandrino, al processo di Padova del ’57 gli venne chiesto qualcosa: lui rispose poco e niente, si contraddì pure, e la cosa finì lì).

Ma quello che più ha nuociuto alla loro attendibilità o comunque le ha rese inadeguate ad una attenta ricostruzione dei fatti, è di essere state raccolte, nel dopo guerra e almeno fino ai primi anni ’60, da giornalisti o scrittori (persino di tendenza neofascista), oppure ricercatori storici, per non parlare poi dei centri editoriali resistenziali i quali, pur in presenza di varie assurdità logiche, davano tutti per scontata una, sia pur generica, attendibilità della versione ufficiale.

Si veda, per esempio, il caso del presunto autista, quel Geninazza che dicesi requisito da Valerio sulla piazza di Dongo per condurre il terzetto dei giustizieri a casa De Maria.



Ma come è possibile credere, senza indagare ulteriormente, che per una missione del genere, oltretutto da eseguirsi inspiegabilmente di nascosto, cacciando anche via eventuali abitanti del luogo ivi sopraggiunti, Valerio che ha due suoi autisti, se non tre, nel suo plotone dell’Oltrepò giunto da Milano e qualche altro sul luogo, ma comunista fidato come per esempio quel Carlo Maderna detto scassamacchine (qualcuno infatti insinuò che fu proprio lui e non Geninazza l’autista) si porta invece dietro un autista sconosciuto ? e perché?

E’ pur vero che ci fu qualche raro caso di chi già al tempo aveva subodorato la “bufala” e lo scrisse anche, ma si trattava di particolari marginali o del riscontro di troppe contraddizioni e via dicendo, non si immaginava mai che questa poliedrica versione ufficiale fosse invece falsa dalla prima all’ultima riga laddove si dava per acquisito, per scontato, il canovaccio della versione ovvero che nel primo pomeriggio di quel sabato 28 aprile un certo Valerio era arrivato a casa De Maria, aveva prelevato i prigionieri, li aveva condotti davanti al muretto di villa Belmonte e li aveva in qualche modo fucilati.

E questo proprio mentre, in quegli anni, quotidiani, riviste, libri e quant’altro, pubblicavano di continuo, versioni, testimonianze, resoconti e memoriali, tutti in qualche modo conformi alla versione ufficiale.

Tra intervistato ed intervistatore, insomma, ci si adattava a questo andazzo: con il giornalista che ricercava più che altro particolari o episodi inediti, impressioni generali e via dicendo, ed ovviamente quei pochi testimoni d’epoca, oltretutto ascoltati a distanza di anni e magari non a conoscenza diretta di tutta la vicenda, si conformavano volentieri, per timore, acquiescenza, non aver fastidi (ed a quanto pare anche per minacce a suo tempo ricevute!), al comune canovaccio della versione ufficiale dei fatti.

Ma le varie contraddizioni, le parziali e velate ammissioni, le stonature rispetto ad altre testimonianze, le divergenze, spesso totali, tra particolari forniti in passato e gli stessi poi ripetuti dai medesimi testimoni in un secondo momento, hanno finito per dare un quadro indefinibile e spesso completamente diverso dalla versione ufficiale, tanto che c’è sempre stato abbondante pane per tutti coloro che hanno voluto imbastire le più astruse o straordinarie versioni alternative dei fatti.

Quei riscontri invece, sia pur confusi e mal raccolti, se le cose fossero andate come da Valerio & Co. raccontato, avrebbero dovuto attestarci un quadro non troppo discosto dalla versione ufficiale, viceversa si percepisce tra le righe di queste frammentarie testimonianze un eco, sia pure confuso ed impreciso, che quel giorno è accaduto qualcosa di affatto diverso.

- ­I coniugi De Maria

Quello dei coniugi De Maria: all’epoca Giacomo De Maria di anni 45 e Maria Faggi, detta Lia, in De Maria di anni 43, (hanno anche due figli di 19 e 15 anni), con i loro tanti spezzoni di ricordi, forniti negli anni a svariati giornali e riviste e ricercatori storici, rimarrà un caso veramente emblematico di come sia assolutamente impossibile ricavare una straccio di verità da siffatte multiformi versioni.

Eppure costoro dovrebbero aver avuto in casa loro per circa 12 ore i celebri prigionieri e quanto meno gli sarebbe dovuto rimanere, ben impresso nella memoria, quanto accadde in quelle ore.

Invece, in un primo momento, essi ignorano quasi tutto di quello che è accaduto in casa loro e poi riferiranno, a modo loro, tutta una serie di particolari, o meglio, quanto evidentemente gli è stato suggerito di raccontare.

Oltretutto c’è anche una bella pletora di amici, compaesani e conoscenti, nonché emissari interessati, che si diedero la briga di propagare le versioni di questi contadini, formando così una catenella di riporto assolutamente inattendibile.

Proprio Ferruccio Lanfranchi,1 quello della prima inchiesta sul Corriere d’Informazione, finì per dare, durante il processo di Padova del 1957, una certa ufficialità alle loro versioni.

Come scrisse giustamente A. Zanella:

Lanfranchi rappresenta, per i fatti che stiamo esponendo, il culmine di una montatura e, se vogliamo, anche l’inizio di una revisione”.

Ma ancor più occorre rilevare che il Lanfranchi dopo aver intrapreso le prime inchieste sulla morte del Duce ed aver fatto, volente o nolente, il gioco di quanti volevano introdurre elementi e particolari artefatti, ma anche di aver evidenziato molti elementi dubitativi e forse in possesso di qualche rivelazione della Gianna Giuseppina Tuissi, abbandonò stranamente tutta l’inchiesta che pur si preannunciava ricca di sviluppi.

Riferì Franco Bandini: “dovevano esserci ragioni valide… egli all’inizio del 1946 era arrivato molto vicino alla verità”.

Ed aggiunse: se egli non si occupò più della fucilazione di Mussolini fu per altre e sottili ragioni (non per la mancanza di coraggio, n.d.r.), forse connesse alla sua amicizia con molti grossi nomi del gruppo azionista milanese, ed alla comune appartenenza ad una qualche ideologia, piuttosto segreta” (il che vale a dire alla Massoneria! N.d.A.).

La versione ufficiale, riportata da Bandini, e che ritroviamo più o meno con alcune varianti anche in R. Collier ed altri scrittori storici, realizzata più che altro su le testimonianze di Pedro (il Bellini) altro noto fantasioso relatore, ci attesta che i prigionieri, una volta arrivati a casa De Maria (l’orario è dato in versioni contraddittorie tra le 3,30 circa e prima delle 5 e sembra che Mussolini aveva la testa fasciata con garze), non furono riconosciuti, né i padroni di casa furono informati dagli accompagnatori, per quello che erano.

Questo particolare del non riconoscimento, che forse poteva essere plausibile per i primi momenti dell’arrivo in casa, è stato poi, da qualche fonte, esteso anche a tutto il giorno successivo di sabato 28, per scusare il fatto che Giacomo De Maria era andato a vedere, come si diceva, il passaggio del Duce prigioniero sulla via Regina.

Resta ovviamente difficile il credere, che se pur non lo hanno saputo all’arrivo della coppia prigioniera poi, durante tutto il presunto tempo (fino alle 16 del giorno dopo) in cui li hanno avuti in casa e ci hanno anche parlato, non siano venuti a conoscenza della loro identità.

E proprio il Lanfranchi, se non se lo era totalmente inventato, aveva riportato particolari sul fatto che fu il marito, dopo mezzogiorno quando essi si svegliarono, ad informare la moglie incredula sulla identità dei due prigionieri.

Ma andiamo avanti. I prigionieri, appena arrivati, furono fatti accomodare in cucina.

Si dice che portarono dalla cucina un surrogato di caffè bollente, che tutti bevettero tranne Mussolini, il quale sedeva vicino a Claretta, leggermente discosto dal fuoco, di cui fissava le braci. La Petacci, silenziosa aveva il volto appoggiato alle mani.

Giacomo De Maria salì frettoloso ai piani di sopra, entrò nella stanza dei figlioli, li svegliò e li mandò a finire la nottata in una vicina baita. 2

La Lia rifece il letto con lenzuola pulite e il Bellini (Pedro) salì a controllare la sicurezza della stanza. Claretta spiegò a Lia Faggi De Maria che il signore gradiva due cuscini e così via3



Qui sotto, una delle tante foto, pubblicate su vari giornali e riviste, che mostra la camera dei prigionieri, allestita con una perfetta messa in scena, in base ai “ricordi dei De Maria.

C’è anche il particolare, riferito, che la Petacci, in periodo mestruale chiese alla De Maria di accompagnarla (pare più di una volta) a quella specie di servizi situati all’esterno. Scrisse E. Saini (La notte di Dongo, 1950):

Claretta non si sentiva bene, riferisce Lia De Maria e indica dalla finestra la garitta nello spiazzo, a causa dei suoi disturbi. Si fece accompagnare più volte nella notte da uno dei due partigiani di guardia”.

Anni dopo, Urbano Lazzaro Bill ebbe a raccontare che Giacomo De Maria aveva rivelato a lui ed al colonnello dell’OSS americano Lada Mokascky il particolare, saputolo dalla moglie, che la Petacci quella sera aveva le mestruazioni. E’ questo un fatto che, se vero, fa saltare tutta la storiella di Valerio circa le mutandine che la Petacci non aveva uscendo da casa De Maria. 4

Dai ricordi, di questi padroni di casa, si andò a ricostruire che Mussolini e la Petacci, intorno alle 12 del 28 aprile, forse alla seconda ispezione della padrona di casa, si sarebbero alzati e avrebbero chiesto o gli sarebbe stato offerto qualcosa da mangiare: due panini, un piatto di salame, polenta e due scodelle di latte.

Questa storiella (opportuna per attestare la presenza in vita dei due prigionieri a mezzogiorno) girava già dal 1945 ed anche Sandrino il Cantoni la confermò in parte, riferendo al rotocalco “Oggi” (marzo 1956), che “ci fu un frugalissimo pasto, preparato dalla De Maria, che i prigionieri consumarono nella stanza”.

Il cibo fu poggiato su una cassetta rovesciata o cassapanca, coperto da un tovagliolo.

Questa è la leggenda così come ci è stata tramandata e varie foto d’epoca mostrano una stanza dei prigionieri allestita in modo tale da poterla confermare.

Si è anche accennato al fatto che, qualcuno, forse lo stesso Giacomo De Maria, avrebbe notato la scomparsa di un coltello da cucina, ritrovato poi, nella stanza dei prigionieri, dando così adito a tante incontrollabili e fantasiose supposizioni.

Scrisse Carlo Cetti,5 definito un prolifico propagatore di tutta la vicenda, che la Faggi Maria, salì due giorni dopo (?) nella stanza e disse di avervi trovato una piccola cassetta con sopra una scodella vuota, i due panini quasi intatti e il piatto di salame, con la buccia delle due fette che erano state mangiate (prendendo per buona questa notazione si evincerebbe che nessuno aveva pensato di ritirare gli avanzi in camera che rimasero quindi come prova di tutta la storiella!). Sul comodino venne detto che c’era l’altra scodella, ancora piena di latte.

I due dovevano aver mangiato seduti sul letto, perché esso ne recava ancora l’impronta e sopra v’erano sparse delle briciole. La Petacci, andandosene, aveva lasciato sul piccolo attaccapanni una cuffia da automobilista e una tuta. Anche la coperta, quella che a Germasino i finanzieri avevano messo sulle spalle al dittatore, era stata lasciata dai due, che l’avevano stesa sul letto come copripiedi.

Come vedesi una bella scena, allestita, come giustamente osserva A. Zanella, 6 con contadina semplicità, ma con cura per dimostrare che i due prigionieri avevano dormito insieme (e forse non solo dormito) anche se poi, in tre pretese foto “storiche”, cioè pubblicate subito dopo i fatti, l’arredamento e l’allestimento, cambiano anche in particolari importanti.

Però secondo il giornalista storico Franco Bandini, un certo Luigi Carpani, uno dei primi a visitare la storica camera, poco dopo le 16,30 di quel 28 aprile, ha riferito che:

nè Mussolini, né Clara avevano mangiato nulla”.7

Quindi tutto il cibo e il latte doveva ancora essere lì. Ne dedusse giustamente, il Bandini, che in tal caso i De Maria erano stati allontanati dalla casa intorno alle 12.

La De Maria, in un valzer contraddittorio di racconti, affermerà che si era accorta che non avevano mangiato solo la sera (disse questa volta) tornando a casa.

Si è comunque affermato che proprio la sera di quel 28 aprile ’45, un visitatore della stanza dove Mussolini e Claretta avevano passato la notte, attestò che questa era in ordine e quindi si dovrebbe escludere una colluttazione con uccisione di Mussolini nella camera all’alba come supponeva il medico A. Alessiani ed altri dopo di lui.

Sembra anzi che questo visitatore trovò il letto rifatto e i resti di un semplice pasto (pane, latte e fette di salame).8

Per stabilire l’ora della morte di Mussolini poteva anche essere importante accertare se avesse mangiato qualcosa e soprattutto quando.

Dall’autopsia di Cattabeni (Stomaco: ampio cavità contenente poco liquido torbido bilioso) non emerge che il Duce abbia mangiato nelle sue ultime ore.

Secondo il racconto precedente, preso per vero, abbiamo circa 3,30 ore, cioè da un orario imprecisato dopo le 12, in cui avrebbero chiesto o gli è stato offerto il pasto (ma non si sa quando poi l’hanno ottenuto e consumato e neppure se l’hanno effettivamente consumato tutto o in parte), fino alle 16,10 ora della presunta morte, per consentire eventualmente a Mussolini un completa digestione.

Stante così le cose, sono possibili entrambe le ipotesi, ovvero che avevano mangiato, ma ovviamente poco e niente e quindi digerito completamente in quelle 3,30 ore (ipotesi però stiracchiata), e sia che non avessero mangiato affatto (anche se questo è in contraddizione con l’offerta accettata o la richiesta di cibo) e di conseguenza resterebbe aperto il dilemma che fossero stati fucilati alle ore 16,10 oppure molte ore prima.

Il riscontro negativo dell’autopsia e le testimonianze contraddittorie, quindi, lasciano molti dubbi, ma se consideriamo il fatto che tra il chiedere o l’offrire il pasto, il portarlo e la sua effettiva consumazione, forse arriviamo più o meno verso le ore 13 ed ammettiamo anche che il Duce abbia mangiato pane e salame e forse polenta, allora il referto autoptico può essere letto più verso una esclusione della morte alle 16,10 che una sua conferma.

In definitiva a chi non vuol credere ad una messa in scena ed in base a queste pseudo testimonianze afferma che forse lo stomaco del Duce, all’esame autoptico, fu trovato vuoto perché ci fu il tempo di digerire o perché magari poi egli non aveva più mangiato, si prospetta una alternativa che, comunque la si metta, incrina sensibilmente la credibilità della versione ufficiale:



infatti, o il Duce ha mangiato polenta (forse), e pane e salame ed allora è molto problematico che, all’esame autoptico, non si siano trovati resti del cibo nel suo stomaco;

oppure non aveva più mangiato, cosa teoricamente possibile, ma in questo caso ci sarebbe una evidente contraddizione con la richiesta o l’offerta accettata di cibo del mezzogiorno.

Inoltre, secondo la Lia De Maria, come lo raccontò a Carlo Cetti e lo ribadì anche a Gino Bolognini, era stata lei a chiedere ai due se volevano qualcosa da mangiare e quindi, come ancora scrisse A. Zanella, sconcerta poi lo scoprire, quanto ebbe a riportare l’”informatissimo” Lanfranchi, che era stato invece Giacomo De Maria a chiedere agli ospiti se desideravano la colazione.

E questo soprattutto perché Giacomo non doveva essere in casa!

Lo dice proprio sua moglie:



<C’è stato tutto il giorno senza vedere Mussolini>> (vedi Corriere d’Informazione 28 e 29 febbraio 1956).9

Ma sia che Giacomo De Maria fosse uscito di casa prima di mezzogiorno sia che sia uscito più tardi, resta il fatto che all’arrivo pomeridiano di Valerio non era presente ed infatti la stessa versione ufficiale, in tutte le sue poliedriche sfaccettature non lo cita come presente.



Questa pazzesca contraddizione, di Giacomo che non ha realizzato di avere il Duce prigioniero in casa e lo vuole andare a vedere sullo stradone, abbandonando tra l’altro e comunque, per diverse ore la casa e la moglie con dentro tutta quella gente estranea e armata, è inverosimile! e mostra il chiaro intento di aggiustare (malamente) in qualche modo la presenza e l’assenza di Lia e Giacomo De Maria in quei momenti.

A parte comunque i resoconti d’epoca del poco attendibile Lanfranchi,10 questi particolari assurdi, sono inoltre aggravati anche dalle dichiarazioni di una certa Rosa di Rizzo che ha testimoniato di aver visto sulla via Regina, verso le 15,30 del 28 aprile, Lia De Maria che, con molti altri, vi era andata perché si diceva che di lì a poco sarebbe passato Mussolini prigioniero”.

Se questa testimonianza è degna di fede, tutta la presenza in casa ed i racconti della Lia De Maria sono evidentemente falsi e sono stati imposti e suggeriti.

Al Bolognini, invece, la Lia De Maria raccontò che:



però suo marito andò con gli altri del paese>>.

Il pomeriggio del 28, alle quattro, così raccontò la De Maria, al Bolognini, sente bussare alla porta: le si presenta un uomo che le chiede se nella sua casa vi siano due ospiti.

Rivela una fretta indiavolata. Lia racconterà che non l’ha neppure potuto vedere bene, tanto aveva fretta. Con lui è un partigiano, il Moretti, che si offre di fare strada al nuovo venuto essendoci stato la sera prima.11

Senza molti riguardi invitano la De Maria a ritirarsi in cucina (al primo piano, n.d.r.), quindi li sente salire e, poco dopo, discendere, sempre frettolosamente; ode soltanto alcune parole: “siamo venuti per liberarvi, vi vogliamo liberare” (si dice anche che forse riferirà “deliberare”).

Poi riesce ad avvertire il rumore dei passi del gruppo che, in fretta, si avvia verso l’uscita. Dall’inferriata della cucina dà uno sguardo al gruppo che si allontana, e vede la Petacci con la pelliccia di visone :

una bella pelliccia marrone, fatta a strisce, il vestito verde; il cappellino (la cuffia) che aveva quando è arrivata di lana di pecora, dentro, non l’ha sulla testa, l’ho ritrovato più tardi nella sua camera.



Lui ha una giacca di impermeabile, color cachi, calzoni verdi con la banda nera in mezzo e gli stivaloni; in testa una bustina da soldato, grigioverde.

E’ tutto fasciato con bende sulla faccia. Ha libera la fronte per metà, il naso, la bocca e un pò al mento”.

Li vede dirigersi in su, verso il paese, non per il sentiero che mena allo stradone dal quale erano venuti.

Questo resoconto che la donna avrebbe reso al Bolognini, in ogni caso, è pieno zeppo di incongruenze, misto di mezze verità e tante artefatte menzogne, non si sa bene se della De Maria stessa o manipolate dal Bolognini (o entrambe le cose).

Infatti, come ebbe a rilevare lo Zanella nel suo L’ora di Dongo gia citato:



<siamo venuti a liberarvi”
detto ai piani più sopra e probabilmente sulla porta della stanza di Mussolini.

E’ poi assurdo, come anche fu asserito, che i due partigiani di guardia abbiano abbandonato il posto per andare a mangiare in cucina con De Maria, lasciando incustoditi due così preziosi prigionieri.

Il particolare della fasciatura di Mussolini, ricavato probabilmente dal racconto fatto per il viaggio notturno da Dongo è, oltre che assurdo, privo di logica.

Il Duce in ogni caso ha pantaloni color giallo coloniale e non verde (ma questo è un particolari minore), mentre il giaccone impermeabile sembra proprio una adattatura alla foto di piazzale Loreto che ritrae il cadavere di Mussolini sul selciato con un giaccone inusuale (oltretutto, come vedremo, privo di colpi) che poi sparì.

Più importante è invece il fatto che la Petacci è vestita di marrone, non di verde, ma forse il vestito verde della donna deve essere stato nel bagaglio lasciato la notte precedente dalla “Gianna” la Tuissi (come alcuni elementi fanno ritenere) e questo in parte conferma l’allestimento della stanza, dopo aver spedito via i figli che vi dormivano>>.

Anche altri resoconti della De Maria attestano che lei avrebbe visto arrivare verso le 15,30 il gruppo degli esecutori,12 descritto minuziosamente ed in qualche occasione avrebbe indicato addirittura, ai giornalisti che gli mostravano varie foto del probabile Valerio, una volta si, ed una volta no, la foto di Luigi Longo!

E’ indubbio che tutti questi ricordi vanno presi con poca credibilità, meno ancora per il modo in cui vennero raccolti da cronisti e giornalisti d’epoca

Ma ancor più sconcerta una delle sue descrizioni del colonnello Valerio che la De Maria ebbe a fare al giornalista Franco Serra nel 1962:



<>.

Descrizione questa che non si addice a Walter Audisio e forse corrisponde più a Lampredi (qualcuno addirittura dice a Longo)!

Finalmente, nel febbraio del 1973, la Lia De Maria dichiarò a “Il Giorno” l’emblematica frase: <<Lo sanno tutti che è successo dell’altro>>. E forse proprio in questa circostanza l’anziana contadina fu, una volta tanto, sincera.

Ma già dal 1954, un ignoto e perspicace Relator, fiutando le bufale, intuì questo tipo di conclusioni così come, alcuni anni dopo, anche il Bandini.

E questo nonostante si voglia sostenere, a garanzia della buona fede di questa coppia di sprovveduti contadini, che la De Maria dai partigiani ebbe un compenso di 5.000 lire. Ovviamente, si sostiene, che poi ella restituì 2.000 lire, volendo così attestare il suo disinteresse nelle versioni fornite.

Ma non si può, allora, anche sottacere, come era ben noto, che attorno a quella casa sorse un discreto commercio, oltre che di cartoline del posto, anche di asciugamani, federe, cuscini, suppellettili, ecc., un feticismo di oggetti attribuiti al Duce e la Petacci richiesti dai visitatori che passavano da quelle parti.

Ed ancora, non si può inoltre sottovalutare il fatto che, proprio Giacomo, nonostante il figlio poi lo abbia negato, ma all’epoca e per molto tempo era risaputo, andò all’estero (non si è capito se in Canada o in Svizzera) proprio poco dopo quei tragici fatti.

Giacomo mori nel 1971 a 71 anni, mentre la Lia mori nel 1984 a 81 anni.

Portarono nella tomba il loro penoso segreto.

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