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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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È vero, ci sono giovani che, a dispetto di un’occupazione atipica, lasciano la casa dei genitori per formare una nuova famiglia, ma sono scelte episodiche che si verificano soprattutto in quelle aree del paese dove la disoccupazione giovanile e femminile sono particolarmente incisive, per cui avere un lavoro atipico, piuttosto che nessun lavoro, costituisce già di per sé un notevole traguardo. Ma in questi casi, spesso, continua a non mancare l’apporto economico e il sostegno dei genitori.

Fra l’altro, va pure rilevato che, essendo queste le nuove regole del mercato del lavoro, molti giovani con occupazione a tempo, stanno cominciando a ribaltare molti luoghi comuni sul precariato.

«Meglio lavorare e guadagnare anche poco, che essere disoccupati», dichiarano spesso questi ultimi nel corso di alcune interviste. Oppure: «Il precariato ha di buono che ti costringe a puntare sulla qualità del lavoro. Proprio perché non hai certezze, ogni giorno investi sulla tua professionalità».

E, piaccia o non piaccia, il precariato è oggi un fenomeno in piena crescita.

Secondo una stima da considerare prudente, esso si colloca tra i 4 milioni e mezzo e i cinque milioni di persone. A questo totale si arriva sommando gli occupati dipendenti con un lavoro a termine (2,1 milioni nel primo trimestre 2007, dati Istat), gli occupati permanenti a tempo parziale (1,8 milioni), i co.co.co. rimasti nel pubblico impiego ma trasformati in lavoratori a progetto nel settore privato (tra mezzo milione e un milione); più una molteplicità di figure minori, dai contratti di apprendistato e inserimento al poco usato lavoro intermittente (forse 200.000 persone in tutto). In ogni caso, non trascuriamo di tenere presente che cinque milioni di persone con lavoro precario rappresentano più del 20 per cento degli occupati.

Ora, a questo punto, il problema non è tanto la difesa o la condanna del “precariato per legge”, ma quello di mettere in evidenza come, in realtà, l’instabilità e la flessibilità del lavoro stiano cambiando la vita delle coppie e, particolarmente, in un contesto caratterizzato dalla debolezza economica.

È un aspetto, quest’ultimo, sul quale non si può generalizzare, in quanto se le coppie flessibili si muovono in un contesto dinamico e con un mercato del lavoro ricco di opportunità, il rischio di instabilità viene ad essere certamente attutito, ma il panorama si presenta notevolmente diverso se l’instabilità del lavoro si manifesta nell’ambito di aree geografiche segnate dalla disoccupazione e dalla crisi delle dinamiche economiche.

In questo contesto non sono solo le nuove regole del mercato del lavoro che rendono sempre più difficile la possibilità di sposarsi ed avere figli, ma anche, da non sottovalutare, il fenomeno del carovita, avvenuto in coincidenza del passaggio dalla lira all’euro. Un pò perché il cambio è stato fissato su un parametro troppo elevato, un pò per la latitanza di una autorità di vigilanza, che ha consentito alla speculazione di fiorire lungo i diversi passaggi commerciali, il disastro è stato immediato. L’euro è stato parificato alle vecchie mille lire con il risultato di rendere leggerissime le già precarie buste paga. È di questi giorni, poi, la notizia di una netta ripresa dell’inflazione. Le prime stime dell’Istat danno i prezzi a dicembre 2007 in salita del 2,6%, rispetto alla fine del 2006. È il peggior rialzo dall’ottobre 2003, tanto che i sindacati si mostrano preoccupati per la tenuta dei salari. Le associazioni dei consumatori, poi, pur contestando i dati Istat, certe che l’inflazione reale sia al 3,5% con una maggiorazione di spesa annuale per ogni famiglia di 994 euro circa, non mancano di rilevare che con un carovita a questi livelli il numero delle famiglie in stato di povertà potrebbe raddoppiare, raggiungendo i 5 milioni.

Un pericolo quest’ultimo che viene ad essere rafforzato dai recenti dati di Bankitalia che mettono in evidenza la difficoltà delle famiglie italiane ad arrivare alla fine del mese. In altre parole, tra rate di mutuo non pagate, scoperti di conto corrente, pagamenti rimasti indietro sul credito al consumo e le carte elettroniche, le famiglie italiane hanno accumulato un rosso superiore dell’8,45%, rispetto al dato dello scorso anno. In un anno, quindi, le sofferenze bancarie che fanno capo a famiglie italiane è salito a 11.292 milioni di euro, ben 880 milioni in più dei 10.412 di un anno prima.

Con questo scenario ben pochi sono coloro i quali possono ancora elaborare progetti a lungo termine e tra questi proprio quelli coniugali e genitoriali. Come abbiamo già visto, molte donne, infatti, rimandano matrimonio e maternità, prolungando magari l’esperienza della convivenza, in attesa che il fronte professionale possa stabilizzarsi e che dia maggiori garanzie di stabilità e retribuzione con l’obiettivo di completare senza rischi i progetti coniugali e genitoriali.

Non possiamo, pertanto, non condividere l’opinione di Salmeri (2006: 8), quando scrive che
l’insicurezza frena le decisioni e ritarda gli appuntamenti con i propri progetti e quelli degli altri. Lasciare la casa dei genitori diventa un problema; il rapporto di coppia si presenta faticoso; la scelta di avere dei figli può essere rimandata o risultare onerosa; il tempo per sé può ridursi a gesti quotidiani di consumo. La continua riconfigurazione delle opzioni quotidiane e di lungo periodo indebolisce la stessa capacità di prendere decisioni importanti. Altrimenti si è indotti a sottovalutare le conseguenze che queste comportano.
In parole povere, vivere è quasi un’impresa.

Le difficoltà di pianificazione e l’imprevedibilità della carriera professionale stravolgono il vissuto con un continuo ricorrere all’analisi dei rischi e delle opportunità. I soggetti si muovono fra le turbolenze dei mercati, le minacce e le opportunità delle situazioni instabili, transitorie e discontinue.

L’immagine di una carriera lavorativa variabile diviene sempre più familiare, tanto è vero che i giovani tentano di trasformarla in un ampliamento delle opportunità di successo professionale, ma resta per loro aperto il problema della labilità che ne deriva nella sfera privata. Né può essere diversamente.

La società dell’incertezza lavorativa alimenta nuove e inesplorate forme di adattamento degli individui alle dinamiche, ai vincoli e alle opportunità della flessibilità e, quindi, delle strutturali condizioni di vita, per cui è inevitabile che sotto il segno dell’occupazione instabile e delle variazioni negli orari, nelle durate e negli obiettivi del lavoro i giovani si creino un nuovo quadro di riferimento.

Non sono elementi di poco conto per potere valutare quanto possa giocare l’incertezza nelle scelte degli individui e, nel nostro caso, per comprendere che il desiderio di formare una famiglia in condizioni di incertezza sia davvero un’impresa ardua.

A riprova di quanto abbiamo detto sopra, molte ricerche sociologiche evidenziano che la maggior parte dei giovani è decisa a sposarsi, ma reputa che il momento non sia ancora giunto e ne imputa il rinvio soprattutto alle condizioni di instabilità lavorativa che comprometterebbe la riuscita dell’unione.

Il dato che emerge con forza è, dunque, che l’instabilità del lavoro rappresenta un freno per l’uscita definitiva dalla famiglia di origine.

La motivazione non cambia nemmeno per quei giovani che optano per la convivenza fuori dal matrimonio. È una scelta che scaturisce proprio dalla necessità che possa meglio definirsi il percorso professionale, anche se molti di loro lasciano intravedere una sorta di sfiducia nella dinamica matrimoniale in contrapposizione a quella professionale, nel senso che la prima potrebbe minare gli esiti della seconda.

Soprattutto l’idea che al matrimonio segua la nascita dei figli, con i conseguenti vincoli per il ruolo materno, spinge molte donne a considerarlo in conflitto con la condizione attualmente instabile che hanno sul mercato del lavoro.

Ne consegue che vivendo sotto il segno dell’instabilità, si finisce con l’accettare una certa fluidità anche nel campo affettivo e, principalmente, nel sistema domestico.

Oltre a questi freni – annota ancora Salmieri – «al desiderio di avere un figlio si oppone anche un’altra valutazione di ordine non economico: l’instabilità lavorativa, in assenza di figli, presenta sempre il rovescio positivo della medaglia nel fatto che può essere stimolo per progetti individuali ambiziosi. L’arrivo di un bambino costringe, invece, a tenere i piedi per terra» (ibidem).

È fuor di dubbio che la crisi della famiglia ha innescato un processo di deriva soggettivistica, responsabile della crisi del legame sociale e della disaffezione alla vita pubblica. E, inoltre, sotto gli occhi di tutti che nell’individuo di oggi c’è una perdita, un deficit di solidarietà e una perdita di comunità, che impone un ripensamento dell’intero progetto di modernità e l’individuazione di adeguate strategie normative, tese a correggere gli effetti patologici che ne derivano. L’uomo post-moderno, caratterizzato da una vocazione autoaffermativa illimitata, nella quale si è affievolita quella tensione etica e sociale che ancora guidava l’agire dell’individuo della prima modernità, sembra mosso da impulsi ambivalenti, nei quali il sentimento della propria onnipotenza si coniuga con la percezione del proprio vuoto e della propria debolezza, ritraendosi in una sorta di solitudine atomistica, che lo separa dall’altro pur senza isolarlo dal mondo, che egli tende, al contrario, ad usare come pura arena di una narcisistica autorealizzazione, per cui sembra avido di una libertà insofferente di ogni vincolo e privo delle certezze conferite da istituzioni solide e credibili. Esso rappresenta quella paradossale coesistenza tra onnipotenza e vuoto, da cui trae origine e alimento la sua struttura ansiosa e desiderante, carente e inappagabile (D’Andrea, Pulcini 2001).

In una società, dunque, in piena tempesta, dove le vecchie certezze appaiono ammuffite, la capacità della famiglia di presentarsi come un’unità di fondo del sociale appare gravemente compromessa, così come pure sembra fortemente messa in discussione la sua capacità di uscire indenne dalle spinte dirompenti della società globalizzata.
7. Quale ruolo riservare oggi alla famiglia?
La Chiesa non ha alcun dubbio nell’affermare che essa rappresenta la cellula fondamentale della società, definendola una struttura fondamentale di solidarietà, senza la quale ogni tentativo di fondare su solide basi la vita pubblica fallisce necessariamente. Per la Chiesa, in sintesi, il ruolo pubblico della famiglia e la promozione dei suoi diritti non è una questione solo “cattolica”, ma un impegno a favore del bene comune nel creare una società veramente umana.

Ma, per quest’ultima, affinché la famiglia possa rappresentare ancora un’unità di fondo del sociale, bisogna combattere la tendenza, che si va sempre più affermando nella società postmoderna, a concepire il matrimonio come un contratto di diritto privato, frutto di una scelta individuale, che dipende dal progetto di vita o dal capriccio di ognuno di noi. Una scelta, quest’ultima, che cerca di impegnare lo Stato a mantenere una assoluta neutralità nei confronti del matrimonio e, di conseguenza, della famiglia.

E nella realtà le istituzioni vanno sempre più assumendo nei loro confronti un atteggiamento di neutralità etica, giudicandole questioni di coscienza personale, nelle quali lo Stato, ritiene giusto esercitare la più ampia tolleranza.

Non è un caso, quindi, che in tutti i paesi occidentali (Italia compresa) si registri, nonostante talune occasionali misure che vorrebbero contrastare il declino demografico, una grave carenza nelle politiche familiari. Tutto ciò non può essere considerato una semplice coincidenza. Se, infatti, ci soffermiamo a riflettere sul contesto culturale nel quale oggi viviamo, non possiamo non registrare una crisi della famiglia e del suo ruolo educativo tradizionale e, dato ancora più preoccupante, una strisciante e silenziosa strategia per liquidarla.

La nostra epoca, definita da Bauman come “modernità liquida ”, non può tollerare i corpi solidi. I suoi valori sono la velocità, il cambiamento, il flusso temporaneo e la precarietà; come tale non può tollerare la famiglia, la classe, il vicinato, la comunità: deve “liquefarli”o “liquidarli”.

Bauman, come abbiamo già visto, parla anche di “amore liquido”, di un amore che da puro ed eterno sentimento si è trasformato in un fatto commerciale, da ipermercato: nella modernità liquida diventa normale adeguare i rapporti di coppia ai rapporti commerciali, con l’amore e il partner alla stregua di un bene, cui ho diritto e prendo o getto via quando mi sono stancato, perché all’orizzonte si profila un prodotto che promette di gratificarmi di più. La modernità liquida è dominata dalle voglie che contrastano con i desideri coltivati, principio di stabilità.

Se le cose stanno così, ecco spiegata l’offensiva contro la famiglia fondata sul matrimonio, che non si adegua alle nuove regole, anzi alla deregulation: occorre liquidarla. In questa logica, il principio del diritto di scelta da parte dell’individuo viene affermato come un assoluto nell’ambito della sessualità, della riproduzione, della vita, ed esso funziona come un fattore di decostruzione delle forme naturali e tradizionali dei rapporti nella famiglia, nella comunità locale e nella società. In nome di questo concetto individualistico di libertà e di autonomia si afferma che qualsiasi concezione della propria sessualità ha eguale diritto di essere praticata e si esige l’equiparazione giuridica di ogni pratica, dalle unioni di fatto all’omosessualità, al transessualismo; si rivendicano come diritti appartenenti alla “salute riproduttiva” quelli legati alla contraccezione, all’aborto libero e alla fecondazione artificiale. Il principio di autonomia si associa a quello di uguaglianza nel configurare un’assoluta neutralità da parte dello Stato sui giudizi circa le diverse forme di realizzazione della sessualità umana. Esse, in sintesi, apparterrebbero alla sfera privata, mentre alla legge civile spetterebbe il compito di garantire l’eguaglianza dei diritti. In quest’ottica, la conclamata neutralità dello Stato presupporrebbe la considerazione della famiglia come una sovrastruttura puramente convenzionale, una forma transeunte tra le tante, dalla quale ci si può e anzi ci si deve emancipare. Fa parte di questa prospettiva anche l’attuale discorso sulla “pluralità di modelli” di famiglia ( convivenze, unioni di fatto etero e omosessuali, unioni temporanee, etc.), basato sul pluralismo di concezioni. Una strategia, quest’ultima, che consentirebbe di non parlare più di “fine della famiglia”, ma di “pluralismo dei modelli familiari” e, in ultima istanza, di prendere atto di questo cambiamento. Un discorso, quest’ultimo, che si colloca all’interno di una impostazione radicalmente scettica, poiché si continua a parlare di famiglia, ma a condizione che sia vuota di contenuto.
8. Quale futuro per la famiglia?
Come abbiamo già visto dai dati presentati sopra, la famiglia italiana non sembra destinata a un futuro roseo e rianimarla appare a molti un’impresa ai limiti dell’impossibile. Il suo indebolimento, come abbiamo già visto, scaturisce non solo dal venir meno della essenzialità dei figli, ma anche dalla crisi del fare coppia, del mettersi insieme. A questo proposito, aggiunge Volpi (2007: 135): «i nostri giovani non si mettono insieme per tutta una serie di motivi che spaziano da una malintesa educazione, che non fa che proteggerli, a una struttura del lavoro e del Welfare state che non risulta minimamente calibrata rispetto alle loro esigenze e necessità».

Come se ciò non bastasse, si registrano non pochi tentativi di oscurare la funzione pubblica della famiglia per valorizzarne la dimensione privata, in una

visione tendente proprio a facilitare la trasformazione della famiglia in qualcosa di meramente strumentale alla prospettiva globalizzante della società.

Una strategia, quest’ultima, che segue percorsi ambigui, di cui Donati non manca di cogliere gli aspetti paradossali. In particolare, quando riflette sul fatto che se


da un lato si verifica un’apparente pubblicizzazione della famiglia sotto forma di crescenti relazioni e interventi dello Stato, dall’altro, e allo stesso tempo, si constata una progressiva privatizzazione dei comportamenti familiari, in termini di azioni che seguono sentimenti, aspirazioni, gusti, preferenze, aspettative e così via, apparentemente del tutto individuali e soggettivi, cioè slegati da vincoli sociali e morali di un qualche mondo comune (Donati 1992:33).
L’entrata nell’era della globalizzazione, infatti, non solo ha acuito la crisi della nostra società, ma ha anche prodotto una generale confusione per quanto concerne la sua capacità di scelta e di azione all’interno di un sistema le cui coordinate appaiono poco definite.

In una società dove al posto delle idee trionfano il dominio del mercato e delle logiche utilitarie, la seduzione della pubblicità o delle altre forme di retorica del nostro tempo, come si può difendere una concezione meno labile di famiglia?

La scomparsa delle cosiddette metanarrazioni del mondo, la rinuncia ad ogni trascendenza, ad ogni principio di organizzazione e di orientamento della vita personale e collettiva e la vittoria di una vita emotiva, occasionale, legata agli istinti e agli istanti, rende difficile una scelta di difesa dell’istituzione familiare.

Gianni Vattimo, considerato il maggiore teorico odierno del postmoderno, ritiene che l’unica possibilità di difesa che ha oggi l’uomo per uscire fuori dal disagio sociale in cui versa è quella di abbandonare un tipo di pensiero illusoriamente proteso a fornire fondazioni assolute del conoscere e dell’agire per passare ad un pensiero debole. Vattimo è persuaso che i racconti “legittimanti” della modernità su un pensiero che parla in nome della verità, dell’unità e della totalità abbiano fatto il loro tempo.

Da qui la necessità di accettare il pensiero debole come una forma di nichilismo. Per Vattimo, infatti, in assenza di fondamenti a cui l’uomo postmoderno possa riferirsi, in seguito alla caduta delle certezze e delle verità stabili, il nichilismo rappresenterebbe la nostra unica possibilità per vivere «senza nevrosi in una situazione dove non ci sono garanzie e certezze assolute» (Vattimo 1998:11).

Noi, dunque, per Vattimo saremmo oggi a disagio non «perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere sino in fondo l’esperienza della dissoluzione dell’essere» (Vattimo 1991:26).

L’uomo postmoderno sarebbe, per Vattimo, colui che dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e attraverso la dissoluzione del pensiero metafisico tradizionale riuscirebbe a vivere “senza nevrosi”, in un mondo in cui Dio è nietzscherianamente morto, accettando il nichilismo come chance ed imparando a vivere senza ansie nel mondo relativo delle “mezze verità” (Vattimo 1991). Quella di Vattimo non è una posizione largamente condivisa.

Nessuno, in realtà, possiede a priori una verità assoluta che possa diventare, di per sé, verità per tutti; ma pur con la consapevolezza del carattere necessariamente fallibile o mai completamente perfetto della conoscenza umana, abbiamo la coscienza che la profondità delle cose, pur se inesauribile, è però sondabile. La continua ricerca della verità, dunque, di una verità che ha sempre e di nuovo da essere esaminata e riscoperta, diversamente da un atteggiamento nichilista, potrebbe oggi essere l’antidoto migliore contro le ambiguità o le verità “portatili” della società postmoderna.

Ma un pensiero forte, critico – unico strumento per andare alla ricerca della verità -, capace di elaborare idee è un comportamento che, purtroppo, oggi viene scoraggiato, perché, come rileva Veneziani
le principali fabbriche dell’opinione pubblica ci sussurrano ogni giorno che le idee nella migliore delle ipotesi sono inutili, nella peggiore nocive, perché ledono la nostra libertà e frenano il nostro movimento, impedendoci di vivere appieno l’istante, nel totale abbandono dell’essere al fluire della vita. Sono un’elusiva cataratta che si frappone tra noi e il nostro vivere. Un residuo metafisico di cui liberarci (Veneziani 2003:3).
Quello che Veneziani tende a mettere in evidenza è il tentativo di spingere l’uomo verso una vita sedentaria e conformista alle opinioni dei governanti, facendolo approdare verso una sorta di non vita che, sotto certi aspetti, potrebbe offrire maggiori garanzie di serenità di una autentica vita. Un tentativo dunque, di meccanismo repressivo, già anticipato dal sociologo Kardiner quando rileva che
la visione che l’individuo ha della realtà è determinata non soltanto dai suoi contatti con il mondo fisico, ma anche dalle concatenazioni, dai rapporti di causa ed effetto ch’egli deduce dai contatti con le istituzioni e i loro strumenti umani; così per l’individuo che sin dall’infanzia più tenera ha imparato a credere che continuerà a ricevere protezione se si sottometterà a certe discipline arbitrarie, privandosi, in obbedienza ad esse, di certi piaceri, per un tale individuo sarà logico privarsi del piacere (Kardiner 1965:99).
Ma quando l’uomo non sa reagire e opporsi alle frustrazioni a cui continuamente lo spinge la società, perché ha paura di contrastare la pubblica opinione, la sua vita sarà una parabola discendente di libertà, fino al punto in cui egli ha perduto la partita della vita, poiché l’uomo che si lascia vivere nell’automatismo degli ingranaggi di un lavoro meccanico o di una vita di società in cui non realizza nulla di effettivo, è un individuo fallito e infelice. Lasciandosi fagocitare dagli ingranaggi di una meccanizzazione della propria vita, l’uomo finisce col perdere ogni piacere e ogni impulso vitale verso la realtà che lo circonda, raggiungendo una sorta di non vita che può presentare maggiori garanzie di serenità di una autentica vita.

L’ossessione del rendimento come criterio valutativo dell’uomo appare, poi, come la degenerazione dell’ideale dell’homo faber e, di conseguenza, la società concepita nel senso postmoderno si presenta come la caricatura e lo sgretolamento di una originaria solidarietà umana e vitale tra gli uomini.

Se, poi, questa ideologia, in nome del progresso, rimanda a domani la felicità dei membri di essa e un tale miraggio li induce a sacrificare la loro natura più propriamente umana, il teorico della società di oggi rischia, quindi, di essere quello che Sartre ha spietatamente descritto in “La nausea”: «è un misantropo scientifico, che ha saputo dosare il suo odio, che odia gli uomini in principio solo per poterli amare meglio in seguito» (Sartre 1948:188).

Siamo, quindi, molto lontani da quello che gli illuministi, i loro eredi e discepoli avevano profetizzato in merito ad un futuro, paragonabile ad una forza ineluttabile, che avrebbe continuamente migliorato le condizioni interiori ed esteriori dell’uomo. Se speravano di domare le paure e di imbrigliare i pericoli, da cui esse derivavano, si sono sbagliati di molto.


La nostra vita – rileva Bauman (2008:10)– è tutt’altro che priva di paure e il contesto liquido moderno in cui essa va vissuta è tutt’altro che esente da pericoli e minacce. Tutta la vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l’impatto potenzialmente invalidante delle paure e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo.

9. Conclusione


Alla luce di quanto detto sopra, sembra proprio che sia la paura a spingere oggi i giovani a non abbandonare la casa dei genitori e ad accantonare un progetto matrimoniale. La paura, in poche parole, di non trovare o di perdere il lavoro, la paura di mettere su famiglia e di non riuscire economicamente a mantenerla e, soprattutto, la paura di mettere al mondo dei figli in una società il cui futuro appare nebuloso. Ma, quel che è peggio, è che a tutt’oggi non si intravedono condizioni favorevoli in Italia alla formazione e all’esistenza piena e vitale della famiglia.

Manca, inoltre, e si avverte sempre di più, l’esigenza di una cultura che difenda realmente l’istituto familiare, di riforme che si mettano in sintonia con l’esigenza forte che individua nella famiglia e nelle politiche a suo favore anche una strada d’uscita dalla crisi morale e sociale che si sta vivendo e un punto di forza per risolvere i problemi che si sono consolidati nel tempo.

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