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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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l’apertura globale dei mercati, inclusi quelli finanziari, e la loro espansione senza limiti territoriali, ha l’effetto di aumentare la concorrenza e la produttività, di stimolare la circolazione dei risparmi su scala mondiale, di ridurre la disoccupazione e quindi di incrementare in misura considerevole la ricchezza complessiva prodotta (Gallino 2000:99-106).
Anche Amartya Sen è del parere che la globalizzazione porta con sé opportunità e vantaggi di grande rilievo, poiché – a suo dire – «una più efficiente divisione internazionale del lavoro, l’abbattimento dei costi di produzione, l’incremento generale della produttività portano a una riduzione della povertà e a un miglioramento della qualità del lavoro e delle condizioni di vita personali e sociali» (Sen 2002: 9).

Un dato oggettivo, quest’ultimo, sul quale anche Zolo concorda, considerando, sulla base degli atti ufficiali delle Nazioni Unite, che il consumo globale di beni e servizi si è notevolmente accresciuto negli ultimi cinquant’anni. Zolo, infatti, rileva che nel 2000 il prodotto interno lordo del pianeta è stato di 42.000 miliardi di dollari, sette volte più che nel 1950.

Secondo questi dati - scrive Zolo -, non solo una gran parte dei paesi dell’OCSE – i più industrializzati del mondo – ha tratto vantaggio dalla globalizzazione, ma importanti poli di sviluppo si sono affermati anche in paesi come la Cina, l’India e l’America meridionale, e ciò ha comportato un rapido aumento del reddito individuale in una parte considerevole della popolazione mondiale. Le condizioni di vita di milioni di persone sono migliorate: la loro vita è più lunga e più sana, il tasso di mortalità infantile si è dimezzato, il numero di persone denutrite è diminuito, l’alfabetizzazione degli adulti è passata dal 60 all’80 per cento (Zolo 2006:28).
Non solo, ma i sostenitori della globalizzazione sono dell’idea che attraverso la mediazione dei mercati globali si potrà ottenere una migliore tutela dell’ambiente, «poiché nel lungo periodo il meccanismo della concorrenza finirà per far prevalere le modalità produttive rispettose degli equilibri ecologici e non aggressive verso l’ambiente naturale; si affermeranno, cioè, le produzioni che richiedono una ridotta manipolazione di materia e un minore consumo di energia» (Greco 2002:45).

Insomma, senza cedere ai toni populisti con cui spesso si affronta la questione, gli autori citati si soffermano a descrivere i vantaggi di un’economia aperta in termini di benessere, democrazia e libertà personale, tanto che, per citare Wolf, ne emerge una visione talmente ottimistica che, forse, oggi «il vero problema non è l’eccessiva, ma la scarsa globalizzazione» (Wolf 2006:19).


3. Il crollo della fede nel progresso
In realtà, quale che sia l’opinione di ciascuno di noi sul fenomeno della globalizzazione, nessuno potrà negare che il tumultuoso ingresso nella seconda modernità è stato accompagnato da radicali trasformazioni in campo economico, ma, nello stesso tempo, ha causato imprevisti cambiamenti nella nostra vita ed esperienza quotidiana, portando ciascuno di noi a reinterrogarci sul nostro ruolo di cittadino e di individuo.

Sino a pochi decenni fa, la fede nel progresso delle scienze e nello sviluppo tecnologico avevano contribuito non poco a creare la speranza di un nuovo mondo, dove non ci sarebbe stato più posto per l’indigenza, la fame, la miseria e la povertà. Per il raggiungimento di questo obiettivo l’uomo è giunto ad accettare un ritardo della gratificazione «guardandosi dal sacrificare gioie future a vantaggio dell’appagamento presente, perché le gioie future erano destinate a essere più godibili di qualunque cosa il presente potesse offrire» (Bauman 2005: 146). Un calcolo razionale, dunque, accettato come un allettante investimento; ma, come ogni investimento, non scevro da rischi.

Oggi, con l’avvento dell’economia globale, non sono pochi coloro i quali considerano la globalizzazione come una grave minaccia a un prezioso patrimonio di valori e di tradizioni e, di conseguenza, l’equazione “futuro uguale felicità” non trova più molti sostenitori. Secondo Bauman
la globalizzazione sembra essere, quantomeno in parte, responsabile della perdita di lustro e della caduta in disgrazia del progresso. Dopo tutto, globalizzazione significa mutamenti e sviluppi fondamentalmente imprevedibili; ciò che ci capita, non è ciò che decidiamo di fare. Le forze globali operano nello spazio extraterritoriale, recidono ogni cavezza e corrono senza briglie […] è assai improbabile che il futuro possa diventare un regno di certezza. Il futuro è autenticamente e totalmente fuori controllo e la realistica previsione è che sia destinato a restare tale almeno per un prevedibile futuro (ivi:150).
Diversamente dall’ottimismo del XVIII secolo, dove il progresso era subordinato all’emancipazione e al benessere dell’uomo, oggi il progresso «è diventato un movimento senza una causa che sfugge a qualsiasi controllo, che procede per conto proprio senza alcuna distinzione o finalità» (Ferry 2001:27).

Negli ultimi quarant’anni, infatti, si è spezzato l’incanto con cui lo sviluppo capitalistico aveva abbagliato l’umanità per oltre due secoli. Lo sviluppo, e con esso l’idea culturale ed etica del progresso, non costituiscono più valori indiscussi e generalmente condivisi.


4. Consumatori e società dei consumi
Il progresso tecnologico avanza in modo così vorticoso, da alimentare ancor di più il clima di incertezza. Se, da un lato, la globalizzazione inneggia al progresso e al miglioramento delle condizioni economiche, dall’altro c’è il rischio che questo ipotetico miglioramento sia pagato a prezzo di una progressiva meccanizzazione della vita e di una progressiva sottrazione di libertà all’individuo, per cui non si può non condividere la posizione di Adorno, quando già nel 1947 scriveva con una certa lungimiranza che «nelle condizioni attuali anche i beni materiali diventano elementi di sventura» (Horkheimer, Adorno 1966:7).

Sino a pochi decenni fa era il bisogno a stimolare e favorire l’invenzione. Oggi avviene il contrario. La tecnologia precede la domanda, anziché seguirla. La politica dei produttori, attraverso una martellante campagna pubblicitaria, deve

convincere il maggior numero di ipotetici utenti inconsapevoli di avere bisogno di un determinato prodotto, o, ciò che è lo stesso, stimolare il desiderio di possederlo, poiché «la tecnica non tollera alcun giudizio dall’esterno e non accetta alcuna limitazione» ( Ellud 1969: 134).Ne consegue, secondo Bauman (2005: 153), che
la maggior parte del denaro destinato ai budget pubblicitari è una spesa per promuovere prodotti che promettono di soddisfare quei bisogni che altrimenti i consumatori non sarebbero coscienti di avere. Scopo della pubblicità è istillare nuovi desideri e modificare e reindirizzare quelli esistenti; ma l’effetto complessivo di tale bombardamento pubblicitario è non permettere mai che il desiderio – desiderio di cose non ancora possedute e sensazioni non ancora sperimentate – si assopisca e si raffreddi.
Un desiderio, in ogni caso, che non deve durare a lungo, perché al più presto deve essere sostituito da un nuovo desiderio.

È su questo tipo di logica che oggi si regge il mercato globale. Da qui la pressione nei confronti dei dipendenti, sottoposti ad uno stato di stress continuo ed obbligati ad essere creativi, poiché la concorrenza in un mondo che corre non concede vantaggi a nessuno. Il prodotto, così, non è che la forma materiale di un messaggio culturale. E non a caso si investe di più sulla costruzione del messaggio e sulla sua diffusione che non sulla produzione del prodotto. «Oggi – sottolinea Imperatori – non si vendono più scarpe da ginnastica, alimenti o cosmetici; si vende una cultura dello sport, una cultura dell’alimentazione, una cultura del corpo» (Imperatori 2003:15).

Ogni forma di produzione di merci oggi appare finalmente per quello che è: un modo di consumare risorse sempre più limitate e di restituire rifiuti che ingombrano gli spazi della nostra vita. Il fine sostanziale del meccanismo economico delle società industriali sembra ormai essere l’impoverimento finale per mezzo dell’arricchimento senza fine. Nelle società industriali siamo ormai circondati da una quantità straordinaria di ricchezze, al punto che i loro scarti minacciano la nostra vita quotidiana; eppure nessuna società del passato è apparsa così ossessionata dai traguardi produttivi, asservita, come la nostra, al totem della crescita materiale continua.

Bisogni così imperiosi, in mezzo a tanta opulenza, assumono necessariamente le fattezze dell’assurdo. Cosa c’è di più paradossale sulla terra dello spettacolo che offre oggi la vita dell’economia?

Nessuno è più sicuro al proprio posto di lavoro. Conoscenze e mestieri diventano inservibili in breve tempo. Nei prossimi anni nessuno avrà più nicchie in cui rifugiarsi. Dopo tanti secoli di civilizzazione, gli individui si trovano a vivere una vita senza più schemi culturali e simbolici, ridotta alle sue funzioni materiali essenziali: produrre e consumare. Viviamo in una società – aggiunge a tal proposito Bauman – che «forma i propri membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone una norma: saper e voler consumare» (Bauman 2005:90-107).

Un condizionamento, fra l’altro, abbondantemente anticipato da Marx, quando rilevava che «la produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. La produzione produce il consumo, creando il modo determinato di consumo e, poi, creando lo stimolo al consumo, la capacità stessa di consumare sotto forma di bisogno» (Marx, Engels 1996:722-724).

Si produce, dunque, per potere consumare e si consuma per potere continuare a produrre. È in questo misero e insensato circolo che va precipitando il senso del vivere nelle società industriali. Ogni istituzione e realtà pubblica sembra chiamata, con insolita urgenza, a ubbidire alle logiche del mercato.

È per tale essenziale ed esclusiva ragione che le culture che hanno fin qui sostenuto lo sviluppo industriale si ritrovano di fronte a scenari inattesi, a richieste impreviste.


5. La società disumana
Quello che ci annunciano i profeti del nuovo millennio ci dà l’immagine di una società disumana. Il lavoro umano deve diventare sempre più pronto a cambiare, ad adattarsi agli imperativi mutevoli della tecnologia che esso stesso ha creato.

Così, nell’epoca della massima opulenza si apre uno scenario di imprevedibile immiserimento. Nella fase in cui le macchine sostituiscono continuamente gli individui e mentre si dischiude all’orizzonte una prospettiva grandiosa di liberazione dal lavoro, il potere capitalistico tenta con tutti i mezzi di imporre nuove forme di asservimento del lavoro.

Per gli uomini non si avanza la promessa di una possibile terra della libertà, ma la minaccia di diventare appendici mobili e flessibili dei loro sostituti.

Nella società di massa e in un mondo governato dalle apparenze, l’uomo, spogliato della propria individualità, si sente sempre più solo e disarmato. Uno dei tratti più impressionanti dell’attuale fase della modernità è che non vi è più nulla di solido e che all’interno della nostra società si sia dato l’avvio ad una fase di liquidità, nella quale gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi.


Una società - scrive Bauman (2006: VII-VIII) - può essere definita liquido-moderna se le condizioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Le condizioni in cui si opera e le strategie formulate in risposta a tali condizioni invecchiano rapidamente e diventano obsolete prima che gli attori abbiano avuto una qualche possibilità di apprenderle correttamente. E incauto dunque trarre lezioni dall’esperienza e fare affidamento sulle strategie e le tattiche utilizzate con successo in passato: anche se qualcosa ha funzionato, le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto (e, forse, imprevedibile).
Ne consegue, per Bauman, che la vita liquida diventa una vita precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza. In questo clima il desiderio di sposarsi, mettere su famiglia e fare figli non viene incoraggiato. Fare ipotesi attendibili a medio e lungo termine diventa sempre più difficile e non è possibile effettuare stime delle tendenze future che si possano considerare completamente e realmente affidabili. Si vive ogni santo giorno col timore di essere colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si muovono velocemente, di rimanere indietro. La capacità di scegliere è difficile. L’uomo si

trova spesso di fronte ad un “aut” “aut” di kierkegaardiana memoria, dove ha sì la facoltà e la libertà di scegliere, ma se la scelta è sbagliata il più delle volte non ha possibilità di appello.

In questo frenetico e nevrotico correre l’uomo sembra non coltivare più sentimenti e passioni realizzabili, poiché anche le relazioni personali, i legami sociali tendono a dissiparsi, a disgregarsi, sempre più revocabili, sempre più effimeri. Per Bauman siamo in presenza di «un’inedita fluidità, fragilità e intrinseca transitorietà che caratterizza tutti i tipi di legame sociale che solo fino a poche decine di anni fa si coagulavano in una duratura, affidabile cornice entro la quale era possibile tessere con sicurezza una rete di interazioni umane» (Bauman 2004: 126).

La liquidità dei legami personali e sociali finisce col produrre un individuo afflitto dalla solitudine, egoista ed egocentrico, capace di vedere “l’altro” tendere imboscate, perché è costretto a muoversi in un gelido mondo neo-darwiniano.

«Stiamo vivendo – aggiunge ancora Bauman – una nuova fase della modernità all’insegna del principio della sopravvivenza che spazza via la fiducia, la compassione, la pietà e prelude ad un gorgo di smarrimenti e stordimenti, dove uomini e donne si scoprono dilaniati tra il vuoto esterno e lo svuotamento interiore» (ibidem).

Quello che ci annunciano i profeti del nuovo millennio ci dà l’immagine di una società disumana. Il lavoro umano deve diventare sempre più pronto a cambiare, ad adattarsi agli imperativi mutevoli della tecnologia che esso stesso ha creato.

I sostenitori della globalizzazione non negano che in ogni cambiamento, anche se positivo, c’è sempre un prezzo da pagare, ma nel contempo sostengono che essa è una forza travolgente che migliora tutto ciò che tocca e che, ancora, offre all’uomo maggiori opportunità, rispetto al passato, di affermare ed esaltare la propria individualità senza alcun limite o pregiudizio. Non è solo, quindi, il trionfo del vecchio postulato della filosofia illuminista, che non riconosce validità a nulla se non alla ragione, ma un ulteriore superamento: con la rivendicazione, infatti, da parte del soggetto del diritto all’autogiustificazione, «nelle questioni piccole come in quelle grandi, il posto di Dio, della natura, del sistema viene preso dall’individuo che conta solo su se stesso» (Beck 2000:15).

È vero, apparentemente la filosofia esistenziale della globalizzazione, in un mercato del lavoro senza frontiere, sembra esaltare l’individuo, giacché chi parla di individualizzazione, spesso la intende come autonomia, emancipazione, liberazione non meno che autoliberazione dell’uomo; ma il più delle volte si trascura di porre l’accento anche sulla considerazione che una eccessiva esaltazione dell’individualità, senza alcun riferimento etico, si traduce in una dissoluzione di forme di vita sociale precostituite, come, per esempio, «il logorarsi di categorie del mondo, della vita come classi e ceto, ruoli legati al genere, famiglia, vicinato etc.; e anche crollo delle biografie normali, dei parametri di orientamento e dei modelli guida prescritti dallo stato» (ibidem).

Mentre nelle società tradizionali si nasceva con determinati vantaggi – per esempio di ceto o di religione – per ottenere oggi gli stessi o nuovi vantaggi bisogna impegnarsi attivamente. Qui i vantaggi vanno conquistati, bisogna sapersi imporre sulla concorrenza per ottenere risorse limitate e non una volta, ma ogni santo giorno.

«La vita di un individuo si trasforma, così, in una biografia della scelta o del “fai da te”, ma così è una biografia a rischio, che spesso può degenerare in una biografia del fallimento» (ibidem).

Trovare lavoro non è impresa facile. Anche l’osservatore più sprovveduto ha oggi chiara la sensazione che le fonti dell’energia umana si stiano spostando, per cui «chi si trova nel mondo già sviluppato può essere lasciato fuori» (Sennett 2006:69).

E se il lavoro non c’è, la frustrazione avvolge l’individuo, che non può non avvertire la sua inutilità, sfiorando la disperazione.

Qualcuno potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo in un fenomeno economico e sociale del genere e che la storia, d’altra parte, si ripete.

È vero, ma è il contesto economico e sociale che è diverso. Dopo la grande depressione del 1929, per fare un esempio, molti credettero di avere trovato un rimedio per mettere in futuro i propri figli al riparo dalla disoccupazione, facendoli studiare e mettendoli, così, in condizione di acquisire competenze specifiche, che ritenevano sempre spendibili nel mercato del lavoro, a prescindere dalle oscillazioni economiche. Oggi non è più così. Sapere e competenze specialistiche non bastano più, poiché, diversamente dal passato, c’è lo spettro di una offerta mondiale di forza- lavoro.

Il capitalismo, infatti, sembra sempre più orientato a cercare forza lavoro là dove è più a buon mercato, per cui molte imprese europee, ma anche quelle americane, abbandonano i Paesi che garantiscono alti salari per emigrare in Paesi dove il cosiddetto “costo del lavoro” è più basso e nei quali la manodopera non solo è qualificata, ma anche sovraqualificata.

In questa logica, l’attaccamento alle proprie radici, l’intestardirsi nel concepire la propria esistenza come limitata ad un luogo, in un mondo globalizzato, è segno di inferiorità e di degradazione sociale.


La mobilità assurge, quindi, al rango più elevato tra i valori che danno prestigio e la stessa libertà di movimento, da sempre una merce scarsa e distribuita in maniera ineguale, diventa rapidamente il principale fattore di stratificazione sociale dei nostri tempi […] l’immobilità non è un’opzione realistica in un mondo in perpetuo mutamento (Bauman 2005:4).
Ne consegue una morale del vagabondo, caratterizzata, nel contempo, da un’alta percentuale di provvisorietà, poiché oggi una qualifica non significa possedere una conoscenza durevole, in quanto le qualifiche invecchiano in maniera sempre più veloce non solo nel campo della tecnica, ma in quello della medicina, del diritto e di altri ambiti professionali. Gli specialisti di computer, per esempio, debbono riacquistare totalmente le loro competenze per tre volte nel corso della loro vita lavorativa. Ma su questo punto, nell’epoca della globalizzazione, sorge un altro problema non meno delicato. I datori di lavoro, infatti, preferiscono assumere manodopera giovane piuttosto che investire su un dipendente anziano, poiché quest’ultimo non solo pretenderebbe un salario più elevato, ma costringerebbe l’impresa ad investire su un programma di riaddestramento dai costi, spesso, non indifferenti. I giovani sono inoltre preferiti in quanto i lavoratori anziani sono spesso più critici nei confronti del nuovo, poiché valutano ciò che imparano alla luce del proprio passato e, soprattutto, delle esperienze maturate, rivendicando un ruolo più attivo. In base a questa logica, le forze del mercato ritengono che sia più conveniente acquistare qualifiche fresche anziché pagare per il riaddestramento, aggravando così lo stato esistenziale dei lavoratori cinquantenni, che vedono profilarsi – per dirla con Sennet - «lo spettro dell’inutilità sociale». Scrive Beck a tal proposito:
oggigiorno tutto sembra congiurare contro i progetti per la vita, i legami duraturi, le alleanze eterne, le identità immutabili. Non posso più contare, a lungo termine, sul posto di lavoro, sulla professione, e nemmeno sulle mie capacità: posso scommettere che il mio posto di lavoro verrà assorbito dalla razionalizzazione, la mia professione si trasformerà fino a risultare irriconoscibile, le mie competenze non saranno più richieste. In futuro, non ci si potrà più basare sulla vita di coppia o sulla famiglia (Beck 2000:15).
L’avanzata tecnologica dei paesi occidentali si è infiltrata in ogni angolo della società, indifferente a qualsiasi considerazione umana. Là dove entra crea efficienza, velocità ed esattezza, ma svuota le istituzioni di valori e di senso. È muta sul significato delle cose e, di conseguenza, i sentimenti, i bisogni e i desideri degli uomini costituiscono una sfera lontana dai suoi domini. Così, tutto ciò che prima aveva una base metafisica (la morale, i valori, il sacro, la patria e la famiglia) si è ritrovato senza fondamenti.
6. I riflessi negativi dell’instabilità del lavoro sulla famiglia
Sino a pochi decenni fa, l’entrata nella vita adulta si identificava nella realizzazione attraverso il lavoro, nella coppia, nella costituzione di una famiglia e nell’arrivo dei figli. La globalizzazione e le conseguenti trasformazioni economiche e sociali hanno rimesso in discussione queste premesse, poiché hanno alterato le modalità e i processi attraverso i quali si sviluppa la realizzazione di sé, l’identificazione professionale, la vita a due e la conseguente esperienza della genitorialità.

Per molto tempo gli studiosi, occupati ad analizzare le nuove tematiche economiche e del lavoro, prodotte dalla globalizzazione, hanno mostrato scarsa attenzione alle conseguenze che le trasformazioni delle modalità di regolamentazione del lavoro e lo sviluppo dell’instabilità occupazionale producono rispetto alla formazione e alla sopravvivenza della famiglia; così come sono rimaste inesplorate le strategie e gli stili di vita, le scelte procreative e i modelli educativi, i rapporti di genere e la definizione dei ruoli all’interno della coppia. Ma, soprattutto, le implicazioni che le nuove forme di flessibilità del lavoro possono avere sulla personalità del singolo individuo. È proprio la flessibilità o, se vogliamo, la precarietà del lavoro che impedisce a molti giovani di stilare un programma a lunga durata per il futuro, quando l’ordine temporale di riferimento è limitato a brevissimi periodi e le risorse economiche sono esigue.

Di recente, nel corso della 45ma “Settimana sociale dei cattolici”, svoltasi a Pistoia il 18 ottobre 2007, Benedetto XVI ha preso una netta posizione contro la precarietà del lavoro, definendola una emergenza etica e sociale, in grado di minare la stabilità della società e di compromettere seriamente il suo futuro, come lo sono la difesa della vita e della famiglia, fondata sul matrimonio eterosessuale, aggiungendo che questi sono principi non negoziabili, sui quali i cattolici hanno il diritto-dovere di impegnarsi. La condanna del lavoro precario da parte del Pontefice si inscrive, indubbiamente, nella più alta tradizione del solidarismo cattolico che della persona umana e della sua dignità ha fatto una delle bandiere del proprio impegno sociale e, in realtà, al di là delle appartenenze politiche e ideologiche, non sono pochi coloro i quali sostengono oggi che il nostro paese avrebbe bisogno di elaborare una nuova legge complessiva sul lavoro ( sono passati dieci anni da quando la legge Treu autorizzò anche in Italia l’utilizzo dei lavoratori a tempo e appena cinque dall’entrata in vigore della legge Biagi con l’introduzione del “precariato per legge”), che sappia recuperare il principio per cui il lavoro non è una merce, ma piuttosto un elemento integrale e integrante del soggetto che lo presta, dell’identità della persona, dell’immagine di sé, della posizione nella comunità e della sua vita familiare presente e futura.

Contrariamente a quanti sostengono che solamente in Italia siamo rimasti abbarbicati al mito del posto fisso e che, invece, la mobilità può essere un’occasione per crescere, non possiamo non rilevare che proprio la precarietà nel mondo del lavoro costituisce un grosso ostacolo all’idea di mettere su famiglia e, quel che è peggio, di mettere al mondo dei figli.

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