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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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Abstract
Note su un manoscritto inedito di Raphaël Zakhur (1759-1831). Contributo alla storia della fortuna del Principe di Machiavelli nel mondo arabo
[Notes on an unpublished manuscript of Raphaël Zakhur (1759-1831). on the history of the prince fortune in the arabic world]
Keywords: Machiavelli, The Prince, translation Arabic, 19th century
This article proposes some reflections on the first translation of Machiavelli’s The Prince into Arabic and deals with the socio-political context in which it appeared. The translation was carried out during the first half of the Nineteenth Century despite strategies of closure and oppression of thought exercised by the Ottoman Empire. It was ordered by Mohammad Ali, viceroy of Egypt from 1805 to 1849 and it was translated by Don Raphael Antoun Zakhur, a Syrian father of a Melkiti-Greek sect. The manuscript has never been published.

ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100303

Biagio Spoto


CLAUSEWITZ E LA GUERRA CONTEMPORANEA

A partire dagli anni Novanta, in coincidenza con il crollo del muro di Berlino e lo sgretolamento dell’impero sovietico, si è sviluppato un ampio dibattito sul futuro della guerra. Chiusa con la fine del comunismo l’epoca delle “grandi narrazioni”, la discussione aveva come sfondo la conclusione delle grandi contrapposizioni ideologiche e la vittoria finale del modello liberal-democratico. La prospettiva di un conflitto militare atomico che aveva minacciato di distruggere l’umanità durante la guerra fredda, poteva considerarsi superata e sostituita dall’emergenza di forme periferiche di conflittualità legate al crollo di uno dei due pilastri del sistema politico internazionale. Le previsioni sull’improbabilità di conflitti di ampie dimensioni sono state rispettate, ma per il mondo occidentale il prezzo da pagare è stato un susseguirsi di guerre lungo l’ultimo ventennio. Dall’ipotesi temuta ma per fortuna rimasta teorica di un ultimo e definitivo conflitto, si è passati alla pratica quasi permanente delle guerre reali a bassa intensità. L’idea novecentesca della guerra totale in cui gli stati combattono per la sopravvivenza, ha creato un corto circuito tra l’immagine tradizionale dei conflitti come scontri assoluti tra soggettività politiche simmetriche e quelli contemporanei limitati nell’intensità e asimmetrici nella forma.

Da questa dissonanza traggono origine i numerosi tentativi di analizzare la realtà dei fenomeni bellici contemporanei. Gran parte del dibattito sull’evoluzione della guerra assume come punto di partenza l’interpretazione del pensiero di Karl von Clausewitz. A torto o a ragione, Clausewitz è ritenuto il pensatore che meglio ha descritto un modello di guerra legato all’evoluzione più matura degli stati nazionali e alle categorie politiche della modernità. L’attualità di quello che è considerato il principale teorico della guerra, viene dunque rifiutata o confermata a seconda che si accolga o meno la tesi di un cambiamento permanente della natura della guerra.

I critici di Clausewitz sostengono che a causa dell’intensificarsi dei processi di globalizzazione, il suo pensiero, utile nella descrizione dei conflitti moderni, sia stato superato dall’emergere del paradigma interpretativo delle “nuove guerre”. In contrasto con la tesi critica, ritengo che il pensiero di Clausewitz resti ancora importante per comprendere la natura della guerra e sia un punto di partenza essenziale per studiare i cambiamenti avvenuti nelle forme esteriori dei fenomeni bellici.

Inizierò dunque illustrando le tesi dei critici di Clausewitz, per poi avviare una riflessione sulla persistente attualità del pensatore prussiano e in conclusione tracciare alcune delle caratteristiche principali delle attuali forme di violenza organizzata.
1. “Nuove guerre” vs. “vecchie guerre”
Le critiche al pensiero del generale prussiano ruotano attorno a due questioni: la sua idea di politica e la natura trinitaria del suo concetto di guerra.

La prima critica si ritrova negli scritti dello studioso militare John Keegan, nei quali si sostiene che l’idea clausewitziana della guerra come estensione della politica con altri mezzi è incompleta. Keegan ritiene che per molte società la guerra assolve una funzione culturale più che politica. Nella sua interpretazione, la cultura è da intendersi come l’insieme delle «credenze comuni, dei valori condivisi, dei riti, dei tabù, delle usanze, delle tradizioni che caratterizzano ogni società» (Keegan 1993:24). Di conseguenza, molte società farebbero la guerra perché parte integrante del loro retaggio culturale e non - come pretenderebbe Clausewitz – per finalità politiche. La guerra per queste società sarebbe dunque un’attività naturale praticata con la stessa costanza del cacciare, del procreare, o del coltivare la terra.

Più articolata è la critica di Martin van Creveld, che ritiene il pensiero di Clausewitz valido solamente come descrizione della realtà moderna della guerra intesa come estensione razionale della volontà statale. Per van Creveld, invece, gli odierni conflitti non sarebbero strutturati secondo la trinità – governo, esercito, popolo – presente nella teoria del generale prussiano (van Creveld 1991:49)98. Ciò perché lo stato, che storicamente ha avuto il ruolo di difendere i propri cittadini dalle aggressioni interne ed esterne, avrebbe perso la capacità di proteggerli dai conflitti a bassa intensità tipici dell’epoca contemporanea. Le nuove guerre si distinguerebbero per il fatto di non essere intraprese dagli stati sulla base dello schema trinitario tradizionale in cui è centrale la presenza di eserciti regolari. Nei nuovi conflitti, almeno un lato o a volte entrambi sarebbero rappresentati da soggetti politici non-statali di varia entità siano essi signori della guerra, banditi, terroristi, guerriglieri, patrioti, o martiri di Allah (van Creveld 2005:229-232). Organizzazioni non trinitarie, che non hanno un governo, fanno riferimento ad un concetto di popolo estraneo alla tradizione politica occidentale e non possiedono un esercito regolare. Inoltre, molti dei conflitti non-trinitari contemporanei sarebbero avviati per motivazioni di carattere etnico, religioso, identitario, lontane dagli interessi politici statali di cui parlava Clausewitz.

Un’interpretazione simile è seguita da Mary Kaldor, che definisce “nuove guerre” quelle intraprese in un contesto di disintegrazione dello stato, combattute da attori politici non-statali e nelle quali la quota maggiore di violenza non si sviluppa all’interno di battaglie tra eserciti regolari, ma è diretta contro la popolazione civile (Kaldor 1999:11). Inoltre, le “nuove guerre” sarebbero motivate dall’uso dell’identità come strumento di mobilitazione politica piuttosto che dalle vecchie ideologie nazionalistiche degli stati moderni.

Secondo Kaldor, la guerra analizzata dal generale prussiano sarebbe invece «l’attività di uno stato moderno centralizzato, razionalizzato, territorializzato, gerarchicamente ordinato» (Kaldor 1999:25), fondato sulle seguenti categorie politiche: a) distinzione tra pubblico e privato, tra sfera di attività statale e non statale; b) distinzione tra interno ed esterno, tra ciò che accade all’interno e al di fuori di un territorio statale chiaramente definito; c) la distinzione, associata all’origine del capitalismo tra economia e politica, vale a dire tra attività economica privata e quella statale; d) distinzione tra civile e militare, tra relazioni legali e non violente all’interno e combattimento all’esterno; e) distinzione tra coloro che portano legittimamente le armi e i non combattenti o i criminali; f) distinzione tra guerra e pace (Ivi:31). In sostanza, Clausewitz avrebbe descritto un concetto di guerra modellato sull’evoluzione politica e istituzionale dello stato moderno che oggi sarebbe in crisi a causa dell’impatto dei processi di globalizzazione.

Le riflessioni dei critici di Clausewitz hanno sicuramente il merito di individuare alcune caratteristiche fondamentali delle forme di conflittualità contemporanee. Come cercherò di argomentare, tuttavia, credo che giudicare vecchie e obsolete le teorie del generale prussiano significhi non considerarne la persistente attualità e il prezioso contributo che offrono per comprendere natura e forme della guerra.

2. Sulla persistente attualità di Clausewitz
Cosa resta oggi del pensiero di Clausewitz? Dando ascolto ai suoi critici, la sua analisi sarebbe servita a fotografare la realtà dei conflitti in età moderna ma non a spiegare i cambiamenti provocati dall’intensificarsi dei processi di globalizzazione. Al contrario, come sostengono i difensori dell’attualità del suo pensiero, Clausewitz rimarrebbe un punto di riferimento essenziale per capire le guerre del futuro.

Ritengo che non si possa rispondere alla questione, se non si esamina nei dettagli il pensiero del generale prussiano. Della Guerra non può essere considerata né una raccolta di precetti militari, né una riflessione puramente filosofica. I concetti fondamentali contenuti in questa opera possiedono una duplicità di significati conseguente al fatto che la dimensione teorica si intreccia con quella pratica. Il metodo di analisi di Clausewitz si ispira, infatti, al sistema logico kantiano che il generale prussiano apprese da Johann Gottfried Christian Kiesewetter, docente dell’Allgemeine Kriegsschule, l’istituto per giovani ufficiali in cui egli studiò (Kiesewetter 1824-1825). In Della guerra si seguono due criteri paralleli di analisi. Il primo esamina i concetti solo a livello logico, per determinare se essi contengono contraddizioni e incoerenze che possono invalidarli logicamente. Sulla base di un secondo criterio di indagine, i concetti vengono invece analizzati in una prospettiva concreta e materiale. A riguardo, l’ambito d’osservazione privilegiato da Clausewitz è quello della storia militare e della sua esperienza diretta sui campi di battaglia.

Se non si tenesse in considerazione il metodo utilizzato da Clausewitz, gran parte della sua teoria apparirebbe contraddittoria. Ad esempio, quando il generale prussiano introduce il proprio concetto di guerra, sostiene che l’obiettivo è disarmare il nemico per costringerlo a sottostare alla nostra volontà (Clausewitz 2000[1832]:17). Da un punto di vista strettamente logico, ogni conflitto tenderebbe dunque all’uso estremo della forza da parte di tutti i contendenti per non cedere al proprio nemico. Se invece si esamina la guerra da un punto di vista materiale e concreto, Clausewitz rileva come la tendenza all’escalation è limitata dal ruolo della politica che decide gli obiettivi e gli sforzi sostenibili per conseguirli (ivi:26-27).99

Clausewitz adopera almeno tre definizioni del concetto di guerra. Nella prima, egli afferma che la guerra è «un duello più esteso, un atto di violenza per costringere l’avversario ad accettare la nostra volontà» (ivi:20). Dato che ciascun contendente condivide l’intento di abbattere il nemico, la guerra è sostanzialmente un’interazione. Essa non è «l’azione di una forza viva su una massa morta bensì sempre l’urto di due forze vive» (ivi:21). L’interattività rende la guerra un fenomeno in cui si fronteggiano volontà contrapposte che si influenzano reciprocamente attraverso un complesso meccanismo di azioni e retroazioni. L’andamento di qualunque guerra è determinato non dalla semplice sequenza di azioni di ciascun opponente, ma dal risultato generato dalle loro azioni reciprocamente ostili e dalle reazioni conseguenti. L’interazione costante rende difficile qualsiasi tipo di previsione sull’andamento di un conflitto e ne influenza in maniera decisiva intensità e natura. La guerra non è, dunque, un esperimento di laboratorio, di cui si può calcolare l’esito attraverso equazioni matematiche. Sicuramente, alcuni fattori come la forza militare dei contendenti o le loro risorse economiche potrebbero essere quantificati, ma altri come la determinazione delle parti in conflitto, la capacità di sopportare rischi, la strategia utilizzata, restano impossibili da misurare. Solo il contesto storico con le sue contingenze costituisce il quadro di riferimento entro il quale le parti in conflitto si confrontano. Lo stesso scopo politico, sebbene costituisca la misura dell’obiettivo da raggiungere e dei mezzi richiesti per farlo, non consente di prevedere l’andamento di una guerra. È, infatti, vero che tanto più grande lo scopo politico, tanto maggiore sarà lo sforzo delle parti in conflitto e viceversa. Tuttavia, due obiettivi politici uguali possono essere interpretati diversamente sulla base di tradizioni culturali differenti o per mutamento delle abitudini di uno stesso popolo (ivi:27-28). Dunque, la guerra tutto è, tranne che un fenomeno lineare e prevedibile. La sua natura è determinata piuttosto da un insieme complesso di interazioni che le conferiscono natura non lineare, imprevedibile, contingente e relazionale.100

Le considerazioni sulla natura politica della guerra richiamano la seconda e più famosa definizione introdotta da Clausewitz: «La guerra non è semplicemente un atto politico, ma un vero strumento politico, una prosecuzione dell’interscambio politico, una prosecuzione dello stesso con altri mezzi» (Clausewitz 2000 [1832]:27-28). Come si è visto, il concetto di politica impiegato da Clausewitz è stato criticato perché ritenuto espressione degli interessi razionali dello stato e dunque non in grado di rappresentare la complessità delle motivazioni, spesso di natura culturale e non politica, legate al fenomeno della guerra. In realtà, questa critica può essere respinta se si approfondisce il senso della nozione di politica in Della Guerra (Bassford 1994:319-336). Clausewitz non fornisce nessuna definizione completa del concetto di politica. Per ricostruirne il senso si deve agire per via indiretta. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi e non la sua sostituzione, si deve dedurre che depurando la politica dall’elemento della violenza fisica, gli altri attributi che Clausewitz assegna alla guerra, sono caratteristici del concetto di politica. La natura della guerra e la sua relazione con la politica sono meglio chiarite dalla terza definizione avanzata da Clausewitz:
La guerra è dunque non solo un vero camaleonte perché in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura, ma nel suo manifestarsi complessivo e nelle sue tendenze dominanti si mostra come una strana trinità, composta dalla violenza originaria del suo elemento, l’odio e l’ostilità, da considerarsi come un cieco impulso naturale; dal gioco delle probabilità e del caso, che la fanno una libera attività dello spirito, e dalla sua natura subordinata di strumento politico, con cui essa si affida alla semplice ragione. Il primo di questi tre elementi si riferisce di più al popolo, il secondo più al capo militare e al suo esercito, il terzo più al governo (Clausewitz 2000 [1832]:41).101

Credo che partendo da questa definizione si possano considerare due significati di Politik. Nel suo significato ristretto e “soggettivo” di uno degli elementi della “trinità”, essa può essere intesa come attività razionale compiuta da un soggetto statale per conseguire i propri obiettivi. In un senso più ampio e “oggettivo”, la politica è invece la macrocategoria da cui la sub-categoria guerra trae le proprie caratteristiche. Essa è un processo di distribuzione del potere all’interno di una società, comprensivo di elementi irrazionali (l’elemento dell’ostilità pur senza violenza), non pienamente razionali (il ruolo della casualità) e razionali (nel senso weberiano di agire per il raggiungimento di uno scopo). Come in guerra, pure in politica il confronto avviene tra volontà reciprocamente ostili in lotta per il raggiungimento del potere politico. Il contesto in cui avviene l’interazione è anch’esso caratterizzato dall’imprevedibilità degli eventi e ha per protagonisti soggetti che perseguono obiettivi razionali differenti. L’unica differenza di rilievo tra la sfera della politica e quella della guerra, è che nella prima lo scontro tra opposte volontà avviene senza ricorso a mezzi di coercizione fisica. Mi pare, dunque, parzialmente condivisibile la nota affermazione con la quale Michel Foucault ribalta la definizione clausewitziana sostenendo che: «la politica è la guerra continuata con altri mezzi»(Foucault 1998:47). L’obiettivo di Foucault è, infatti, dimostrare che contrariamente a quanto si pensa la legge e la politica non sono il frutto della pacificazione, dato che dietro ad esse rimane sempre l’elemento del conflitto che permea di sé tutta la società.102 Tuttavia ritengo che rispetto all’interpretazione di Foucault, la definizione trinitaria clausewitziana sia maggiormente in grado di cogliere il livello di complessità del concetto di politica, perché in grado di considerare non solo l’elemento dell’ostilità e del conflitto, ma anche quelli della razionalità e del caso.

Seguendo questa interpretazione dei concetti di politica e di guerra, mi pare si possano respingere pure i rilievi critici mossi da Keegan. Lungi dall’essere mera espressione razionale della volontà di uno stato, il concetto di politica tratteggiato da Clausewitz è il complesso risultato dell’interazione tra diversi fattori.

Con ragionamento analogo, si può rigettare l’argomento di van Creveld che riteneva superata la forma della trinità – popolo, esercito, stato – con cui Clausewitz descriveva la guerra. In realtà, i tre elementi individuati dal generale prussiano sono la violenza irrazionale, il gioco delle probabilità e del caso, e la razionalità, ciascuno dei quali si trova principalmente e non in via esclusiva rispettivamente nel popolo, nell’esercito, e nello stato. Del resto, è evidente che esercito e governo fanno parte del popolo e ne condividono in maniera variabile i sentimenti, come è innegabile che il popolo ricopre un ruolo importante nel processo di decisione razionale. La guerra è dunque il prodotto dell’articolazione di tre forze (emozione, caso, razionalità) e non uno schema rigido caratterizzato dalla presenza di tre attori (popolo, esercito, governo), come sosteneva van Creveld (Bassford, Villacres 1995:9-19). La trinità clausewitziana è, infatti, chiaramente ispirata a quella cristiana, nel senso che ogni elemento è distinto e ha una propria autonomia ma allo stesso tempo fa parte di un’entità indivisibile. Combinandosi assieme, questi tre elementi determinano natura e andamento della guerra.



La vitalità del pensiero di Clausewitz consiste, dunque, nell’aver mostrato la natura sociale del fenomeno guerra e la sua capacità di evolversi in conseguenza dei cambiamenti storici:
La guerra non appartiene all’ambito delle arti o delle scienze ma all’ambito della vita sociale. È un conflitto di grandi interessi che si risolve nel sangue  e soltanto in questo si differenzia dagli altri. […] La guerra non è un’attività della volontà che si esprime contro una materia morta, come lo è per le arti meccaniche, o contro un oggetto vivente ma passivo e arrendevole, come lo è per lo spirito e il sentimento umano nelle belle arti, ma si manifesta contro un soggetto vivente che reagisce (Clausewitz 2000 [1832]:95).
Per Clausewitz la guerra non è né arte né scienza, ma una modalità della politica che oltre per la natura violenta si caratterizza per le caratteristiche dell’interattività e dell’imprevedibilità. La prima riguarda la natura relazionale di ogni conflitto bellico, che come ho prima evidenziato è il risultato della combinazione interattiva delle azioni e reazioni di ogni opponente, e della complessa dinamica tra i fattori della trinità clausewitziana. La seconda caratteristica è l’imprevedibilità:
La guerra è il luogo dell’incertezza: tre quarti delle cose su cui è costruito l’agire in guerra è immerso nella nebbia di un’incertezza più o meno pesante. […] La guerra è il luogo del caso. In nessun’altra attività umana si deve dare tanto spazio a questo fattore estraneo, perché nessun’altra attività è in contatto costante con il caso in tutti i suoi aspetti (ivi:56).
L’imprevedibilità della guerra è legata ai concetti di “frizione” (Friktion) e “caso” (Zufall). Il concetto di frizione è uno degli elementi chiave del pensiero clausewitziano. Il generale prussiano lo definisce come il fenomeno «che corrisponde in termini abbastanza generali a ciò che distingue la guerra reale da quella che sta sulla carta» (ivi:72). La frizione è un concetto che racchiude in sé tutti gli eventi imprevedibili che possono capitare durante una guerra:
La macchina militare, l’esercito e tutto ciò che la compone è in fondo molto semplice e quindi sembra facile da manovrare. Ma si tenga presente che nessuna delle sue parti è fatta di un sol pezzo bensì tutto è composto da individui. […] Il più insignificante dei quali è in grado di provocare un blocco o comunque una disfunzione. […] Questa tremenda frizione che non si lascia concentrare su pochi punti come accade nella meccanica, entra in contatto dovunque con il caso e produce fenomeni che non si possono calcolare, appunto perché sono per lo più casuali (ivi:71-72).
L’altro fattore di imprevedibilità è dovuto al “caso”, che secondo Clausewitz rende la guerra simile al gioco delle carte (ivi:35). Il giocatore che siede al tavolo interagisce con gli avversari cercando di prevederne le iniziative e calibrando le proprie reazioni in base alle loro mosse. Rispetto ad altri giochi di pura abilità come gli scacchi, l’esito finale della partita di carte dipende dalle circostanze fortuite e dalla capacità del giocatore di saper fronteggiare gli eventi sfavorevoli, dunque da un misto tra fortuna e doti dei contendenti. La guerra per Clausewitz ha le stesse caratteristiche, è una fusione tra casualità ed abilità di chi la conduce, in essa ci si può affidare al calcolo delle probabilità e a metodi tattici consolidati, ma soltanto se si ha consapevolezza che questi possono essere strumenti utili e non soluzioni definitive. La stessa superiorità di armamenti e risorse economiche non basta a garantire l’esito di una guerra, perché anche questi vantaggi sono soggetti al complesso gioco di interazioni, frizioni ed eventi casuali che caratterizzano ogni fenomeno bellico.

Per concludere questa analisi del pensiero di Clausewitz, si può dire che l’intento del generale prussiano non è costruire una teoria pura ed idealizzata della guerra contenente prescrizioni universali. L’idea della realtà politica e della guerra profilata è sin troppo complessa e caratterizzata dalla non-linearità, per lasciarsi ridurre a certezze assiomatiche.103 Mi sembra piuttosto che la guerra per Clausewitz abbia una duplice natura, caratterizzata da elementi oggettivi e soggettivi. La natura oggettiva contiene elementi come violenza, frizione, casualità, incertezza, che tutti i conflitti hanno in comune indipendentemente da variabili spazio-temporali. Al contrario, la natura soggettiva comprende fattori come gli armamenti e i mezzi tecnologici utilizzati, l’identità dei combattenti, le dottrine strategiche, i teatri di combattimento, che rendono ciascuna guerra unica e diversa dalle altre.

Natura oggettiva e soggettiva della guerra sono strettamente connesse e interagiscono continuamente, provocando costanti evoluzioni del fenomeno bellico. Nuovi sistemi d’armamento, ad esempio, possono far diminuire o aumentare i livelli di violenza ed incertezza, sebbene non eliminarli del tutto. All’interno del pensiero clausewitziano, infatti, non è possibile prevedere anticipatamente, né calcolare durante l’atto bellico il gioco di interazioni di cui è composta la guerra. Se non si possono esprimere leggi universali sulla natura della guerra, quello che si può fare per migliorare la comprensione degli affari militari è espandere il raggio dell’esperienza personale di chi se ne deve occupare. La teoria militare «deve educare lo spirito del futuro capo militare o piuttosto guidarlo nella sua auto-educazione, ma non deve accompagnarlo sul campo di battaglia» (ivi:90). Il ruolo della teoria è, dunque, evidenziare il carattere interattivo, non-lineare, imprevedibile della guerra.

Come per tutti i grandi classici, sbaglia chi ritiene che da Clausewitz si possano ricavare indicazioni per risolvere i conflitti contemporanei. Il suo pensiero deve servire, invece, da punto di partenza per riflettere sulle caratteristiche dei conflitti contemporanei, sfuggendo alla tentazione di renderlo attuale a tutti i costi, o di dimenticarlo. Come sosteneva Bernardo di Chartres, siamo come nani sulle spalle dei giganti, e credo che per capire le forme delle guerre contemporanee si debba salire, per tutte le ragioni che ho provato a dimostrare, sulle spalle di Clausewitz.


3. Sulle spalle del gigante. Clausewitz e i conflitti contemporanei
Il cambiamento principale avvenuto negli ultimi venti anni è la transizione da un sistema esclusivamente stato-centrico, ad un sistema politico globale ibrido, caratterizzato oltre che da stati dall’emergenza di soggettività politiche substatali e transtatali. Secondo Michael Evans (2003:135) la guerra è diventata al contempo, moderna (quando è combattuta in forme convenzionali da stati), postmoderna (quando gli interventi sono compiuti sotto l’egida di grandi organizzazioni internazionali come l’onu), pre-moderna (quando è combattuta da soggettività substatali o transtatali per motivi apparentemente nuovi ma in realtà vecchissimi, come quelli di carattere identitario, religioso o tribale).

Ritengo, dunque, che se Clausewitz resta un punto di riferimento fondamentale per comprendere la natura “oggettiva” dei fenomeni bellici, si debba tentare uno sforzo interpretativo per studiare le forme “soggettive” della guerra contemporanea.

Una natura, diverse forme. Assumendo questo punto di partenza, mi sembra siano tre le questioni aperte sulle attuali forme della guerra.

La prima riguarda il modo in cui si combattono i conflitti contemporanei. La risposta naturale sarebbe che tutte le guerre sono combattute con strumenti militari impiegati allo scopo di vincere la resistenza dell’avversario e di costringerlo a sottomettersi al nostro volere. Ovviamente i mezzi militari varierebbero secondo le epoche e l’evoluzione tecnologica e andrebbero dalle mazze, alle spade, ai fucili, all’atomica, sino ad arrivare ai missili teleguidati e agli aerei invisibili. Ad un’analisi più attenta, tuttavia, bisogna chiedersi se episodi come l’11 settembre, la crisi finanziaria del sud-est asiatico nel 1998, un eventuale attacco informatico che provochi la paralisi dei sistemi di telecomunicazione di un paese, si possano considerare azioni militari in senso tradizionale, oppure se non assistiamo ad una dilatazione del concetto di guerra che comprende dimensioni dell’agire umano sin qui non considerate. Probabilmente, la riflessione migliore su tali cambiamenti è stata sviluppata dai colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui col concetto di guerra senza limiti:104


I nuovi principi della guerra non sono più quelli di usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri, quanto piuttosto quelli di usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non militari e letali e non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi. […] Tutto ciò rende evidente che la guerra non è più un’attività confinata unicamente alla sfera militare, e che il corso di qualunque guerra potrebbe essere modificato o il suo esito determinato da fattori politici, diplomatici, culturali, tecnologici o altri fattori comunque non militari (Liang, Xiangsui 2001:39-40,166).

Il concetto di guerra senza limiti modifica parzialmente la definizione di Clausewitz della guerra come proseguimento della politica con altri mezzi. La variazione non riguarda la natura politica del fenomeno bellico che rimane immutata, ma i mezzi a disposizione per realizzare il fine. In Clausewitz questi mezzi coincidevano con l’uso della forza armata, nella società del xxi secolo essi sono estesi a tutte le forme di interconnessione prodotte dalla globalizzazione:


Per come noi la vediamo, un crollo del mercato azionario ad opera dell’uomo, un’invasione di virus nei sistemi informatici, come anche uno scandalo o una voce che provochi una fluttuazione dei tassi di cambio del paese nemico o ne esponga i leader su internet, sono tutti scenari che possono rientrare nel novero delle armi di nuova concezione. […] Il nuovo concetto di armi provocherà nella gente comune, come anche nei militari, grande stupore nel constatare che le cose ordinarie, quelle a loro vicine, possono anche diventare armi con le quali ingaggiare una guerra (ivi:59).
Laddove la guerra moderna restringeva il proprio ambito all’uso della forza armata e all’attività degli eserciti, quella globale è estesa a tutti i settori della società. Se è vero che la guerra resta «un atto di violenza per costringere l’avversario ad accettare la nostra volontà»(Clausewitz 2000[1832]:20), a cambiare è la matrice di questa violenza, non più esclusivamente fisica. Tutta la società globale diventa un immenso campo di battaglia dove nemici invisibili possono sfruttare le normali attività pacifiche per scopi offensivi. La guerra globale senza limiti potrà essere guerra commerciale combattuta a colpi di sanzioni economiche e imposizioni di barriere tariffarie, guerra finanziaria sotto forma di speculazioni e attacchi alla stabilità economica di un paese, guerra informatica condotta attaccando i sistemi di gestione telematica di uno stato e paralizzandone l’attività, guerra terroristica con attentati ripetuti e costanti, guerra ecologica intrapresa minando deliberatamente l’equilibrio ambientale di un’area. Non a caso per Liang e Xiangsui, i primi a capire la logica e le possibilità delle nuove forme di violenza organizzata sono due personaggi come Osama Bin Laden e George Soros, un terrorista e uno speculatore finanziario (Liang, Xiangsui 2001:82:83). L’obiettivo degli attori della guerra senza limite è infilarsi nel corpaccione della società globale per creare disordine e sfruttarne le vulnerabilità. In questo senso la loro logica è di tipo parassitario, essi sono simili a virus che cercano di cogliere gli elementi di debolezza dell’organismo ospite per riprodursi e moltiplicarsi. Il pirata informatico lo fa nascondendosi nel mare aperto della rete e infrangendone regole e codici, lo speculatore inserendosi nelle pieghe della libera economia e della finanza, il terrorista globale utilizzando per i propri scopi mezzi e oggetti di uso quotidiano.105

Chiaramente sarebbe insensato considerare guerre tutte le azioni di pirateria informatica, tutte le speculazioni finanziarie e persino ogni attentato di stampo terroristico. Anche la guerra senza limiti, per essere considerata guerra, deve clausewitzianamente essere uno strumento per il raggiungimento di obiettivi politici. Il ‘politico’ che Carl Schmitt individuava nel criterio di distinzione tra «amico (Freund) e nemico (Feind)» definisce quindi la natura della guerra anche nell’epoca della globalizzazione.106 Senza l’elemento dell’ostilità nei confronti di un nemico che concretamente si traduce nel conflitto tra due diverse volontà politiche non può concettualmente esistere nessuna guerra. Il concetto di guerra senza limiti non si discosta da questo schema e la novità che esso introduce consiste nel fatto che la contrapposizione militare è divenuta soltanto una delle forme di conflitto possibile e che è quindi possibile parlare di «operazioni di guerra non militari».107 Gli elementi dell’ostilità e della volontà di conseguire obiettivi politici a discapito di un nemico, non i mezzi utilizzati per raggiungerli, sono dunque gli elementi che distinguono una guerra da ciò che guerra non è.

L’analisi di Liang e Xiangsui descrive un tipo di conflitto nel quale una potenza globale (non importa se statale o no), utilizza tutti i mezzi a propria disposizione per sfidare l’egemonia di un’altra potenza globale. Restano escluse le forme di resistenza che soggetti politici più deboli e spesso irregolari sviluppano per opporsi agli attacchi di potenze militari convenzionali più forti, all’interno di quelle che sono definite guerre asimmetriche. Analizzando le guerre del Vietnam, del Nicaragua, della prima Intifada palestinese, dell’Afghanistan e dell’Iraq, Thomas Hammes ha definito tali forme di resistenza asimmetrica, guerre di quarta generazione.108

Le guerre di quarta generazione che per semplicità chiamerò conflitti irregolari, si fondano sull’assunto che una volontà politica superiore quando è adeguatamente impiegata può sconfiggere un nemico più forte. Secondo Hammes, la parte più debole per vincere deve essere capace di utilizzare tutti i canali disponibili – politici, economici, sociali e militari – per convincere l’avversario che i suoi obiettivi strategici sono irraggiungibili, o troppo costosi rispetto ai presunti benefici (Hammes 2005:191). Le forze irregolari non provano a vincere sconfiggendo la forza militare nemica, per loro vale la nota affermazione di Kissinger secondo cui i guerriglieri vincono quando non perdono, mentre le forze armate convenzionali perdono quando non vincono (Kissinger 1969:214). Gli irregolari provano ad attaccare la volontà politica del nemico con attacchi imprevedibili e costanti, mobilitano la popolazione per dimostrare che hanno il controllo del territorio, fomentano il caos per rendere visibile al proprio popolo e all’opinione pubblica internazionale che solo loro possono ristabilire l’ordine e la pace. Quello che rende un conflitto irregolare non è né la partecipazione di soggetti politici non statali né l’impiego di tecniche di combattimento asimmetriche. L’elemento caratterizzante è che a differenza dei conflitti tradizionali nei quali la vittoria si ottiene col raggiungimento di obiettivi politici tangibili, nei conflitti irregolari lo scopo è ottenere il supporto della popolazione attraverso mezzi politici, sociali, economici, psicologici. La guerra da vincere è quella per il cuore e la mente della popolazione, e la vittoria della parte più debole arriva non con la resa del nemico, ma quando l’avversario nonostante la sua preponderante forza militare si rende conto di essere estraneo alla causa per cui combatte e riconosce che non vale la pena rischiare altri morti per ragioni considerate in modo ostile dalla popolazione che lo circonda.109 Come scrive Luigi Alfieri (2008:128):


Il contendente più debole, ormai avviato a sconfitta certa, ha un solo modo di evitare la sconfitta: renderla troppo costosa per l’avversario, accettando da parte sua di pagare qualsiasi prezzo. Si possono subire perdite spaventose, affrontare le più terribili devastazioni, sopportare le sofferenze più atroci, purché questo possa condurre l’avversario oltre il punto a cui può permettersi di arrivare.
Un altro elemento che contraddistingue i conflitti irregolari è la relazione mimetica che si instaura tra le parti in guerra. La mimesi col nemico è sempre stata tra le caratteristiche di tutte le forme di violenza organizzata. Tra soggetti simmetrici come gli stati moderni, essa si manifestava nell’utilizzo di tecniche militari simili: baionette contro baionette, carri armati contro carri armati, bombardieri contro bombardieri. Oggi che i conflitti avvengono sempre più tra soggetti asimmetrici per potenza, dimensione e organizzazione, la mimesi è invece costruita sull’opposizione. Tanto la guerra occidentale vuole evitare il rischio della morte, ed essere veloce, chirurgica e tecnologica, quanto le parti più deboli rendono la disponibilità alla morte e al suicidio lo strumento di attacco più efficace (Balibar 2008:384).

La seconda questione connessa ai conflitti contemporanei riguarda l’identità dei soggetti che li combattono. Le guerre moderne come si è detto più volte, erano combattute dagli stati e dai loro eserciti regolari. Il soldato moderno era inquadrato all’interno di una struttura gerarchica dipendente economicamente dallo stato, con procedure formali per la programmazione delle attività e per il processo decisionale. Peraltro, sebbene le guerre moderne fossero spesso più sanguinose di quelle odierne e altrettanto incerte negli esiti, il soldato moderno sapeva a differenza di quello contemporaneo che avrebbe combattuto contro nemici a lui simmetrici all’interno di un campo di battaglia ben definito che scandiva la differenza tra spazio di guerra e quello di pace.

I combattenti delle guerre contemporanee, invece, possono essere qualunque associazione, gruppo o cartello anche composto da pochi individui, che persegue i propri obiettivi con tutti i mezzi possibili siano essi economici, mediatici, culturali, finanziari, terroristici. Come fanno notare Liang e Xiangsui, al militare in uniforme si affiancano lo speculatore finanziario, l’hacker, il terrorista e tutte le figure irregolari che condividono l’utilizzo di strumenti non solo militari per azioni di guerra.

Passando in rassegna le principali guerre che hanno coinvolto l’Occidente negli ultimi quindici anni, da quelle jugoslave, all’Afghanistan, all’Iraq, si può rilevare come siano state combattute contro soggettività transtatali (come il terrorismo globale) e substatali (insorti, mercenari, guerriglieri, signori della guerra). In sostanza, manca nei nuovi conflitti un nemico manifesto con cui specchiarsi per affermare la propria identità di guerrieri. Al posto dei nemici tradizionali vi sono ombre asimmetriche con tecniche di combattimento, cultura e mentalità completamente differenti da quelle del tradizionale soldato occidentale. Senza un avversario riconoscibile con cui confrontarsi, il senso d’identità del militare occidentale entra in crisi, anche perché a causa delle motivazioni dei nuovi conflitti, egli è sempre più chiamato a svolgere ruoli civili senza adeguata preparazione (Mini 2003:118-135).

Infine, la terza questione ruota attorno alle motivazioni degli attuali conflitti. La guerra resta ancora uno strumento utilizzato dalla politica per raggiungere i propri obiettivi, tuttavia la natura di tali scopi è diventata molto più complessa rispetto al passato. In età moderna si combatteva per obiettivi tangibili, come il desiderio di espansione territoriale e la difesa dei confini o a causa di successioni dinastiche non lineari. Oggi, invece, le guerre occidentali sono combattute per prevenire o contenere la diffusione di “rischi globali” come il terrorismo, la diffusione di armi di distruzione di massa, le catastrofi umanitarie che causano forti flussi migratori, la possibilità che risorse energetiche fondamentali entrino sotto il controllo di stati “canaglia”.110 In sostanza, le società occidentali sono vulnerabili non perché corrono il pericolo di essere invase militarmente, ma perché la globalizzazione e la crescente interconnessione rendono i loro sistemi politici, economici e finanziari, più esposti al rischio dell’instabilità dovuta ad attacchi non esclusivamente militari. «Le guerre del futuro non scaturiscono dalle ambizioni degli stati ma dalle loro debolezze» (Delmas 1995:213).

Se questo è il quadro di riferimento, ritengo che considerare l’uso della forza militare strumento privilegiato per risolvere problemi dalla complessa natura politica sia un grave limite. Come si è detto, la guerra si evolve di pari passo con la politica e con il contesto sociale circostante, e deve essere considerata come un fenomeno multidimensionale che oltre alla sfera militare comprende altre dimensioni rilevanti come l’economica, la politica, la culturale, la sociale. In sostanza, le guerre del passato si combattevano per motivazioni che richiedevano soprattutto una notevole forza militare. Quelle odierne si pongono scopi politici molto più ambiziosi quali la creazione quasi dal nulla di istituzioni statali stabili (state building) o l’esportazione di forme politiche ed economiche (rule of law, democrazia, libero mercato) estranee ai territori occupati. Il conseguimento di questi obiettivi ritenuti fondamentali per prevenire e minimizzare i rischi globali, oltre alle qualità militari esige capacità politiche, economiche, culturali, non richieste dai conflitti del passato. Come spiega Rupert Smith, nelle guerre balcaniche, la finalità degli interventi internazionali:


non fu mai di fermare la guerra e di annientare gli aggressori, ma piuttosto di usare la forza militare per creare una condizione in cui potesse avere luogo l’attività di assistenza umanitaria, e si potesse giungere al risultato politico desiderato, o attraverso una negoziazione, o mediante la creazione di una amministrazione internazionale. Allo stesso modo in Iraq, sia nel 1991 sia nel 2003, la forza militare non fu impiegata per ottenere la resa incondizionata, […] quanto piuttosto le condizioni in cui potesse essere creato con altri mezzi un nuovo regime (Smith 2009:349).
Il paradosso delle guerre contemporanee è nella loro “iper-politicizzazione”, ovvero nella dilatazione degli obiettivi perseguiti, così ampi da diventare irraggiungibili e dunque impolitici. Da qui derivano le grandi difficoltà nel “vincere” i conflitti in cui oggi è impegnato il mondo occidentale. In pratica è come se le maggiori potenze mondiali ed in particolare gli Usa, avessero dimenticato che una forza militare capace di scatenare una violenza distruttiva senza precedenti non basta se non si riconosce il quadro di imprevedibilità che accompagna ogni conflitto e non si ha consapevolezza della complessità degli scopi politici che si intendono conseguire. In questo senso bisognerebbe recuperare la densità del concetto di guerra ripensandolo non come semplice capacità di vincere militarmente il nemico in battaglia, ma nei termini ben più complicati della sua relazione politica col tipo di pace che si intende ottenere una volta cessate le ostilità.
4. Conclusioni
Non esiste ancora un’interpretazione filosofico-politica capace di cogliere adeguatamente la realtà delle guerre contemporanee. Ai tempi dello jus publicum Europaeum, era lo stato a dare ordine alla guerra e alle relazioni internazionali:
Lo stato territoriale sovrano mette la guerra «in forma» non mediante norme, ma grazie al fatto che esso limita la guerra sulla base del principio della sovranità territoriale delle due parti, facendo della guerra una relazione tra ordinamenti specifici, spazialmente concreti e organizzati, ovvero riducendola ad azione militare sul suolo europeo di eserciti statualmente organizzati dalla parte opposta (Schmitt 2006:187).
La nostra epoca è ancora alla ricerca del proprio nomos111, ma la guerra resta sempre «il camaleonte» che cambia al variare delle condizioni politiche e sociali di cui parlava Clausewitz. La sua forma attuale, o per meglio dire la sua “informità”, rispecchia l’evoluzione del sistema politico globale:
Nella guerra globale si riproducono in forma militare le caratteristiche della globalizzazione […]. Un conflitto che oppone la globalità capitalistica e le sue forze armate a una globalità terroristica, a un sistema criminale che, delocalizzato e privo di centro, efficace ma anche astratto e inafferrabile come il sistema economico mondiale, è una caricatura funesta della globalizzazione. La guerra globale è un conflitto senza frontiere in cui tutti sono interni a tutto; in cui l’esterno, e il bordo che lo determina, il confine, è svanito (Galli 2002:55-56, 69).

Contrariamente a quanto sostenuto da gran parte dei teorici delle nuove guerre e della fine dello stato moderno, ritengo che l’attuale ordine internazionale non è divenuto improvvisamente post-westfaliano. Piuttosto, si assiste ad una biforcazione del sistema della sicurezza internazionale tra una componente ancora statocentrica e una formata da soggetti substatali e transtatali. Il risultato è che i conflitti contemporanei assumono sempre più forma “ibrida”, ovvero in essi si sovrappongono modalità post-moderne di warfare come l’utilizzo degli aerei invisibili, dei missili teleguidati e di tutte le tecnologie prodotte dalla cosiddetta rivoluzione degli affari militari (rma),112 mezzi di warfare moderni come i carri armati e le armi automatiche e tecniche di guerra irregolari come la guerriglia e il terrorismo spesso condotte in forme pre-moderne. Nei conflitti ibridi diviene complicato distinguere le operazioni militari da quelle di pace, e i combattenti dai non combattenti. Non esistono regole che disciplinano l’uso della forza, e tutti i mezzi a disposizione dei contendenti, anche quelli civili, diventano strumenti di attacco soprattutto per la parte più debole militarmente. Come si è visto analizzando il concetto di guerra senza limiti, si può affermare che i conflitti contemporanei saranno sempre meno operazioni esclusivamente militari, e si trasformeranno in un intreccio che comprende ambiti rilevanti come il politico, l’economico, il sociale, il religioso. Come scrive Evans:


In Somalia i tamburi tribali dei signori della guerra furono utilizzati per segnalare l’arrivo dei Rangers americani in elicottero. In Afghanistan, i postmoderni missili Cruise americani coesistettero con la premoderna cavalleria afgana, e le moderne forze speciali statunitensi operarono insieme alle milizie tribali dell’Alleanza del Nord, alcune delle quali utilizzavano ancora i fucili Lee Enfield ereditati durante le guerre coloniali sulla frontiera Nord occidentale. In Iraq le tecniche moderne di insurrezione urbane che si richiamavano alla guerra algerina sono state accompagnate da attentatori suicidi che agivano in nome di una forma premoderna di Islam politico (Evans 2005:245,246).
Per citare ancora Evans, il futuro ambiente della sicurezza internazionale sarà caratterizzato da «un mondo di guerre asimmetriche ed etno-politiche, nelle quali i machete si sovrappongono ai computer Microsoft e millenari apocalittici che indossano occhiali Rayban e scarpe Reebok sognano di acquisire armi di distruzione di massa» (Evans 2003:137).

L’esempio più importante di questa nuova categoria di conflitti è lo scontro tra Israele e il movimento islamico Hezbollah durante la guerra libanese del 2006. Hezbollah è un soggetto politico particolarmente originale: il suo potere non deriva dall’occupazione delle strutture statali libanesi, ma è innegabile che da queste tragga supporto. La sua organizzazione è gerarchica, ma in grado di articolarsi in cellule autonome capaci di sopravvivere in tempo di crisi. L’ideologia dominante del movimento è religiosa, ma esso deriva il proprio radicamento territoriale dalla capacità di provvedere ai bisogni economici e sociali della popolazione. Queste caratteristiche ibride si ritrovano nelle tecniche di combattimento del movimento (Hoffman 2007:35-42). Specializzato nella guerriglia e nell’insurrezione urbana, Hezbollah durante il conflitto con Israele ha impiegato anche armi altamente tecnologiche come i missili teleguidati col sistema GPS, capaci di raggiungere un raggio di 450 Km. Il successo di Hezbollah nella guerra del Libano, non dipende esclusivamente dalla capacità di combinare tecniche di combattimento irregolari con strumenti hi-tech. La forza militare non sarebbe stata sufficiente per battere l’esercito israeliano che rimane il più potente dell’area mediorientale. La sconfitta di Israele è stata soprattutto politica, non militare. Hezbollah è riuscito a ottenerla spingendo i governanti e soprattutto l’opinione pubblica di Israele alla convinzione che il prezzo del conflitto fosse superiore ai benefici politici ottenibili. Per raggiungere questo scopo, il movimento islamico libanese ha dimostrato di saper combinare diverse dimensioni. Nell’ultimo giorno di guerra, Hezbollah sganciò contro Israele il numero più alto di missili dall’inizio delle ostilità ottenendo l’effetto di dimostrare che il potente esercito israeliano non aveva danneggiato gravemente la sua potenza di fuoco. Oltre a quella militare e politica è stata decisiva la dimensione mediatica. Hezbollah gestisce il network televisivo Al-Manar, una rete di tredici canali satellitari con un pubblico di 10-15 milioni di telespettatori al giorno, utilizzata dal movimento islamico per diffondere i propri messaggi politici, reclutare adepti e raccogliere fondi. L’importanza strategica di Al-Manar si palesò durante la guerra, quando Israele bombardò ripetutamente la stazione televisiva. Gli attacchi distrussero parte delle infrastrutture del network, ma l’emittente riuscì a trasmettere lo stesso i propri filmati e servizi che furono ripresi dai media occidentali ed ebbero un ruolo fondamentale nel condizionare l’opinione pubblica israeliana.

La pluralità e l’asimmetria degli attori dei conflitti contemporanei, la multidimensionalità delle tecniche di combattimento, la varietà delle motivazioni e degli obiettivi ricercati, sono questi, dunque, i tratti soggettivi dei conflitti contemporanei.

Si possono definire le guerre contemporanee nuove, ibride o di quarta generazione e giustificarle eticamente riprendendo l’arma-mentario ideologico del bellum iustum. Si può al limite evitare accuratamente di chiamarle per nome e definirle operazioni di polizia internazionale o missioni di pace, ma le caratteristiche oggettive della guerra restano quelle della violenza e dell’ostilità (seppur non soltanto militare), della sua natura politica, dell’interattività e dell’imprevedibilità. Ecco, dunque, che in un quadro storico totalmente mutato la guerra pur nelle sue cangianti caratteristiche soggettive rimane ancora:


Un vero camaleonte perché in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura, ma nel suo manifestarsi complessivo e nelle sue tendenze dominanti si mostra come una strana trinità, composta dalla violenza originaria del suo elemento, l’odio e l’ostilità, da considerarsi come un cieco impulso naturale; dal gioco delle probabilità e del caso, che la fanno una libera attività dello spirito, e dalla sua natura subordinata di strumento politico, con cui essa si affida alla semplice ragione (Clausewitz 2000 [1832]:41).

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Abstract
CLAUSEWITZ E LA GUERRA CONTEMPORANEA
(CLAUSEWITZ AND CONTEMPORARY WAR)
Keywords: war, politics, unrestricted warfare, violence, globalization.
After the end of Cold War and the fall of Berlin Wall, there has been a rise in low intensity and irregular wars. By analysing this phenomenon, some scholars – such as Mary Kaldor and Martin van Creveld – referred to a permanent change in the nature of war. According to them, the paradigm of “new wars” is replacing the paradigm of “old wars” introduced by Karl von Clausewitz in 1832. Against Kaldor’s and van Creveld’s point of view, this paper shows the lasting relevance of Clausewitz’s theory on wars by considering it as the starting point to analyse and comprehend the forms of contemporary conflicts.
Biagio Spoto

Università degli studi di Catania

Facoltà di Scienze Politiche

Dipartimento di Analisi dei processi politici,

sociali e istituzionali

biagiospoto@tiscali.it



ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100304


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