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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100305




Abstract
HACIENDA PÚBLICA Y OPINIÓN PÚBLICA: LA REFORMA FISCAL DE 1785, SUS PUBLICISTAS Y SUS CRÍTICOS
(public finances and opinion: THE 1785 FISCAL REFORM, HIS SUPPORTERS AND OPPONENTS)
Keywords: International circulation of economic ideas; Public Finances; Public Opinion; Spanish Enlightenment; Political reforms

JEL classification codes: B11; B 30; H30


This work aims at emphasizing the significance of economic debates in Spain during the 18th century for the emergence of the so-called “public opinion”. It focuses on the role played by the 1785 reform of Spanish public finances in the rise of such phenomenon. There are strong indications – i.e. how politicians advocated it within the Spanish public sphere or the criticism conjured up by the reform itself – that demonstrate how this reform, which was inspired by some of the leading European economists at the time – Necker, Smith or the Physiocrats -, generated a rich and comprehensive doctrinal debate, which led to the emergence of a defined “public opinion” economic in nature. The early influence of such debate is noticed in the debates on public finances in the first Spanish parliament – Cortes de Cádiz.

Jesús Astigarraga

Universidad de Zaragoza

Departamento de Estructura

e Historia Económica y Economía Pública

astigarr@unizar.es
Studi e Interpretazioni

Studies and Interpretations

Manuela Girgenti


La società dell’incertezza:

la crisi della famiglia italiana

nell’era della globalizzazione

1. Cenni sull’evoluzione della famiglia italiana dal medioevo all’età contemporanea.


La famiglia italiana, limitatamente ai compiti che la società le ha assegnato e ai mezzi per ottenerli, ha subito dal medioevo sino alla seconda metà dell’Ottocento ben poche trasformazioni. Innanzitutto, era caratterizzata da un basso tenore affettivo, poiché il matrimonio non era una libera scelta individuale, ma di stretta competenza del capofamiglia, il quale, nell’ambito della stessa classe sociale o della maestranza o della corporazione, selezionava i futuri partner dei propri figli secondo un criterio di vantaggio economico o di vere e proprie alleanze con altre famiglie dalle quali si sarebbero ricavati grossi benefici, sia in termini di prestigio sociale che economico (cfr. Stone 1983; Tamassia 1971; Barbagli 1984).

L’amore, quindi, non era un requisito fondamentale per contrarre un matrimonio e, di conseguenza, essendo una istituzione che sfuggiva al controllo dell’individuo, non era al servizio della felicità individuale. In poche parole, andava considerato come una sorta di traffico, quanto lo è qualunque merce riempia i magazzini di un mercante. Inoltre, le guerre, le carestie, la peste, l’inesistenza di strutture igieniche e sanitarie e l’alto indice di mortalità infantile non consentivano, d’altra parte, di coltivare eccessivamente gli affetti familiari e, in particolare, nei confronti dei propri figli, le cui probabilità di vita, come abbiamo già detto, erano molto scarse. Prevaleva in Italia il modello di autorità patriarcale e il potere di decisione era, di conseguenza, concentrato nelle mani del maschio capofamiglia e a lui, sia la moglie che i figli, erano completamente subordinati.

È soltanto verso la fine dell’Ottocento che si registra una lenta maturazione nel modo di concepire il matrimonio e, in particolare, una progressiva coincidenza tra l’espressione del sentimento amoroso e l’istituzione matrimoniale. La distanza sociale fra marito e moglie e fra genitori e figli diventò meno netta, contribuendo così a cambiare anche i metodi e i contenuti dell’educazione. Il matrimonio d’amore prende, così, il posto della convenienza e degli interessi di gruppi parentali cui appartengono gli sposi, dissolvendone l’oppressione attraverso la nuova potenza dell’affettività e dei sentimenti individuali. Un fenomeno, quest’ultimo, che fu largamente favorito dalle classi meno agiate sotto la spinta della proletarizzazione dei lavoratori agricoli, dell’urbanizzazione e dello sviluppo industriale. Naturalmente va anche precisato che questo processo di trasformazione avvenne in maniera lenta, ma costante, e che, sotto questo profilo, le situazioni familiari variavano, tenendo conto delle aree geografiche, dei ceti sociali e dei livelli culturali, perché è vero che entrano in crisi i valori e le tradizioni della famiglia patriarcale, ma è pur vero che continuano a sopravvivere la patria potestà, lo sfruttamento del lavoro femminile, l’emarginazione della donna e un certo autoritarismo nei confronti dei figli.

Ma, agli inizi del ‘900, l’ingresso della donna in fabbrica apre nuovi scenari. «Il lavoro retribuito comincia a liberare molte donne dalla necessità di sposarsi per sopravvivere. Il lavoro dà alle donne una nuova identità individuale e sociale che non passa più necessariamente attraverso la condizione di moglie e di madre» (Zanatta 2004:5).

Sarà la prima guerra mondiale a dare un impulso non indifferente alla trasformazione della donna che per necessità, sia nelle campagne che nelle industrie, verrà chiamata a sostituire l’uomo impegnato al fronte. La guerra, infatti, darà alla donna la possibilità di aprirsi verso l’esterno, mettendo in crisi la tradizionale suddivisione dei ruoli. Successivamente il regime fascista cercherà di riportare la donna all’interno della famiglia e di farle ricoprire il suo ruolo tradizionale di moglie e di madre. Veniva, infatti, premiata, quando aveva molti figli, e discriminata qualora volesse impegnarsi in attività professionali. Negli uffici pubblici il personale femminile, per fare un esempio, non poteva superare il 10% del personale complessivo. Ma anche il fascismo, senza volerlo, con la politica della mobilitazione totale e il coinvolgimento delle stesse donne nelle strutture di partito, attraverso un fitto reticolo di organismi di massa, finalizzati alla diffusione di un consenso globale, ottenne il risultato opposto (De Grazia 1993). Ma, in ogni caso, lo scoppio della seconda guerra mondiale vanificò le manovre fasciste, perché le donne, nuovamente chiamate a sostituire gli uomini partiti per il fronte, quotidianamente alle prese con il mercato nero e costrette a prendere decisioni prima impensabili, acquistarono ancora più di prima coscienza del loro ruolo sociale; non solo, ma proprio la guerra finì per allontanare dal regime la maggioranza delle italiane. La brutalità dell’occupazione tedesca dopo l’8 settembre, la crisi provocata dai bombardamenti alleati, lo sfruttamento nelle fabbriche e la fame si aggiungevano ad una disaffezione nei confronti della dittatura che era cominciata da tempo. Anche se le donne risultano impegnate in maggioranza in compiti quotidiani, pur tuttavia cominciano a coltivare sentimenti di simpatia nei confronti dei movimenti partigiani, a cui, alcune di loro, non fanno mancare notizie, informazioni e, a volte, anche aiuti materiali. Molte donne, addirittura, partecipano in prima persona alla resistenza, dando un grosso contributo all’emancipazione femminile. Di certo, la resistenza non favorì una critica della supremazia maschile, né contemplò situazioni nelle quali fosse possibile affrontare le complesse questioni relative all’identità delle donne e ai suoi mutamenti sulla base di nuove definizioni del genere femminile, ma il seme per una rivalutazione sociale della donna era stato gettato.

Fu, infatti, con la liberazione che queste ultime ottennero un primo riconoscimento del loro ruolo sociale da parte del Parlamento con il diritto al voto, sino ad arrivare negli anni ’70 ad una proliferazione di leggi in campo sociale, fra cui la legge sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia e quella sull’aborto, leggi che modificheranno sostanzialmente l’istituto familiare, segnando una rottura con la vecchia concezione della famiglia e sancendo, di fatto, una nuova era nella storia della famiglia. A questa maturazione non fu estraneo il miracolo economico degli anni ’60. L’improvviso benessere, dopo i primi duri anni post-bellici, contribuì a far nascere nuovi bisogni, propagandati, fra l’altro, dai mezzi di comunicazione di massa. Per molti, forse, cedere alle lusinghe del nascente consumismo rappresentò anche un modo di potere affermare una propria autonomia individuale. L’incremento dell’istruzione (negli anni sessanta si diplomarono poco più di ottocentomila ragazze) e la crescita politica portarono le donne ad una presa di coscienza dei propri diritti, dando una grossa spinta verso la parificazione dei ruoli. Non dimentichiamo, inoltre, che questi furono anche gli anni della contestazione, sostenuta dalle nuove generazioni, che cercavano di affermare una propria identità. Trasformazioni, queste ultime, che investono tutti i ruoli familiari e toccano anche aspetti che riguardano il rapporto Stato - famiglia, poiché la famiglia non è un semplice terminale passivo del mutamento sociale, ma uno degli attori sociali che contribuiscono a definire i modi e il senso del mutamento sociale stesso, sia pure con gradi di libertà diversi a seconda delle circostanze. Oggi la famiglia, in riferimento a quanto detto prima, si presenta sotto forme diverse, rispetto alla famiglia tradizionale, tanto che i sociologi parlano di famiglie, anziché di famiglia. Un’espressione che, in poche parole, sta ad indicare una molteplicità di modi di vivere insieme e di esperienze familiari che l’individuo può attraversare nel corso della sua vita.

La crisi della famiglia tradizionale viene, in genere, fatta coincidere con l’inizio della crisi dell’istituzione matrimoniale. Secondo Marzio Barbagli è nel 1965 che «termina una delle stagioni più felici che il matrimonio e la famiglia tradizionale abbiano mai conosciuto nel nostro paese, in cui sposarsi, fare figli, restare insieme al coniuge fino alla morte sembravano agli italiani le cose più naturali del mondo» (Barbagli 1997:17). Ovunque il matrimonio è diventato un rapporto sempre più instabile e fragile, tanto che Beck rileva sarcasticamente che oggi «il matrimonio è un’impresa rischiosa, paragonabile all’alta velocità su un tratto di strada pieno di curve, di cui le assicurazioni non rispondono» (Beck 2000:21).

Individuare e approfondire le cause di una simile trasformazione non è facile. Secondo alcuni studiosi del fenomeno questa inversione di rotta scaturisce da un mutamento culturale che porta le unioni di coppia e la prolificazione ad essere concepite, diversamente dal passato, come aree autonome, nelle quali la sessualità si va sempre più sganciando dal riferimento produttivo e dal contesto coniugale. In questo quadro va anche inserita la volontà di volere provare una esperienza di coppia senza unione legale, non escludendo anche la prolificazione. Una soluzione, quest’ultima, che concede ampia libertà alla coppia di potere porre fine all’unione, anche in presenza di figli senza alcuna complicazione sotto il profilo legale. Il miracolo economico e la rivoluzione culturale che caratterizzarono gli anni ’60, da soli, non sarebbero sufficienti a chiarire le cause della crisi della famiglia. In questa fase occorre anche dare il giusto rilievo all’emancipazione delle donne e alla loro entrata nel mercato del lavoro.

Negli anni Settanta, inoltre, l’iscrizione delle donne alle scuole secondarie superiori e all’università comincia a crescere più che per gli uomini. Il conseguimento di un titolo di studio apre nuovi e più stimolanti orizzonti per le donne, incoraggiate in questo dalla legge 66 del 1963, nella quale viene loro sancito l’accesso a tutte le professioni e agli impieghi pubblici, compresa la magistratura nei vari ruoli, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera. Traguardi, questi ultimi, spesso conquistati faticosamente e non senza sacrifici. In questo percorso la donna ha dovuto spesso rinunziare a crearsi una famiglia o ad avere figli. La carriera, la necessità di spostarsi da una città ad un’altra, la competitività con i colleghi di lavoro non l’hanno certamente facilitata. Tale stato di cose ha portato e porta ancora oggi molte donne a nutrire un sentimento di rifiuto del ruolo di madre, così come viene trasmesso dal passato, provocando spesso un rifiuto della maternità. Non solo i figli vengono visti come un ostacolo ad un impegno di lavoro, ma anche come l’assunzione di una responsabilità che è meglio evitare sia per i modelli ed i ritmi alienanti della società di oggi, sia soprattutto per l’elevata instabilità coniugale dei nostri tempi. Per molte donne, dunque, l’idea dell’attesa di un figlio tende a caricarsi di elementi problematici. Se la vita di coppia è oggi considerata un salto nel buio, la nascita anche di un solo figlio, sotto questo aspetto, presenta troppe incognite e rischi, non solo da un punto di vista psicologico e sentimentale ma anche economico. Evidentemente non c’è solo la paura che la nascita di figli possa rappresentare un ostacolo alla carriera per entrambi i genitori o la preoccupazione del loro futuro in una società dalle previsioni non rosee sotto il profilo economico e sociale, ma anche una visione egoistica della vita, nella quale c’è una pienezza dell’esistenza anche senza figli, a prescindere dai figli. La famiglia, dunque, almeno come la intendevamo una volta, va scomparendo. Il sacro vincolo di cui parla la Chiesa, la famiglia fondata sul matrimonio e benedetta dall’arrivo dei figli, è già in minoranza nella vita reale.
2. Un concetto di globalizzazione.
Il tumultuoso, e apparentemente improvviso, ingresso della società post-industriale nell’epoca della globalizzazione ha certamente contribuito ad acuire il malessere della famiglia. La domanda che adesso dobbiamo porgerci è: attraverso quali percorsi e quali scelte la globalizzazione ha aggravato la crisi della famiglia sino a far temere per la sua stessa sopravvivenza?

Ma, prima di entrare nel merito della risposta, occorre chiarire il concetto di globalizzazione.

Malgrado vari piani di discussione abbiano dato vita a quello che è stato definito the great globalization debat, coinvolgendo economisti, politologi, sociologi e mass-mediologi, nessuna teoria della globalizzazione ha acquisito una autorevolezza indiscussa. Anzi, la nozione di globalizzazione è diventata fonte di grandi controversie e, di conseguenza, il confronto tra posizioni contrapposte rimane molto acceso. In realtà, la parola globalizzazione è oggi sulla bocca di tutti.

Per Bauman «è un mito, un’idea fascinosa, una sorta di chiave con la quale si vogliono aprire i misteri del presente e del futuro; pronunziarla è diventato di gran moda. Per alcuni, globalizzazione vuol dire tutto ciò che siamo costretti a fare per ottenere la felicità; per altri, la globalizzazione è la causa stessa della nostra infelicità» (Bauman 2005:90).

Il termine, secondo il sociologo inglese Anthony Giddens, designa «l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località molto lontane, facendo sì che gli eventi locali vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa» (Giddens 2001:3-8).

Per Giddens, dunque, modificando la rappresentazione sociale della distanza, attenuando il rilievo dello spazio territoriale e ridisegnando i confini del mondo senza tuttavia abbatterli, la globalizzazione è essenzialmente un’espansione della modernità dall’ambito europeo - occidentale al mondo intero: è la modernità su scala mondiale. Luciano Gallino definisce la globalizzazione un fenomeno primariamente economico: «il risultato di un disegno che soggetti collettivi hanno progettato e realizzato consapevolmente» (Gallino 2001:1259).

Essa è il prodotto – sempre secondo Gallino – «di politiche decise dalle maggiori potenze del pianeta e dalle istituzioni internazionali da loro influenzate.

Queste politiche sono ispirate a criteri come la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la riduzione in numerosi settori (sanità, previdenza, istruzione etc.) dell’intervento pubblico degli Stati nazionali. Retta da questi criteri, la globalizzazione ha un carattere implosivo: pur dando vita a una rete mondiale di connessioni sociali essa produce effetti di concentrazione spaziale e di selezione restrittiva in termini funzionali e comunicativi. Ciò concorre a spiegare il suo carattere settoriale sotto il profilo geo-politico e geo - economico: l’intero continente africano, per fare un esempio, è rimasto finora sostanzialmente estraneo ai processi di integrazione globale» (ibidem).

Una posizione critica, fra i teorici della globalizzazione, è quella assunta dal sociologo francese Pierre Bourdieu, secondo il quale «la globalizzazione è la forma più completa dell’imperialismo, quella che consiste nel tentativo di una determinata società di universalizzare la propria particolarità istituendola tacitamente a modello universale» (Bourdieu 2001: 95). Per Bourdieu, in sintesi, la globalizzazione non è l’effetto necessario delle leggi della tecnica o dell’economia, ma l’esito delle scelte politiche delle grandi potenze industriali, le quali per fare trionfare il loro progetto neoliberista globale, che mira ad unificare l’economia globale attraverso un’ampia serie di misure giuridiche ed economiche, debbono perseguire l’obiettivo di indebolire gli Stati nazionali e di revocare, nel contempo, le conquiste sociali realizzate in Europa nel corso del Novecento, decretando, così, il fallimento del Welfare State (Wacquant 2000).

La globalizzazione, in sintesi, secondo gli scettici è una nuova modalità dell’imperialismo occidentale per giustificare e legittimare il progetto neoliberista globale, cioè la creazione di un libero mercato mondiale e il consolidamento del capitalismo angloamericano all’interno delle principali regioni economiche del mondo.

In tal senso, rilevano Held e Mcgrew
non deve sorprendere che la discussione sulla globalizzazione si sia così diffusa in coincidenza con l’affermarsi nelle capitali occidentali e presso le istituzioni internazionali, quale il Fondo Monetario, del progetto neoliberista che si fonda sul consenso affermatosi negli Stati Uniti intorno ai concetti di deregulation, di privatizzazione, di programmi di adeguamento strutturale, di governo limitato (Held-Mcgrew 2007: 12).
Indubbiamente Aristotele, secondo il quale «i veri beni dell’uomo sono i beni spirituali, che consistono nella virtù della sua anima e non altro che in questo sta la felicità» (Aristotele: A 8, 1098 b), non esiterebbe a schierarsi tra coloro che considerano la globalizzazione una delle principali cause dell’infelicità dell’uomo contemporaneo. E su questa scia non sono poche oggi le critiche agli intellettuali globalizzati, spesso definiti «venditori di sogni comunitari che servono solo a consolare» (Bauman 2005:5).

Naturalmente non mancano gli apologeti della globalizzazione, intesa da questi ultimi come uno sviluppo coerente della rivoluzione industriale europea e della connessa modernizzazione. Nessuno, infatti, può negare sostiene Danilo Zolo che


industrialismo e modernizzazione hanno dato ottima prova di sé in Occidente, promuovendo, oltre a un elevato livello di benessere economico, fenomeni come la secolarizzazione, la diffusione del liberalismo e dell’economia di mercato, la razionalizzazione burocratica delle attività amministrative, la rivoluzione tecnologico-informatica, la formalizzazione giuridica,la proclamazione dei diritti dell’uomo. Alla base di questi processi – e del loro crescente successo ben oltre i confini dell’Occidente – è stata l’indiscussa superiorità, tecnologica e militare della civiltà occidentale rispetto alle altre civiltà del pianeta. In questa chiave, la più recente dilatazione globale della rivoluzione industriale e dei processi di modernizzazione è un fenomeno inarrestabile e benefico, poiché è destinato a diffondere nel mondo intero le conquiste civili dell’Occidente (Zolo 2006:13-14).
Sulla stessa lunghezza d’onda è la posizione di Gallino, secondo il quale i processi di globalizzazione oggi in corso sono uno sviluppo fortemente innovativo dell’economia mondiale. Gallino, infatti, tende ad evidenziare che
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