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I cavalieri di celluloide


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I cavalieri di celluloide

Matteo Sanfilippo


Nell’ultimo quarto del Novecento l’analisi dei revival medievaleggianti nelle età moderna e contemporanea si afferma come un filone autonomo dei nascenti studi “culturali”1. Nel 1976 Leslie J. Workman decide infatti di formare il gruppo “Studies in Medievalism”, che tre anni dopo fa uscire il primo numero dell’omonima rivista. Il gruppo coordina anche incontri annuali, dai quali nasce nel 1990 una collana miscellanea di atti “The Year’s Work in Medievalism”2. Infine, nel 2006, Veronica Ortenberg pubblica una storia del gusto medievaleggiante dal Cinquecento3. In questo settore di studi in rapida crescita guadagna una posizione di privilegio chi analizza i film ambientati nel medioevo, forse anche perché nello stesso lasso di tempo tale produzione conquista grande visibilità nell’ambito della cultura di massa4. Gli studiosi approfondiscono dunque la filmografia relativa e accertano che quel set temporale offre un modo originale di giocare sull’esotismo di un passato percepito e descritto come molto differente dal nostro oggi.

Il vero motivo della tendenza a eleggere il medioevo quale set di punta del film in costume appare a fine Novecento proprio questo: l’età di mezzo assicura un’ambientazione temporale molto caratterizzata e soprattutto completamente diversa dal nostro presente. a ben vedere tale elemento gioca anche nel successo storiografico di tale periodo e in effetti ci sono alcuni rimandi fra l’opera degli storici e quella dei cineasti5. Se, per esempio, gli studiosi statunitensi sottolineano quanto l’età di mezzo sia un periodo di epidemie, violenze e sfruttamenti, perché dobbiamo stupirci quando la loro controparte cinematografica gioca su scenari improntati agli stessi elementi6? Naturalmente l’udienza degli storici è limitata, mentre quella dei film è più vasta e significativa. Inoltre ogni pellicola, soprattutto se di successo, ne influenza altre e si assicura quindi una posterità. Abbiamo potuto quindi vedere nell’arco di pochi anni come l’input statunitense sia accolto dalle altre cinematografie, basti pensare alla violenza e alla miseria che traspira dal set abruzzese di Malatempora (2008) di Stefano Amadio (ambientato attorno al 1270).

Dietro agli sviluppi storiografici vi è un plurisecolare ed esasperato dibattito sui caratteri distintivi dell’età di mezzo. L’epoca moderna è infatti nata distaccandosi dal medioevo e lo ha a lungo stigmatizzato come barbarico: dagli umanisti agli illuministi si è sempre insistito sul fatto che proprio in quel periodo era stata cancellata la civiltà antica, fortunatamente recuperata a partire dal Trecento7. Nell’Ottocento l’importanza del recupero trecentesco è sancito con l’invenzione del termine “Rinascimento” a significare il risorgere della cultura dopo i secoli bui8. Proprio durante il romanticismo, però, la critica cattolica ed anglicana rivaluta il medioevo come fondamento delle storie nazionali e incubatrice del cristianesimo.

Questa rilettura ottiene un certo successo e stimola un revival neo-medievale, che finisce per sovraccaricare l’età di mezzo di valori e significati imprevisti9. Terminato l’attacco ai secoli bui e anzi riconosciuti loro tesori d’inventiva, cultura e capacità di rinnovamento, il medioevo inizia allora a essere visto non soltanto come il periodo nel quale nasce il mondo moderno, ma anche come l’epoca nella quale manca lo stato con il suo apparato costrittivo e dunque c’è un grado elevato di rischio, ma anche di libertà10. Questa concezione trasforma l’età di mezzo in una sorta di selvaggio West proiettato indietro nel tempo, un grande spazio libero nel quale malvagi proprietari terrieri sfruttano i contadini e pingui ecclesiastici si arricchiscono grazie alle superstizioni dei fedeli, ma dove ogni uomo valido può difendersi con le proprie armi e nobilitarsi con i propri mezzi11. Al medioevo feudale si contrappone quello delle rivolte contadine e popolari, delle prime eresie, dei mercanti avventurosi o avventurieri: un mondo che non resta impaniato nei legami feudali, ma ne evade o se ne serve per spettacolari scalate sociali, come suggerisce il filone cinematografico sui cavalieri plebei. Già presente nei film su Robin Hood, questo tema domina alcune pellicole a cavallo del 2000: Graham Baker, Beowulf, 1999; Doug Lefler, Dragonheart II: il destino di un cavaliere, 2000; Gil Junger, Black Knight, 2001; Brian Helgeland, Il destino di un cavaliere, 2001. Queste pellicole ricevono un certo plauso, anche perché la critica vi vede più di quello che offrono12.

Da parte statunitense è evidente la tentazione di sopravvalutare il medioevo e di rileggerlo sulla scia della grande tradizione romantica, innestandolo su un immaginario congenitamente western13. Da parte europea abbiamo invece la presenza di altri filoni, spesso più antichi, che talvolta esaltano i cavalieri e altre volte ne prescindono. I film italiani fanno rivivere, per esempio, i personaggi di Dante e Boccaccio e offrono quindi poco spazio alla cavalleria14. Quelli anglosassoni riprendono i invece cicli arturiani e di Robin Hood, mettendo in scena anche il loro testo medievale come in Excalibur (John Boorman, 1981, ripreso dalla Morte d’Arthur, 1469-1470, di Thomas Malory)15.

In effetti il medioevo fornisce al cinema meno personaggi della tradizione classica o di quella biblica, ma gli garantisce alcuni eroi d’eccezione16. In particolare il cavaliere, che non soltanto corona il mito del guerriero antico, ma prefigura lo spadaccino, il corsaro e infine il cowboy: un uomo solo, secondo la vulgata cinematografica, che si fa e che fa giustizia con le sue proprie armi e che rispetta un suo proprio codice d’onore, talvolta primitivo, ma sempre coerente.

Nei film del primo Novecento la figura del cavaliere è ammantata di un’aura aristocratica, ma poi si capisce che un eroe di tal fatta non è obbligatoriamente nobile, o se lo è può essere stato proscritto e perseguitato, come nel caso di Robin Hood, oppure ridotto in miseria, come l’eroe di Dragonheart (Rob Cohen, 1996). Infine si giunge alla conclusione che non è la nascita a fare il cavaliere, ma il suo coraggio, come ribadisce il già menzionato Destino di un cavaliere. D’altra parte il guerriero feudale non è il discendente di quei barbari, che hanno spazzato l’impero romano con la sola forza delle armi e che oggi sono tanto apprezzati dai fan del medioevo digitale17?

A questo punto la figura del cavaliere ha perso quasi tutte le sue connotazioni storiche. Per di più la confusione è ulteriormente aumentata dal fatto che al medioevo si sono ispirate anche la narrativa e la cinematografia fantasy (si pensi soprattutto al ciclo arturiano) molto care a sceneggiatori e registi anglo-americani. Non è quindi raro che questi ultimi ritraggono un medioevo che non ha più riscontro nella storia, ma che affonda le sue radici nella fantasy, o inseriscano spunti medievali in narrazioni ambientate ai giorni nostri. Si pensi alla tradizione britannica, riciclata attraverso la produzione cinematografica statunitense, dalle opere di J.R.R. Tolkien (Il signore degli anelli) e C.S. Lewis (il ciclo di Narnia) a quelle di J.K. Rowland (il ciclo di Harry Potter).

Proviamo a verificare quanto sin qui accennato con alcuni esempi. La filmografia sul cavaliere barbarico è enorme, ma una buona parte risponde all’ambientazione classica o tardo-antica, incentrata sul ruolo civilizzatore dell’antica Roma18. Nel mondo della celluloide la caduta dell’impero romano inaugura invece il selvaggio West in armatura. Tutto è permesso a ovest del Reno e bisogna farsi giustizia da soli, anche se qualche re cerca di mantenere l’ordine, come nelle pellicole su Alfredo re del Wessex dall’871 all’899 (Clive Donner, Alfredo il Grande, 1969; Jeshua De Horta, The Saxon Chronicles, 2006). Tale compito è, però, assai arduo, specie quando i monarchi devono vedersela con i vichinghi, che colpiscono ovunque e non hanno paura di nessuno (Roger Corman, Le donne vichinghe e il dio serpente, 1957). Per fortuna che, al cinema, gli uomini del Nord sono sempre impegnati a farsi la guerra tra loro e a portare avanti terribili faide su entrambe le sponde dell’Atlantico (da Richard Fleischer, I vichinghi, 1960, a Marcus Nispel, Pathfinder. La leggenda del guerriero vichingo, 2007, e Howard McCain, Outlander, l’ultimo vichingo, 2008). Questo massacro interminabile acquista sugli schermi l’andamento di un western alla Sergio Leone (Hrafn Gunnlaugsson, Il corvo vola, 1987), ma alla fine persino i guerrieri dello schermo si stancano di tutte quelle morti: così Erik il vikingo (Terry Jones, 1989) obbliga gli dei a riportare la pace.

Sennonché la pace non è di questo mondo cinematografico e ai discendenti dei guerrieri del Nord, trasformatisi in potenti signori feudali, tocca lottare contro nuovi barbari. In Il principe guerriero (Franklin Schaffner, 1965) i normanni sono quindi impegnati contro i pirati frisoni, i quali non sono solo selvaggi, ma anche pagani. I vichinghi devono invece battersi contro una più antica stirpe, quasi neolitica, che adora una “Grande madre” nel curioso, ma non disprezzabile, Il 13° guerriero (John McTiernan, 1999, dal romanzo Mangiatori di morte di Michael Crichton). Altri devono addirittura spostarsi nel tempo per fare giustizia di vili assassini (Joseph John Barmettler, Time Barbarians, 1990).

Alcuni pagani di celluloide sono frutto di una ricca mitologia, come i nibelunghi di Richard Wagner (la tetralogia dell’Anello del Reno, 1876) passati al cinema in innumerevoli pellicole. Altri provengono da steppe lontane e sono eredi degli unni. Altri ancora credono in un pantheon immaginario e non potrebbe essere altrimenti, perché vivono in un medioevo mai esistito. Il barbaro del cinema è infatti un’icona, un uomo libero perché selvaggio, cioè immune dal formalismo ipocrita degli imperi degenerati. Questa figura astratta è l’erede non soltanto del romanzo di appendice, ma soprattutto di storiografie nazionalistiche, che esaltano le proprie origini nazionali inneggiando al coraggio dei galli, dei britanni e dei teutoni, o dei franchi e dei sassoni. È lo stesso processo che ha fatto del Braveheart (1995) di Mel Gibson, epopea del medioevo scozzese, un film da Oscar e il simbolo della sempiterna lotta per la libertà19.

Con il progredire del Novecento tale raffigurazione di forze primigenie non ha più bisogno della storia e prende a cavalcare in un medioevo indifferentemente preistorico - l’età hyboriana del romanziere texano Robert E. Howard - oppure post-nucleare20. Nel primo caso fortissimi guerrieri si sfidano tra le rovine di mitici imperi, come nella trilogia interpretata da Arnold Schwarzenegger (John Milius, Conan il barbaro, 1980; Richard Fleischer, Conan il distruttore, 1982, e Yado, 1985) e nei suoi succedanei più o meno riusciti. Nel secondo, la barbarie segue all’esplosione atomica, alla perdita della conoscenza o al suo monopolio da parte di un ristretto gruppo di sopravvissuti. È l’idea applicata alla preistoria da Roger Corman (Adolescente delle caverne, 1957), ripresa da John Boorman (Zardoz, 1973), riciclata da tanti filmetti sui guerrieri del futuro (Avi Nesher, She, 1982; Lance Hool, Alba d’acciaio, 1987; David Peoples, Giochi di morte, 1989; Albert Pyun, Knights, 1992), infine tornata alle radici cormaniane (Larry Clark, Teenage Caveman, 2002)21. Ed è uno scenario che confluisce in quello hyboriano (Matt Cimber, Hundra, l’ultima amazzone, 1983), propagandando una visione circolare della storia, in cui il futuro assomiglia al passato. D’altronde - scrivono tanti autori di fantasy - chi ci assicura che un medioevo barbarico non sia seguito alla caduta di Atlantide, magari provocata dall’aver voluto padroneggiare energie ancora troppo potenti per l’uomo? L’età di mezzo diventa così un evento ciclico, il periodo buio che segue alla caduta di ogni civiltà la quale abbia troppo osato o troppo sperperato.

Il barbaro difensore della libertà è l’ideale progenitore del nobile cavaliere. Quest’ultimo è a sua volta sempre impegnato a difendere una giusta causa: i sassoni o i contadini nei tanti Ivanhoe; la fede nelle pellicole sulle crociate (Cecil B. De Mille, I crociati, 1935) o sulle lotte contro gli arabi in Spagna (Mario Caserini, Il Cid, 1910; Anthony Mann, El Cid, 1961: Xavier Seto, I leoni di Castiglia, 1963; Vittorio Cottafavi, I cento cavalieri, 1965); una donzella in pericolo (e qui la lista sarebbe troppo lunga). È un assunto elaborato dalla cultura medievale, raffinato dai poemi cinquecenteschi, ripreso dal romanticismo, esaltato dalla letteratura di massa del secondo Ottocento e infine ereditato dal cinema.

È impossibile riassumere le pellicole ispirate alle gesta cavalleresche. Si consideri infatti che quasi tutte le opere letterarie, che hanno esplorato tale tema, sono state portate sullo schermo. In ambito italiano basti ricordare: Enrico Guazzoni, Gerusalemme liberata (1911 e 1917); Pietro Francisci, Orlando e i Paladini di Francia (1956); Carlo Ludovico Bragaglia, La Gerusalemme liberata (1957); Luca Ronconi, Orlando Furioso (1974); Giacomo Battiato, I Paladini - Storia d’armi e d’amori (1983). Concentriamoci invece sul filone arturiano che offre un’ampia panoramica del medioevo di celluloide, in quanto le ambientazioni ondeggiano tra gli inizi dell’età di mezzo (Artù dovrebbe essere infatti un condottiero del VI secolo) e quel torno di tempo, fra il Due e il Trecento, nel quale sono stati concepiti i principali poemi22.

La materia arturiana si articola in due cicli: quello della Tavola Rotonda e quello del Graal. Il primo affonda le radici in area anglo-francese; il secondo si sviluppa anche in area germanica e vi trova la definitiva consacrazione nel Parsifal (1882) di Richard Wagner. Proprio questo dramma musicale attira l’attenzione dei cineasti (Edwin S. Porter, 1904, e Mario Caserini, 1912), ma presto sono inscenate anche le avventure degli altri cavalieri (Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda, Milano Film, 1910; J. Stuart Blackton, Lancelot and Elaine, 1911). Dopo la grande guerra il mondo arturiano è abbandonato dal cinema, che vi torna soltanto per adattare la parodia di Mark Twain Un americano del Connecticut alla corte di re Artù del 1889 (Emmet J. Flynn, 1921; David Butler, 1931; Tay Garnett, 1949) o per girare satire analoghe (King Arthur Was A Gentleman, 1942).

Alla fine degli anni 1940 il ciclo inizia invece a scavarsi una propria nicchia nel “cappa e spada” medievale. Nel 1949 Sam Katzman (Columbia) produce The Adventures of Sir Galahad, cui seguono I cavalieri della Tavola Rotonda (Richard Thorpe, 1953), Il cavaliere del mistero (Tay Garnett, 1954) e Il principe coraggioso (Henry Hathaway, 1954). Quest’ultimo è tratto dalle strisce del Prince Valiant di Harold Foster, vero ispiratore della nuova ondata arturiana, basicamente fumettistica e lontana dalle fonti letterarie.

La tendenza a ricreare liberamente il mito prosegue nel decennio successivo. Ginevra e il cavaliere di Re Artù (Cornel Wilde, 1962) gioca sul contrasto tra spiritualità e passione espresso in termini moderni. La spada nella roccia della Walt Disney (1963) reinventa a cartoni animati l’infanzia di Artù. Ne L’avventura di re Artù (Nathan Juran, 1964) non soltanto questi è ucciso dal suo campione Edmund di Cornovaglia, ma sua figlia entra in lizza contro l’usurpatore e i sassoni. Camelot (Joshua Logan, 1967) trasforma in musical un sunto del ciclo.

Negli anni 1970 si cerca di ridare al tema la pristina nobiltà, ma non sempre con i risultati sperati. Gawain and the Green Knight (1973) di Stephen Weeks tenta di tradurre in immagini l’omonimo poema di fine Trecento, ma un budget limitato, le intromissioni della United Artists e una regia non eccelsa producono un incrocio poco appetibile tra cappa e spada e pretese filologiche. Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson (1974) è di più alta fattura, tuttavia le fonti sono reinterpretate con assoluta libertà. La vicenda a noi nota è relegata in secondo piano, mentre l’azione è annullata nella ripetizione di particolari e di gesti in genere anacronistici. Non c’è medioevo, se non nel ricorso, di prammatica in quel decennio, a fango e sporcizia per simboleggiare la povertà dei secoli bui, ma non c’è neanche letteratura. Bresson sembra voler decostruire il mito per significarne la fine e il fallimento. Quest’ultimo tuttavia si riverbera sulla stessa pellicola, che tramortisce lo spettatore.

Nello stesso anno Terry Gilliam e Terry Jones procedono a un’operazione più spassosa (Monty Python’s and the Holy Grail) e portano all’estremo le incongruenze del cappa e spada. Cavalieri in arcione a cavallucci di legno assaltano castelli difesi da un solo francese, che li respinge svuotando vasi da notte. Eroi casti e puri sono perseguitati da vergini vogliose; re incapaci comandano inetti soldati. I particolari storici sono infine volutamente sbagliati. Il mito non può che affogare nel ridicolo. Nel 1978 Eric Rohmer si pone un problema analogo, ma con una angolatura diversa: come rendere il senso di una quête tanto inutile ai nostri occhi? In Perceval punta quindi su di uno straniamento non lontano da quello ricercato dai Monty Python. Gli esterni sono fasulli e senza ombre. Il cavaliere arriva sempre nello stesso castello, cui sono di volta in volta cambiate le insegne. Il Graal è una coppa illuminata. Tutto è finzione dichiarata dunque, mentre i dettagli storici non sono curati. Il dialogo invece rispetta gli ottonari dei testi originari: il film non vuole tradurre, ma riposizionare una letteratura molto distante dalla nostra cultura.

Negli anni 1980 il cinema arturiano è diviso fra volontà didattica e ricerca dello spettacolare. Excalibur (John Boorman, 1981) si rifà a La morte d’Artù di Thomas Malory (1405?-1471): compatta, però, personaggi ed episodi e fa strame di ogni possibile annotazione storica. Il film è lungo e noioso, ma diventa un classico, perché è visto come un campionario realistico degli orrori “medievali”: morte, violenza, fango. La stessa prospettiva anima Parsifaal (Hans Jürgen Sybeberg, 1981), una messa in scena dell’opera wagneriana, nella quale il regista fa risaltare come la rielaborazione del mito, da Chrétien de Troyes a Richard Wagner stesso, sia soltanto l’apologia della classe dominante medioevale.



Knightriders (George Romero, 1982) è più divertente e trasforma i cavalieri in motociclisti, dando vita a un bel massacro. Stephen Weeks (Sword of the Valiant, 1983) riprova invece a filmare la leggenda di Galvano: questa volta ha più soldi di dieci anni prima, ma meno idee. Clive Donnell (Arthur the King, 1985) riesce meglio dei suoi predecessori, sfruttando l’effetto nostalgia: il fascino dei cavalieri discende dalle nostre letture infantili, l’autunno del mito è quindi anche quello della nostra esistenza. Al ricordo di quelle letture è dedicato infine Indiana Jones e l’ultima crociata (Steven Spielberg, 1989), scanzonato pastiche sul Graal.

Gli anni 1990 aprono con due opere serie e gradevoli: Adolfo Arrieta, Merlin (1990), da una pièce di Cocteau, e Terry Gilliam, Il re pescatore, 1991, rivisitazione in chiave contemporanea della ricerca del Graal. Purtroppo a metà del decennio si vira invece verso il rosa zuccheroso. La regina divisa tra Lancillotto e Artù è al centro dei piagnucolosi Il grande amore di Ginevra (J. Taylor, 1994) e soprattutto del piagnucoloso Il primo cavaliere (Jerry Zucker, 1995). Nel frattempo riprende quota Un americano del Connecticut alla corte di re Artù di Twain, cui si rifanno una terna di film giovanistilici: così, dopo le colt e il filo spinato, arrivano a Camelot il baseball e i computer, nonché le donne afroamericane (Mel Damski, 1989; Ralph L. Thomas, 1991; Michael Gottlieb, 1995). Infine i cavalieri della Tavola rotonda trovano una nuova discreta versione a cartoni animati (Frederik Du Chau, La spada magica, 1998) prima d’irrompere nel territorio dei videogiochi (Legion: The Legend of Excalibur, Midway-Leader, 2002).

Nel corso degli ultimissimi anni Camelot ed Avalon mantengono la propria centralità, ma vi sono anche riletture in chiave sedicentemente storica, come quella proposta da Antoine Fuqua (King Arthur, 2004) riportando la materia arturiana alla caduta dell’impero romano. Inoltre si riprendono i racconti al margine, come gli amori di Tristano e Isotta (2008, Kevin Reynolds), il ruolo delle donne nella corte arturiana (Uli Edel, Le nebbie di Avalon, 2001) o le avventure di Merlino, che si costuiscono sempre più in un filone a se stante23.

La quête dei cavalieri arturiani è soltanto una delle due varianti dell’impresa cavalleresca più esaltate al cinema24. L’altra, che potremmo definire cristiana per eccellenza, è fondamentalmente legata alle crociate25. Anche in questo caso la fonte prima dell’immaginazione cinematografica è la tradizione ottocentesca: in particolare il filone sull’impresa crociata affonda le sue radici nella ripresa romantica de La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Il primo film italiano sulle crociate è infatti una versione del poema firmata da Enrico Guazzoni nel 1911 e rigirata dallo stesso nel 1917, che deve molto alla pittura ottocentesca. Nel 1957 anche Carlo Ludovico Bragaglia si ispira al Tasso, ma gli adattamenti dei due registi sono assai diversi, più vigoroso e pompieristico quello di Guazzoni, più scolastico e pauperistico quello di Bragaglia. Comunque il loro impatto è egualmente scarso.

Anche sul versante anglosassone il tema della liberazione della Terrasanta è un tardo frutto del romanticismo. Non a caso il suo successo sugli schermi britannici ed americani è dovuto soprattutto al suo intrecciarsi con i miti di Riccardo Cuor di Leone e Robin Hood, filtrati attraverso l’Ivanhoe di Walter Scott. Già il primo grande Robin Hood americano (Allan Dwan, 1922) insiste sulla partecipazione del magnanimo sire alla terza crociata. Cecil B. De Mille costruisce poi i Crociati (1935) attorno alla figura del re, che si reca in Terrasanta per ritrovare l’amata prigioniera del Saladino. Sul lato storico è uno dei film più risibili del regista, ma la resa visiva è notevole e il ritmo ieratico ipnotizza lo spettatore. Infine Ivanhoe di Richard Thorpe (1952) dà ampio spazio al ritorno di Riccardo e lo accompagna all’esaltazione dei guerriglieri legittimisti di Sherwood e della divisione da sanare fra normanni e sassoni. I primi, tranne ovviamente Riccardo, sono comunque fondamentalmente dei parassiti, anche se non sempre malvagi. Inoltre le loro peggiori qualità sono esaltate dall’appartenenza all’ambiguo ordine dei templari, troppo dedito ad attività terrene per essere veramente vicino a Dio.

Nel filone che apparenta Riccardo, Robin e Ivanhoe l’impresa di Terrasanta è spesso un semplice antefatto, che spiega successivi comportamenti dei protagonisti: il disgusto per la violenza dell’arciere in Robin e Marian (Richard Lester, 1976), oppure la sua amicizia con il moro Aziz in Robin Hood - Principe dei ladri (Kevin Reynolds, 1991). Di conseguenza si accenna solo al viaggio oltremare e gli si dedicano poche scene. Talvolta è soltanto menzionato, senza essere neanche mostrato. È un vuoto, che ha inghiottito gli uomini migliori e lasciato a casa i traditori, da Giovanni Senza Terra al perfido Golo, quello che insidia e imprigiona Genoveffa di Brabante.

Le crociate sono in fondo un evento negativo, perché separano il popolo dal re e la moglie dal marito, con tutto ciò che ne può conseguire. Inoltre danno origine a un mondo senza uomini, un mondo di guerrieri senza famiglia o con la famiglia lontana, che spesso torneranno segnati irrimediabilmente. La loro anima pagherà infatti non soltanto il lasciarsi andare a qualsiasi tipo di vizi, ivi compresa la sodomia della quale sono accusati i templari, ma soprattutto lo spaventoso vuoto sentimentale e sociale vissuto in Terrasanta. Il cavaliere de Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1956) torna così disgustato da ritrovare la speranza soltanto nella propria morte26.

Il risvolto tragico di questa avventura tipicamente maschile non sempre predomina sullo schermo. In Italia, fallite le versioni calligrafiche di grandi opere letterarie, le crociate sono riciclate nel medioevo di celluloide più sgangherato. Come tutti ricorderanno, L’armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1965) sbarca in Terrasanta per salvarsi il didietro e nel seguito (Brancaleone alle crociate, 1970) il protagonista, genialmente interpretato da Vittorio Gassman, si dimena senza concludere nulla di veramente eroico. Sulla stessa linea si sviluppano le avventure di Ciccio di Braghelunghe (Ingrassia) e del “caporale di ventura” Franco (Franchi) ne I due crociati (Giuseppe Orlandini, 1969) e di Paolo Villaggio in Superfantozzi (Neri Parenti, 1986). Per di più la lontananza da casa del guerriero ispira uno specifico filone pornosoft, da La cintura di castità (Pasquale Festa Campanile, 1969) a Chiavi in mano (Mariano Laurenti, 1996). In questi italici film si avverte un cachinno, che caratterizza anche la produzione letteraria degli ultimi decenni. Si pensi al barone di Calatrava che mima l’avvicinamento alla Terrasanta restandosene a casa sua o ai crociati che depredano scriteriatamente Costantinopoli nei romanzi di Fabio Carpi e Luigi Malerba e di Umberto Eco27.

Un posto a parte in questi sviluppi merita I cavalieri che fecero l’impresa (Pupi Avati, 2001), superproduzione italo-francese mirata al mercato americano, nella quale si propina una bella storia di sacre reliquie e lotta contro il diavolo. In questa pellicola c’è l’universo solo maschile dei crociati con qualche risvolto grossolano (il tentato stupro della giovane conversa, i figli illegittimi di uno dei futuri eroi), un medioevo sporco e sgangherato dove tutti i volti sono distorti da un ghigno od una deturpazione, una violenza non più metafisica come in Bergman, ma da western spaghetti: uomini arsi vivi, gole squarciate, intestini al vento, e cavalieri che caracollano sui destrieri con la destra libera per impugnare la colt, pardon la spada. La supervisione di Franco Cardini evita gli errori più grossolani, ma la mancanza di sensibilità del regista-sceneggiatore, uno dei pochi che più avanza nella sua carriera più sembra disimparare il mestiere, tramuta la quête purificatrice in ammorbante paccottiglia.

Il sottofondo tragico, comico, misterioso o semplicemente ridicolo di queste avventure lascia in genere poco spazio a chi combatte i crociati. Certo in Riccardo Cuor di Leone (David Butler, 1954) il prode re inglese è salvato dal Saladino, mentre in Cuor di Leone (Franklin J. Schaffner, 1989) il vero cattivo è il Cavaliere Nero, sempre del seguito del Plantageneto, che arriva a vendere fanciulli agli arabi. Solo l’egiziano Ahmad Mazar offre un ritratto a tutto tondo del Saladino (1967) e ne sottolinea la superiorità culturale sui cavalieri europei. D’altronde la maggior parte dei film citati neanche si sofferma sul ruolo delle crociate nello sviluppo culturale, economico e politico dell’Occidente medievale o se lo fa è in modo assolutamente ridicolo (lo sceneggiato televisivo di Domenique Othenin Girard, I crociati, 2001, che fa rimpiangere l’assai più divertente Thibaud, il cavaliere bianco, 1968). Forse soltanto Crusades, la serie televisiva diretta da Terry Jones nel 1995, ha tentato di offrire questo quadro, alternando brani documentari a una “black comedy” volta a condannare ogni forma di oppressione religiosa e razzista. Mentre si rivela tonitruante e deludente Le crociate (2005) di Ridley Scott.



Il pubblico tedesco e scandinavo impazzisce più recentemente per la miniserie televisiva svedese e per i due film (2007 e 2008) ispirato alla tetralogia del romanziere svedese Jan Guillou su Arn Magnusson, giovane cavaliere obbligato a partecipare alle crociate: Il Templare, Il Saladino, La Badessa, L’erede del Templare (tutti tradotti da TEA). Senza approfondire ulteriormente possiamo qui notare l’appartenenza ai templari dell’eroe, un elemento che negli ultimissimi anni, grazie anche a una serie di film ambientati nel presente, ma con prodromi medievali, sembra riscrivere la storia e il ruolo dell’ordine, ma dilungandoci su questo tema entreremmo in un altro tipo di medievalismo (Jon Turteltaub, Il mistero dei templari , 2004; Ron Howard, Il Codice da Vinci, 2006) e vedremmo all’opera un altro tipo di cavaliere.

1 Per un quadro generale: Christina Lutter e Markus Reisenleitner, Cultural Studies. Un’introduzione, Milano, Bruno Mondadori, 2004. Per lo specifico della cultura di massa anglo-statunitense, quella con maggior seguito: John Storey, Cultural Studies and the Study of Popular Culture, Athens GA, University of Georgia Press, 2004 (seconda edizione rivista e ampliata), e Inventing Popular Culture: From Folklore to Globalization, Malden MA – Oxford, Wiley-Blackwell, 2003. Per gli studi su medioevo e cultura di massa: David W. Marshall, Mass Market Medieval: Essays on the Middle Ages in Popular Culture, Jefferson NC - London, McFarland, 2007.

2 Vedi i materiali nel sito http://www.medievalism.net.

3 Veronica Ortenberg, In Search of the Holy Grail: The Quest for the Middle Ages, London-New York, Continuum, 2006.

4 Vito Attolini, Immagini del medioevo al cinema, Bari, Dedalo, 1993; François Amy de la Bretèque, Le regard du cinéma sur le Moyen Âge, in Le Moyen Âge aujourd’hui, a cura di Jacques Le Goff e Guy Lubrichon, Paris, Le léopard d’Or, 1998, pp. 283-326; Kevin J. Harty, The Reel Middle Ages: Films about Medieval Europe, Jefferson NC - London, McFarland, 1999 (edizione ampliata: The Reel Middle Ages: American, Western and Eastern European, Middle Eastern and Asian Films About Medieval Europe, 2006); Cinema e medioevo, a cura di Stefano Pittaluga e Marco Salotti, Genova, DARFICLET, 2000; John Aberth, A Knight at the Movies: Medieval History on Film, London, Routledge, 2003; Martha W. Driver, The Medieval Hero on Screen: Representations from Beowulf to Buffy, Jefferson NC - London, McFarland, 2004. Nicholas Haydock, Movie Medievalism: The Imaginary Middle Ages, Jefferson NC - London, McFarland, 2008.

5 Duccio Balestracci, Medioevo italiano e medievistica. Note didattiche sulle attuali tendenze della storiografia, Il Calamo, Roma 1996; Giuseppe Sergi, L’idea di medioevo, Roma, Donzelli, 1998; Jacques Le Goff, L’immaginario medievale, Roma-Bari, Laterza, 20072; Michel Pastoureau, Medioevo simbolico, Roma-Bari, Laterza, 2007.

6 Si confrontino Paul Freedman e Gabrielle M. Spiegel, Medievalisms Old and New: The Rediscovery of Alterity in North American Medieval Studies, “American Historical Review”, 103, 3 (1998), pp. 667-704, e Tommaso di Carpegna Falconieri, Medievisti fantastici. A proposito di Timeline di Crichton, “Quaderni medievali”, 52 (2001), pp. 169-177.

7 Giorgio Falco, La polemica sul medioevo (1933), Napoli, Guida, 1977.

8 Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di Paolo Costantino Pissavino, Bruno Mondadori, Milano 2002; Il Rinascimento italiano e l’Europa, I, Storia e storiografia, a cura di Marcello Fantoni, Vicenza, Fondazione Cassamarca – Angelo Colla Editore, 2005; Simone Ferrari, Voci del Rinascimento, Milano, Bruno Mondadori, 2008.

9 Raoul Manselli, Il medioevo come “Christianitas”: una scoperta romantica, in Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, a cura di Vittore Branca, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 51-89; Renato Bordone, Lo specchio di Shalott. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Napoli, Liguori, 1993; AA.VV., Studi medievali e immagini del Medioevo fra Ottocento e Novecento, “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo”, 100 (1995-1996); Christian Amalvi, Le goût du Moyen-Âge, Paris, Plon, 1996; Lo spazio letterario del medioevo, 1. Il medioevo latino, a cura di Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi ed Enrico Menestò, IV, L’attualizzazione del testo, Roma, Salerno Editrice, 1997; Jacques Le Goff, Alla ricerca del medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2004.

10 Il medioevo: specchio ed alibi, a cura di Enrico Menestò, Ascoli Piceno - Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medieovo, 1997; Arthur Lindley, The Ahistoricism of medieval film, all’indirizzo http://www.latrobe.edu.au/screeningthepast/.

11 Matteo Sanfilippo, Dal western al neowestern, in Il Novecento USA. Narrazioni e culture letterarie del secolo americano, a cura di Sara Antonelli e Giorgio Mariani, Roma, Carocci, 2009, pp. 213-245.

12 Helen Dell, Past, Present, Future Perfect: Paradigms of History in Medievalism Studies, “Parergon”, 25, 2 (2008), pp. 58-79.

13 Matteo Sanfilippo, Il medioevo secondo Walt Disney. Come l’America ha reinventato l’età di mezzo, Roma, Castelvecchi, 1998.

14 Per il primo, cfr. Dante nel cinema, a cura di Gianfranco Casadio, Ravenna, Longo Editore, 1996. Il secondo ha beneficiato ed insieme è stato dannato dal successo del Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini: ad esso infatti è seguito il profluvio dei “decamerotici”, cfr. Decameroticus. Guida al cinema boccaccesco italiano, “Nocturno Dossier”, 56, marzo 2007.

15 Matteo Sanfilippo, Camelot, Sherwood, Hollywood, Roma, Cooper, 2006.

16 Si confrontino Miti e personaggi del mondo classico, a cura di Eric M. Moorman e Wilfried Uiterhoeve , Milano, Bruno Mondadori, 1997; Martin Bocian, I personaggi biblici, Milano, Bruno Mondadori, 1997; Miti e personaggi del medioevo, a cura di Willem P. Gerrisen e Antony G. van Melle, Milano, Bruno Mondadori, 1999.

17 Per molti versi il cinema e la letteratura si rivelano oggi una pallida ombra della vera passione medievaleggiante. Questa invece fluisce vigorosa nel web, dove, per la moda dei barbari, è possibile consultare http://www.wizardrealm.com/barbarians/, che assicura un buon numero di link.

18 Per i set temporali dei film in costume: Matteo Sanfilippo, Historic Park. La storia e il cinema, Roma, Elleu, 2004.

19 Vito Attolini, Cavalieri e cuori impavidi, “Quaderni Medievali”, 41 (1996), pp. 160-171.

20 Su medioevo cinematografico e catastrofi, cfr. Roberto Rusconi, Il medioevo cinematografico e la fine dei tempi, in Apocalisse e cinema, a cura di Elio Girlanda e Carlo Tagliabue, Roma, CSC, 1996, pp. 149-162.

21 Per un catalogo, cfr. http://www.videoscreams.com/post_apocalyptic.htm.

22 Per la tradizione letteraria e cinematografica, vedi il già citato M. Sanfilippo, Camelot, Sherwood, Hollywood.

23 Vedi al proposito http://www.cinemedioevo.net/Film/Cronologie/filmografia_merlino.htm.

24 Alessandro Barbero, La cavalleria medievale, Roma, Jouvence, 2001. Per l’ambito crociato, vedi soprattutto Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia (Roma, Istituto di Cultura Nova Civitas, 1971; Il movimento crociato, Firenze, Sansoni, 1972; Gerusalemme d’oro, di rame, di luce, Milano, Il Saggiatore, 1991; Il saladino: una storia di crociati e saraceni, Casale Monferrato, Piemme, 1999; Le Crociate: la storia oltre il mito, Milano, De Agostini-Rizzoli, 1999. Senza dimenticare gli interventi su Gerusalemme: Franco Cardini, Gerusalemme la Terra Santa e l’Europa, Firenze, Giunti, 1987, e In Terrasanta. Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna, Bologna, Il Mulino 2002.

25 Vito Attolini, Le crociate al cinema, “Quaderni Medievali”, 47, (1999), pp. 126-150.

26 Franco Cardini, I segreti del Tempio, Firenze, Giunti, 2000, e Il medioevo nel cinema di Ingmar Bergman, “Quaderni Medievali”, 6 (1978), pp. 132-143.

27 Fabio Carpi e Luigi Malerba, I cani di Gerusalemme, Roma, Edizioni Theoria, 1998; Umberto Eco, Baudolino, Milano, Bompiani, 2000.


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