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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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(Fargette 1996:43).

81 Secondo Fargette (1996:27), Renan scrisse: «Méhémet Ali était musulman, mais au fond sans fantasme, et prompt à connaitre la supériorité de l’Occident En réalité , l’occident sera un modèle pour lui; Il fera tout son possible pour que son pays s’en inspire, mais sans vouloir toucher au cadre religieux».

82 «Plus agé, l’homme aimera se trouver en compagnie d’esprits cultivés; il recevra volontiers les nombreux voyageurs européen en visite au Caire ou à Alexandrie. Il appréciera leurs conversations, posera de nombreuses questions sur leurs pays respectifs, leur organisation politique, leur système économique. Ces entretiens seront pour lui d’un grand profit.» (Fargette 1996:26).

83 «Méhémet Ali résiste à la tentation d’interdire le journal (Le journal de Smyrne - animé par Bousquet – Deschamps) car il tient à montrer à l’opinion publique égyptienne et européenne que la liberté de la presse existe dans son pays» (Fargette 1996:207).

84 Mohammad Ali: «Ne me jugez pas par rapport à vous. Comparez-moi plutôt avec l’ignorance qui m’entoure. Vous ne pouvez appliquer le même règlement en Egypte et en Angleterre; des siècles sont nécessaires pour atteindre le niveau que vous avez atteint en ce moment, et je n’ai à mon actif que quelques années seulement […] Je ne peux trouver que très peu de personnes qui sachent me comprendre et exécuter mes ordres. Je recherche toute personne qui pourrait me fournir des renseignements. Je suis quelquefois déçu par la conduite des autres; mais il m’arrive aussi d’être déçu par moi-même» (Sinoué 1997:29).

85 «Champollion avait conservé une vue très négative de la gestion du Pacha […] Dans sa lettre a Dacier au lendemain de son retour en France il écrit: ‘Méhémet Ali, cet excellent homme, n’a d’autre vue que tirer le plus d’argent possible de la pauvre Egypte […] Horus –Typhon. Horus le bénéfique, le créature, le modernisateur de l’Egypte ; Typhon le dieu assassin qui se donnant pour objectif d’arracher la vallée du Nil aux ténèbres, soumettait son peuple a une règle inhumaine, à la corvée permanente, à l’érection d’une pyramide sans fin» (Fargette 1996:227).

86 Uno dei più importanti intellettuali da cui ha origine la mentalità moderna egiziana grazie al suo soggiorno di studio a Parigi e quindi il suo incontro con la cultura francese. Amico di Mohammad Ali, fu uno degli studiosi mandati a Parigi per formarsi e autore di un noto libro: Talhlis Al-Ibriz Fi Talhis Pariz (Il Raffinamento dell’Oro Nella Descrizione di Parigi), edito al Cairo nel 1834, in cui documentò ciò che vide ed apprese a Parigi dove trascorse gli anni 1826-1831 come shaikh di un gruppo di studenti.

87 L’insegnamento tradizionale è quello della cultura azharita impartito presso l’università – moschea del Cairo. L’insegnamento è tenuto in lingua araba letteraria, la lingua del Corano, del quale gli allievi imparano a memoria passi e capitoli e sul quale seguono corsi scolastici. Essi non possono fare riferimento ad altri testi, ma solo a questo che è tutt’ora considerato fondamentale.

88 «Presumbly this activity by Zakhur and other Syrian translators was the first of its kind not only in Egypt, but anywhere in the Arab East. It marked the beginning of the Arab world’s direct contact with Western learning»: Moosa 1997:96.

89 Mohammad Ali disse parlando de Il Principe «[…] in the first ten pages I discovered nothing great nor new […]. I waited. But the next ten were no better. The last ten were merely commonplace. I can learn nothing from Machiavelli» ( Stephens-Von Hagen 1996: 23).

90 I nomi si possono trovare trascritti in vari modi: Raphael, Raffael, Rafael, Rafa’i; Antoun, Anton, Antoon, Antwan; Zahur, Zakhour, Zakur, Zakhur, Zaqour, Zakkur.

91 Il suo nome figura nei registri della scuola di medicina di Abu Z’abal per gli anni 1828,1829 e 1832 (vedi Bachatly, 1931:27-35).

92 Avis sur la petite vérole régnante, adressé au Divan du Kaire, par le Gen. Desgenettes, Premier médecin de l’Armée d’Orient. Au Kaire, de l’imprimerie Nationale, le 27 nivôse an VIII.


93 Siamo grati al Sig. Mohamed Salmawy, editore del giornale Al-Ahram e segretario generale della Arab Writers' Union, autore dei due articoli citati in bibliografia, per averci indicato la nuova collocazione del mn.

94 «Le vice-Roi sera toujours le maître unique et suprême. Il reçoit les avis, les opinions, les suggestions, mais c’est lui qui ordonne, accepte ou refuse. Tout au long de son règne, il regardera l’Egypte comme sa propriété et ses cinq millions d’habitants comme ses créatures» (Sinoué 1997:157).

95 Nallino (1931:614) commenta: «Dal punto di vista linguistico e della forma la traduzione è superiore di gran lunga a quella di Raffael Zakhur».

96 Il nome completo di Ibn Khaldoun (or Khaldoon) è: Waliy-Eddin Abou-Zeid Abd-Alrahman, Figlio di Mohammed e soprannominato Hadhrami o Aschbili. Nato a Tunisi nel 732 H (1332 A.D.) e morto nel 1406 A.D., figlio di una antica famiglia araba originaria di Hadramaut. Ibn Khaldoun è autore del rinomato libro Mukaddimat Ibn Khaldoun (Introduzione di Ibn Khaldoun) del 779 H (1378 A.D.) in cui elaborò la sua teoria su ascesa e declino degli imperi musulmani e cercò di indagare le leggi che regolano i processi storici. Le sue originalissime tesi sono raccolte in tre volumi e non hanno uguale nella letteratura medievale.

97 Per un esame più approfondito vedi il mio contributo 'The first Arabic translation', R. De Pol (Ed.), The First Translations of Machiavelli's Prince. From the Sixteenth to the first Half of the Nineteenth Century, Amsterdam 2010, pp. 279-304.

98 Dello stesso autore si veda anche (van Creveld 2002:3-15).

99 Recentemente René Girard ha avanzato un’interpretazione alternativa rispetto a questa sostenendo che la natura interattiva e relazionale della guerra sia costitutivamente portata a condurre i duellanti verso l’uso estremo della violenza (Girard 2008 [2007]). Si tratta di una lettura che trova riscontro parziale in alcuni passi della prima parte del libro I di Della guerra. In essi Clausewitz descrive la differenza tra modello teorico della guerra assoluta tendente all’uso estremo della violenza e guerra empirica e reale, vale a dire, quella che fuoriesce dall’astrazione teorica e si confronta col dato storico concreto. La tendenza all’estremo sarebbe causata dallo scopo, [Zweck] dall’obiettivo, [Ziel] e dal mezzo [Mittel] di ogni guerra (Clausewitz (2000 [1832]:18). Lo scopo è «l’imposizione della nostra volontà al nemico», che per essere ottenuto ha bisogno di raggiungere l’obiettivo di «disarmare il nemico» utilizzando «la violenza fisica» come mezzo (Ibid.). Ne conseguono tre interazioni che spingono la violenza all’estremo. La prima causata dal fatto che per raggiungere l’obiettivo di disarmare l’avversario, le parti in lotta si impongono reciprocamente la legge di non mettere limiti all’uso della violenza (Ivi:20). La seconda provocata dal timore di essere eliminati dall’avversario fin tanto che non lo si è annientato(Ivi: 21), la terza legata allo «sforzo estremo delle forze» che i contendenti mobilitano per avere la meglio sul proprio nemico (Ibid.). In questa sede, non posso soffermarmi sull’affascinante e complessa riflessione sviluppata da Girard sulla violenza. Mi limito a dire che secondo Girard, Clausewitz è il primo a capire che la violenza in età moderna risponde ad una dinamica di accrescimento continua dovuta ai principi di reciprocità e di imitazione violenta che legano i “duellanti” della definizione clausewitziana (Girard 2008 [2007]:38). Per Girard, dunque, la violenza non è più contenibile, non può più essere regolamentata dalla politica e dalle istituzioni umane, essa tende irrimediabilmente all’estremo e all’Apocalisse (Ivi:51). Mi astengo dal giudicare il senso complessivo della riflessione girardiana e la centralità da egli assegnata al messaggio religioso del cristianesimo e all’apparizione nella storia di una nuova teofania. Qui mi preme, invece, analizzare la coerenza dell’interpretazione girardiana rispetto al pensiero di Clausewitz, perché mi pare che se pur affascinante essa ne riduca il grado di complessità.

Clausewitz, infatti, dopo aver presentato la guerra come un fenomeno per sua natura orientato all’estremo, rivede la propria definizione introducendo quelle che chiama «le probabilità della vita reale», ovvero le circostanze concrete e storiche che distinguono la tendenza «naturale, filosofica, logica» della guerra dalla «tendenza delle forze realmente prese in conflitto» (Clausewitz 2000 [1832]:39). Ritengo ci siano due spiegazioni dietro questo cambiamento. La prima spiegazione è piuttosto semplice. Clausewitz la fornisce argomentando che la tendenza all’estremo potrebbe verificarsi soltanto sotto tre condizioni non realizzabili concretamente: «1) se la guerra fosse un atto completamente isolato, che si originasse all’improvviso e non si collegasse con la preesistente vita dello stato; 2) se la guerra consistesse in un’unica decisione[…]; 3) se la guerra contenesse una decisione compiuta in sé e su di essa non retroagisse con il suo calcolo la condizione politica che seguirà alla guerra stessa» (Ivi:23). La seconda spiegazione è invece più articolata. Ritengo che Girard compia una forzatura non coerente con l’architettura complessiva del pensiero clausewitziano quando riduce all’imitazione violenta tra i duellanti il concetto di guerra del generale prussiano. Il pensiero di Clausewitz è invece molto più strutturato. Egli dopo aver inizialmente individuato nell’elemento dell’ostilità violenta il motore delle guerre, introduce altri due concetti fondamentali: quello di politica e quello di casualità. Per questo motivo, come si vedrà più avanti, nell’avanzare una definizione finale del concetto di guerra Clausewitz introdurrà il paragone con la trinità cristiana. L’immagine della trinità indica la pari rilevanza dei tre elementi costitutivi della guerra (violenza, caso, politica) e l’impossibilità di ricondurne l’essenza ad uno solo di essi come invece fa Girard ponendo l’accento esclusivamente sul ruolo della violenza.

100 Sul punto cfr. Beyerchen (1992:68).

101 Nell’edizione italiana Einaudi a cura di Gian Enrico Rusconi, il termine dreifaltigkeit è tradotto come “trilatero”, mentre nell’edizione Mondadori del 1970 tradotta da Ambrogio Bollati ed Emilio Canevari è reso con il sostantivo “triedro”. Non si capisce per mancanza di motivazioni addotte perché le due edizioni italiane non utilizzino la traduzione letterale “trinità” da me utilizzata in questo saggio e corrispondente al testo originale tedesco del 1832. Le ragioni per una scelta letterale sono peraltro suffragate dalle due più importanti edizioni del Vom Kriege tradotte in inglese da James John Graham nel 1873 e da Michael Howard e Peter Paret nel 1976. Entrambe rendono il termine dreifaltigkeit con l’equivalente inglese trinity. Utilizzo il termine “trinità” oltre che per correttezza filologica pure per motivazioni di carattere concettuale. L’immagine della trinità rappresenta pienamente il pensiero clausewitziano sulla guerra quale concetto composto da tre elementi autonomi ma al tempo stesso parte integrante di una stessa unità. Questa sfumatura essenziale della teoria di Clausewitz ha dato adito a numerosi fraintendimenti negli interpreti che di volta in volta hanno posto l’accento ora sull’elemento della razionalità come fece Raymond Aron nel suo celebre studio Penser la guerre, Clausewitz (1976), ora sull’elemento passionale dell’ostilità come fa René Girard (2008:37) polemizzando con l’approccio razionalista di Aron. Come cerco di dimostrare più volte nel corso della mia trattazione per mantenere intatta la complessità del pensiero clausewitziano e comprenderne la permanente attualità, tutti gli elementi della trinità meritano eguale considerazione. Per un approfondimento su questo tema si vedano inoltre: Strachan (2007) e Bassford ( 2007).

102 «La legge non è pacificazione, poiché dietro la legge la guerra continua a infuriare all’interno di tutti i meccanismi di potere, anche dei più regolari. È la guerra a costruire il motore delle istituzioni e dell’ordine: la pace, fin dai suoi meccanismi più infimi, fa sordamente la guerra. In altri termini, dietro la pace occorre saper vedere la guerra: la guerra è la cifra stessa della pace». (Foucault 1998:47).

103 Cfr. Balibar (2008:377): «una reale guerra clausewitziana è una guerra dagli sviluppi imprevisti che non sono esattamente né quelli annunciati né quelli attesi».

104 Il concetto di guerra senza limiti è ormai ampiamente analizzato anche all’interno delle università e delle accademie militari americane. Per una panoramica sul dibattito americano si vedano gli atti della conferenza sul tema della guerra senza limiti (Unrestricted Warfare Simposium), organizzata nel 2007 dalla John Hopkins University con gli interventi di esperti di strategia, accademici militari, storici ed esperti di intelligence ed informatica. Nell’introduzione al volume, il curatore Ronald Luman (2007:3) definisce così la guerra senza limiti: «Unrestricted warfare involves both state and nonstate actors seeking to gain advantage over stronger state opponents. These actors will employ a multitude of means, both military and nonmilitary, to strike out during times of real or perceived conflict. The first rule of unrestricted warfare is that there are no rules; nothing is forbidden. Unrestricted warfare employs surprise and deception and uses both civilian technology and military weapons to break the opponent’s will». Degno di nota all’interno di questo volume è pure il quinto capitolo che raccoglie una serie di contributi sul tema degli attacchi informatici e della cyberwar.

105 Sul punto, Liang – Xiangsui (2001:118): «ciò che essi vogliono è una distruzione gratuita e incontrollata all’interno di un contesto governato da regole, agire in maniera folle e scatenarsi in un contesto senza regole».

106 Schmitt (1972:108). Sul rapporto tra guerra e politica nel pensiero di Clausewitz, Schmitt (ivi:117), scriveva: « osservando meglio, per Clausewitz la guerra non è uno dei molti strumenti, ma la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico».

107 Liang – Xiangsui (2001:80). Sul tema, si consideri pure questo passo di Schmitt (1972:201): «per il tipo ginevrino di pacifismo, è caratteristico che la pace sia condotta a finzione giuridica: la pace è tutto ciò che non è guerra, ma la guerra dev’essere solo la guerra militare di tipo antico, condotta con animus belligerandi. Una ben misera pace! Per coloro che possono imporre la loro volontà e piegare la volontà dell’avversario con strumenti di coazione e di dominio extramilitari, ad esempio economici, è un gioco da ragazzi evitare la guerra militare vecchio stile […]». A prescindere dalla polemica di Schmitt nei confronti della Società delle nazioni, mi sembra evidente che già nel 1938 si aveva consapevolezza dell’esistenza di strumenti di guerra non militari utilizzabili per piegare la volontà di un avversario politico.

108 Secondo Hammes, le tecniche di combattimento moderne si evolverebbero al mutare delle condizioni sociali e politiche suddividendosi in quattro generazioni (Hammes 2005; 2007:189-221;15-23).

109 Per identificare la guerra irregolare, restano in buona parte validi i quattro criteri stabiliti da Carl Schmitt (2005:35): «irregolarità, accresciuta mobilità, intensità dell’impegno politico e carattere tellurico» ovvero la difesa della propria terra da parte del “partigiano”.

110 Cfr., Beck (2008:238). Sulla relazione tra società del rischio e guerra si vedano anche: Rasmussen (2006) e Heng Yee-Kuang (2006).

111 Cfr. Schmitt (2006:71) «Finché la storia universale non sarà conclusa, bensì ancora aperta al mutamento, […] allora nelle forme sempre nuove dell’apparire degli eventi della storia del mondo sorgerà un nuovo nomos. Per noi si tratta della combinazione strutturante di ordinamento e localizzazione, nel quadro della convivenza tra i popoli sul pianeta nel frattempo scientificamente misurato».

112 Il concetto di rivoluzione degli affari militari, è stato introdotto alla fine degli anni Ottanta, dall’allora direttore dell’ufficio di Net Assessment del Pentagono, Andrew Marshall (1995:1): «la Rivoluzione degli Affari Militari è un cambiamento di grandi dimensioni nella natura del warfare, portato avanti da applicazioni innovative di nuove tecnologie, che combinate con cambi radicali nella dottrina militare e nei concetti organizzativi e operativi, alterano fondamentalmente il carattere e la condotta delle operazioni militari».

113*Trabajo inserto en el Proyecto de Investigación HAR2008-10174. Agradezco los comentarios y sugerencias de mejora de los dos revisores anónimos de Storia e Politica, así como de José Manuel Valles.

 Constitución política de la Monarquía española. Promulgada en Cádiz a 19 de marzo de 1812, Título VII, Artículos 338-355.

114 Se trataba, básicamente, de los principios de legalidad, universalidad, generalidad y proporcionalidad entre gravamen y renta. Sobre el debate hacendístico en las Cortes de Cádiz y sus aledaños, nos remitimos a los excelentes trabajos de López Castellanos (1995; 1999).

115 Conjunto de impuestos sobre el consumo y el comercio, recaudados en las veintidós provincias de la Corona de Castilla, que constituía el grueso recaudatorio principal de la Hacienda española y cuyos principales componentes eran las alcabalas, los cientos y los millones.

116 De acuerdo con el juicio de Fontana y Garrabou (1986: 46 y ss.).

117 El artículo 344 de la Constitución había establecido la “contribución directa”. En septiembre de 1813 una Comisión Extraordinaria de Hacienda implantaba por medio de un Decreto este “nuevo orden tributario”; para mayor detalle, vid. López Castellanos (1999: CXLVI y ss).

118 Pueden verse, por ejemplo, Fontana (1971), Merino (1981) y Artola (1982). En estas obras puede encontrarse también una descripción de la organización y la estructura de la Hacienda española durante el siglo XVIII. Asimismo, para una definición precisa de los diferentes conceptos fiscales que se emplean a lo largo de este trabajo (alcabalas, frutos civiles, etc.), nos remitimos a Canga Argüelles (1834).

119 Una visión de conjunto en López Castellano (1995) y Guasti (2000). Muy esquemáticamente, las corrientes afloradas durante la primera mitad del siglo fueron básicamente cuatro: los partidarios de introducir mejoras en los modelos fiscales castellano y “aragonés” sin realizar cambios profundos en ellos (Uztáriz, Ulloa, Campillo y Ward); quienes veían en el catastro catalán un posible modelo para Castilla (Zavalza, Marcenado o Carvajal); los “eclécticos” sostenedores de diferentes propuestas basadas en la imposición directa (Loynaz, Agumosa o Gándara); y, por último, los defensores del antiguo modelo absbúrgico o austracista (Aznar).


120 Síntesis sobre esta cuestión, en Hernández Andreu (1972) y Anes (1974; 1990).

121 Cabarrús estimaba que a las obligaciones contraídas para pagar los intereses y amortizar la deuda, había que sumar el déficit ordinario y las nuevas necesidades previsibles para financiar el fondo señalado, hasta alcanzar todo ello un montante global de 158 millones. Si a ello se añadían los 142 millones, la estimación resultante de la supresión de los impuestos señalados, el total de las necesidades públicas se elevaba a 300 millones. Fiel a su propósito de que el incremento de las contribuciones debía ser temporal hasta la extinción de la deuda nacional, Cabarrús estimaba que la nueva imposición debería reformarse pasados veinte años, momento a partir del cual deberían “suprimirse aquellas rentas que se acercasen más a los vicios de las rentas provinciales”.

122 Fue editado por Anes (1974).

123 Sobre la figura de Alcalá nos remitimos a la excelente biografía política e intelectual de Valles (2008). Su fructífera etapa en la Sociedad Segoviana se describe en Valles (2008: 45 y ss.).

124 Los discursos aludidos son: Alcalá (1783a; 1783b; 1783c).

125 Un balance completo de las memorias presentadas figura en Valles (2008: 373 y ss.).

126 Alcalá Galiano y Mantecón de Arce (1788). Este segundo era oficial de la Administración de Aduanas de Segovia y también miembro de la Sociedad Segoviana.

127 Sobre las posiciones concretas de Uztáriz, Campomanes, Arriquíbar, etc. en la reforma de las rentas provinciales, nos remitimos a Guasti (2000).

128 A todo ello contribuyó también el intenso proceso de circulación en la España de ese tiempo de sus ideas económicas y sus reformas políticas. Sobre la difusión e influencia de las ideas de Necker en los ámbitos de la Hacienda Pública, la administración territorial y el comercio de granos, nos remitimos a Astigarraga (2000a; 2000b). Además de Necker, resulta necesario revisar el papel de los escritos del Ministro de Hacienda de Gran Bretaña George Grenville en el proceso de modernización de la Hacienda Pública española, cuestión en la que nos hallamos trabajando en la actualidad. Tales escritos fueron traducidos durante esos mismos años en España.

129 Sobre Necker y la emergencia gradual en sus escritos del concepto de “opinión pública”, vid. Fernández Sebastián (2004: 9-29) y Burnand (2004).

130 Sobre la primera circulación de la obra de Smith en España, pueden verse, principalmente, Smith (1973), Lluch-Almenar (2000) y Schwartz (2000). Las ideas del escocés sobre el gasto, ingreso y deuda pública se explican en el extenso libro V de la Wealth of Nations.


131 Alcalá (1788). La memoria será editada cinco años después en las actas de la Sociedad Segoviana. Un análisis exhaustivo de su contenido en Valles (2008: 415 y ss).

132 Estas ideas se exponían en los Compte-rendu elaborados por Lerena (1789; 1790).

133 Gibert (1978) El único ejemplar manuscrito de esta obra se conserva en la biblioteca del Instituto de Estudios Fiscales, nº 57223-57227. La componen cinco volúmenes de contenido y un sexto con el índice. Es muy probable que una mano anónima, quizás a lo largo del siglo XIX, retocara el texto, modernizando su terminología.


134 Antes de acometer la realización del
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