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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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Il discorso di Caltagirone del 1905, definito da De Rosa la magna charta del popolarismo, e considerato dall’autore fra i testi politici più rilevanti di Sturzo, testimonia l’inizio di una mentalità nuova «che è di rottura con la precedente posizione dei cattolici integralisti, più papisti del papa, fedelissimi oltre misura alla norma del non expedit e allergici a ogni cambiamento in senso democratico, sia dentro, sia fuori della Chiesa» (Guccione 2010: 51). Il discorso contiene in sintesi la concezione che Sturzo ebbe del partito municipale, inseparabile dalla lotta alla piaga del clientelismo, e del partito nazionale d’ispirazione cristiana, e segna l’avvio di una lunga gestazione che condurrà alla nascita del Partito Popolare italiano.

Contrariamente ad altri esponenti del movimento cattolico, Sturzo, pur considerando la contingenza del non expedit, ritenne quasi provvidenziale il divieto pontificio, perché «convinto che la fine dell’astensionismo avrebbe gettato il clero meridionale di nuovo nelle braccia delle clientele moderate locali e, quindi, auspicava che tale legge rimanesse in vigore sino a che i cattolici non avessero maturato una propria coscienza politica autonoma» (Marsala 2007: 39). Fu «dentro il bozzolo del non expedit» che si formarono i presupposti culturali e ideologici di quella grossa operazione politica che culminò nella fondazione di un partito nazionale di cattolici. Un partito basato “sulla morale cristiana e sulla libertà”, ma con un programma aconfessionale e laico e con una netta distinzione tra politica e religione. «Ecco l’autentica “rivoluzione” sturziana: – scriverà più tardi Giovanni Spadolini – il taglio netto fra clericalismo e cattolicesimo sociale, la rivendicazione perfino orgogliosa – da parte di un sacerdote – dell’autonomia dei cattolici nelle sfere della vita civile». (Spadolini 1970). La fermezza nella sua fede, il senso di ubbidienza, la fedeltà alla chiesa non gli impedirono, tuttavia, di ribadire in più occasioni soprattutto nei confronti di coloro che avrebbero preferito un partito integralista operante all’ombra della gerarchia ecclesiastica, la linea della laicità del partito.

La nascita del Partito Popolare italiano - rileva l’autore - segna una tappa importante per Sturzo: punto d’arrivo dell’impegno e degli sforzi giovanili e punto di partenza del lavoro e delle speranze della maturità (cfr. Guccione 2010: 54-55) e il suo programma, riconducibile alle riflessioni personali di Sturzo, è la summa più completa del suo pensiero. A farci comprendere quanto travaglio interiore avesse provocato in Sturzo la carica di segretario politico del P.P.I. sono le parole da lui scritte alcuni anni dopo nel ricordo della sera in cui, a seguito della riunione conclusiva per la fondazione del partito, si recò insieme agli altri esponenti nella basilica dei SS. Apostoli per un’ora d’adorazione: «Durante quest’ora di adorazione - scrive Sturzo- rievocai tutta la tragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla, non cercavo nulla, ero rimasto semplice prete: per consacrarmi all’azione cattolica sociale municipale avevo rinunziato alla cattedra di filosofia; dopo venticinque anni ecco che abbandono anche l’azione cattolica per dedicarmi esclusivamente alla politica. Ne vidi i pericoli e piansi» (Sturzo 1972 [1938]:106-107). In lui, sottolinea l’autore «il senso della chiesa, ossia la consapevolezza di essere sacerdote e di avere precisi obblighi nei riguardi di questa, fu altrettanto forte come il senso dello stato» (Guccione 2010: 109).

Il Partito Popolare nasce come partito eminentemente democratico-parlamentare, come il partito delle riforme istituzionali in un momento in cui la crisi dello Stato liberale ormai conclamata, lasciava spazio a qualsiasi tipo di soluzione. Sturzo non ebbe alcuna esitazione a prendere posizione nei confronti del fascismo già prima che mostrasse il vero volto di regime antidemocratico e dittatoriale. Ciò provocò dure reazioni; il fragile, ma impavido sacerdote fu attaccato in ogni modo: oggetto di calunnie, di continue e sarcastiche caricature, persino minacciato di morte. “L’uomo dall’abito nero”, così era chiamato Sturzo ironicamente dai suoi avversari, si trovò di fronte al “Cesare con la camicia nera” (Giuliani 2006: 17). E in questo scontro Sturzo ebbe la peggio e su “consiglio” della S. Sede fu costretto a lasciare l’Italia e andare in esilio a Londra e successivamente negli Stati Uniti. Ancora una volta Sturzo aveva dato prova, e non sarebbe stata l’ultima, «di grande umiltà, senso della disciplina, spirito di sacrificio e di rinunzia» (Caronia 1979: 279). Quanti speravano che un allontanamento di Sturzo dal territorio italiano potesse servire a far tacere la voce di chi, senza mezzi termini condannava il regime, avevano riposto male le proprie speranze.

Egli dall’esilio continuò a combattere il comunismo e il fascismo e, in seguito, anche le altre dittature che si erano instaurate in Europa. Anzi, la sua condizione di esiliato fu cassa di risonanza di tutte le iniziative prese a difesa della democrazia italiana ed europea. I discorsi, le conferenze, gli incontri con esponenti del mondo politico e culturale internazionale, gli articoli pubblicati si intensificarono di giorno in giorno e gli consentirono in poco tempo di divenire una delle voci più ascoltate ed apprezzate degli antifascisti esiliati. Ma gli anni dell’esilio londinese furono anche anni di intenso e proficuo lavoro, di studio, di ricerche, di approfondimento. Dalla pratica si passava alla riflessione, alla teoria. Al nostro autore appare come un paradosso, ma di fatto se Sturzo «non fosse stato costretto ad andare in esilio, non avrebbe potuto scrivere tanto e non avrebbe potuto tramandarci un patrimonio culturale così prezioso» (Guccione 2010: 77). Appartengono al periodo londinese opere fondamentali come Italia e fascismo (1926), La comunità internazionale e il diritto di guerra (1929), La società sua natura e leggi (1935), Chiesa e Stato (1937), Politica e morale (1938). Ciascuna di queste opere, vere pietre miliari del pensiero sturziano, sono presentate e commentate dall’autore, che, con attenta sintesi, riesce a metterne in luce i punti salienti dando al lettore la possibilità di conoscere le idee del sacerdote calatino sulla crisi del sistema democratico parlamentare italiano, sul problema della guerra, sulla sociologia storicista, sui rapporti fra stato e chiesa.

Dagli Stati Uniti, dove fu costretto a trasferirsi nel 1940, Sturzo continuò la sua battaglia contro le dittature attraverso articoli, interventi e discorsi, ma soprattutto ritenne preminente adoperarsi in ogni modo per «creare un’opinione pubblica favorevole al popolo italiano» (Guccione 2010: 112) vittima e non complice del regime fascista. Nonostante le molteplici attività alle quali si dedicava, Sturzo riuscì a dare alle stampe altre tre opere: La vera vita. Sociologia del soprannaturale (1943), L’Itala e l’ordine internazionale (1944), Nazionalismo e internazionalismo (1946).

Non meno sofferto del periodo dell’esilio fu il suo rientro in patria da molti auspicato, da parecchi temuto, soprattutto perché la tesi del fondatore del P.P.I. sulla opportunità di eliminare la monarchia e optare per la repubblica, si pensava potesse produrre sconcerto e disorientamenti nella D.C. Il rimpatrio fu differito per più di un anno per espressa volontà della S. Sede, che continuava a tenere nei confronti di Sturzo un atteggiamento di incomprensione, intolleranza e per certi versi di diffidenza. Al suo rientro in Italia, nonostante le ripetute prove di rigorosa osservanza del voto di ubbidienza e dell’affetto filiale per la Chiesa, Sturzo fu “confinato” in un «cantuccio romito di periferia, una sorta di simbolico parcheggio off limits» almeno così parve agli occhi di Rodolfo De Mattei il luogo dove il sacerdote trascorse gli ultimi anni della sua vita. Ciò non impedì a Sturzo di continuare la sua attività di pubblicista e di intervenire puntualmente su molti aspetti della vita politica italiana, combattendo in particolar modo lo statalismo, la partitocrazia e lo sperpero del denaro pubblico. Ma ciò che più lo assillava e che era stata al centro dell’ attenzione per tutta la sua esistenza era la questione morale, intimamente collegata ai principi religiosi.

Divenne ben presto la coscienza critica della D.C. e i continui richiami nei confronti di un partito che si sentiva erede del P.P.I., gli procurarono l’infastidito risentimento di amici vecchi e nuovi che lo giudicavano ormai un sorpassato, o un nemico della repubblica e della democrazia o uno che poteva minare in qualche misura l’unità dei cattolici. «L’Italia del secondo dopoguerra trovò in lui un censore severo della classe politica nazionale, un profeta disarmato e scomodo, una, come egli amava definirsi, Cassandra inascoltata» (Baldini 2000: 20). Ma «quello dell’indipendenza di giudizio è un suo abito su misura, ed è il suo grande unico lusso» scriverà Rodolfo De Mattei in un articolo apparso il 19 aprile 1958 sul Giornale d’Italia, quello stesso giornale su cui prevalentemente Sturzo scrisse dal 2 settembre 1952 sino al 21 luglio 1959, ossia sino a 18 giorni dalla morte, che, come è noto, lo colse l’8 agosto successivo.

Il libro di Eugenio Guccione, organico, se vogliamo usare un termine molto caro a Sturzo, profondo nella sua essenzialità, scevro da ogni tentazione agiografica, risulta un prezioso strumento per far circolare tra un pubblico più vasto il pensiero sturziano, ma soprattutto ha il merito di aver analizzato a 360 gradi la figura di Sturzo, maestro del cattolicesimo liberale, uomo di azione di singolare energia e di ammirevole coraggio, pensatore vigoroso e lucido. Le sue critiche coerenti e pungenti, scomode per «quanti si spacciano per figliuoli e discepoli di Sturzo» (De Mattei 1958) mostrano la sua passione civile unita a rigore morale, onestà intellettuale, libertà di spirito, indipendenza di giudizio e inflessibile fermezza, e fanno di lui più che un profeta, conclude l’autore, «un politologo di straordinario intuito, che studiando e analizzando i problemi politici e socio-economici era in grado di indicarne le soluzioni e, sulla mancata applicazione di queste, di anticiparne le conseguenze» (Guccione 2010: 147).



Bibliografia
Baldini Massimo, 2000, Un profeta disarmato, scomodo e inascoltato, in «Rinascimento popolare», n.4 luglio-agosto.

Caronia Giuseppe, 1979, Con Sturzo e con De Gasperi, Roma: edizioni Cinque Lune.

D’Addio Mario, 2009, Democrazia e partiti in Luigi Sturzo, Lungro di Cosenza: Marco Editore.

De Mattei Rodolfo, 1958, Luigi Sturzo: un uomo libero, in «Il Giornale d’Italia», 19 aprile.

Di Giovanni Alberto, 1981, La “concezione organica” come esigenza politico-morale, in A. Di Giovanni ed E. Guccione (a cura di), Politica e sociologia in Luigi Sturzo, Milano: Editrice Massimo.

Giuliani Luigi, 2006, Don Luigi Sturzo grande evangelizzatore della politica e della società, Roma: CISS.

Guccione Eugenio, 2010, Luigi Sturzo, Palermo: Flaccovio.

Lalli Franco, 1946, Il grande esule, in «Il mondo», rivista mensile di problemi internazionali.

Marsala Rosanna, 2007, Popolarismo e costituzionalismo in Filippo Meda. Lettere a Giuseppe Toniolo (1890-1917), Palermo: Ila Palma.

Pennisi Michele, 2010, Guccione toglie Sturzo dall’esilio culturale, in «La Sicilia», 28 ottobre.

Spadolini Giovanni, 1970, Il Tevere più largo da Porta Pia ad oggi, in Dieci illustrazioni, Milano: Longanesi & C.

Sturzo Luigi, 1996, Lettere non spedite, Bologna: Il Mulino.

Sturzo Luigi, 1972 [1938], Politica e morale, Bologna: Zanichelli.

Abstract
Keywords: Sturzo, Cooperativism, Popularism, Christian Political Philosophy
The paper deals with Eugenio Guccione’s book on Luigi Sturzo published by Flaccovio. The book is presented as a popular work scientifically organized. It gives the reader a new portrait of Sturzo, confirming the Sicilian statesman as one of the best-known exponents of the Christian democratic movement.
Rosanna Marsala

Università degli Studi di Palermo

Facoltà di Scienze Politiche

Dipartimento di Studi Europei D.E.M.S

romarsala@unipa.it

ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100310




Recensioni/Reviews

A cura di Salvatore Muscolino e Giorgio E. M. Scichilone



Giovanna Fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2009, pp. 368.
Questo bel volume è il coronamento di una ricerca decennale che l’A. ha condotto sul tema della schiavitù nel Mediterraneo in età moderna. Sono già stati pubblicati gli atti a cura della medesima A. di due grossi convegni internazionali tenuti a Palermo nel 1999 e nel 2007 (i numeri monografici dedicati a La schiavitù nel Mediterraneo, «Quaderni storici» 107 [2001] e Schiavi, corsari, rinnegati, «Nuove Effemeridi» XIV, 54 [2001]; Schiavitù e conversioni nel Mediterraneo, «Quaderni storici» 126 [2007] e Schiavitù, religione e libertà nel Mediterraneo tra medioevo ed età moderna, «Incontri mediterranei» XVII, 1-2 ([2008]). Il volume si suddivide in quattro capitoli, dei quali soltanto il primo è dedicato alla descrizione di quella schiavitù che si pratica nel Mediterraneo nella modernità tra i due blocchi che vi si fronteggiano: quello europeo, cristiano, e quello turco e nordafricano, islamico. Già in questo l’A. mette in luce il peso che si annetteva all’aspetto religioso dello scontro, andando verso il racconto, nei tre capitoli successivi, dell’innalzamento all’onore degli altari da parte della chiesa cattolica di alcuni schiavi mori venuti in terra cristiana, o della lunga ed appassionante descrizione della cura degli schiavi cristiani in terra musulmana con il connesso tentativo di convertire colà uomini dell’islam e gli inevitabili, per il tempo, esiti cruenti. In particolare ella segue la vicenda della missione francescana spagnola nel regno del Marocco nella prima metà del Seicento, il suo protagonista Juan de Prado, ucciso nel 1631, e il prosieguo di essa con Matias de san Francisco.

Il primo valore della ricerca è l’approfondimento della peculiarità del fenomeno di questa schiavitù rispetto a quella coeva che avviene nell’Atlantico (cf. p. X): questa ha la caratteristica della reciprocità tra cristiani e musulmani, essendo prodotta dalla guerra da corsa e dal suo succedaneo, la pirateria; intrecciandosi poi con la prigionia, essa è temporanea, avendo la possibilità di essere riscattata, può di conseguenza anche reiterarsi, e soprattutto si annulla nel momento in cui con l’abiura e il passaggio alla religione contraria lo schiavo/captivus torna alla libertà. Ciò che viene alla luce, tuttavia, è non solo una condizione di vita umana inaccettabile, ma anche un intreccio e un’osmosi effettiva tra le popolazioni che si considerano nemiche. L’indagine è condotta principalmente sul versante cristiano, avendo l’A. compulsato una buona mole di fonti giacenti negli archivi europei e, tra questi, in modo particolare i processi del tribunale dell’Inquisizione come pure quelli della canonizzazione di alcune figure di schiavi cristiani. Ed ecco un’altra problematica che sottende al valore del libro: accostare le fonti con la distanza critica necessaria, per non rimanere prigionieri delle griglie ideologiche né cadere negli aggiustamenti o nelle esaltazioni che la fama di personalità eminenti spesso induce. È vero che manca una certa discussione e valutazione delle fonti, tuttavia l’A. non manca di mostrare alcune contraddizioni, cercando sempre di trovarne le ragioni e le strategie. Anzi l’ultimo capitolo presenta il resoconto di fra’ Matias a testimonianza del confratello Juan per il processo di beatificazione, rivelando in modo sobrio e credibile aspetti e fatti che altrimenti non avremmo conosciuto. L’A. mostra di saper valorizzare al meglio le diverse fonti, come le cause di beatificazione, le agiografie o i resoconti che nascono spesso in relazione a queste cause, e ancor più invoglia gli studiosi a utilizzare questo vasto giacimento culturale, ancora non del tutto esplorato, per illustrare non solo gli aspetti religiosi del passato bensì pure quelli sociali, politici, economici.

Emerge, perciò, una ricchezza di vissuti umani di gran pregio, considerando l’oggetto indagato, che farebbe piuttosto pensare soltanto a storie di degrado e di miseria morale. Il volume ha il pregio di mostrare invece un dato significativo: il tentativo di sollevare da questa condizione umiliante ha una marca essenzialmente religiosa, per quanto si intrecci inevitabilmente con motivi politici, economici e strategici. Da una parte il mondo francescano, al quale si limita l’indagine, dall’altro l’autorità ecclesiastica sono autori della proposta di una santità condotta fin sugli altari che esprime il prodigarsi nell’alleviare una situazione sub-umana. G. Fiume osserva la capacità dei Francescani (ma ricorda il lavoro di Mercedari e Trinitari, oltre ai Gesuiti) di integrare gli schiavi, riuscendo a valorizzare figure sociali che non potevano affacciarsi alla vita sociale: infami, essi non godevano di alcuna fama e la loro parola non aveva alcun valore sociale. Il fatto in sé ha anche un fine apologetico, in quanto riconoscendo la grandezza morale e religiosa di alcuni schiavi, tanto da proporla alla venerazione di tutti i cristiani, si rendevano questi schiavi provenienti dall’Islam modelli di superiorità del cristianesimo sull’altra religione. Soprattutto si offriva a tutti gli schiavi una figura con la quale identificarsi sia per portare i patimenti sia sperare in un miglioramento della propria condizione.

Questo fine è mostrato attraverso l’abbondanza fonti addotte, a partire dalle quali l’A. osserva il vantaggio che anche le periferie siano venute a dialogare direttamente. La diffusione del culto di Benedetto il Moro, quando non è ancora canonizzato, nell’America latina, ha non solo arricchito il vissuto cristiano di intere popolazioni, ma ha anche favorito l’arricchirsi di esso con l’apporto di elementi culturali africani, che non sono passati per il centro, cioè Roma. Ecco la testimonianza fatta a Roma al processo per Benedetto il Moro del trentaduenne Paolino da Velasco, che viene da Lima: «Dal tempo che comincia ad avere l’uso di ragione […] a quella chiesa volentieri andavo essendo piccolo per vedere l’immagine del detto servo di Dio, nella quale mi compiacevo di vederlo perché era nero come me» (p. 160). Si pensi alle innumerevoli testimonianze della religiosità propria dei gruppi di schiavi afro-americani, quasi sempre organizzata in confraternite, che si sviluppa intorno al culto di Benedetto. È un modello di santità eremitica e taumaturgica quello che emerge nei due canonizzati siciliani: Benedetto e Antonio etiope da Noto. Si dedicano alla preghiera e alla penitenza, sopportando con pazienza non solo la loro condizione penosa, ma praticando anche la dura ascesi del tempo, che li conduce ad acquisire autorevolezza presso la gente del luogo, che inizia a rivolgersi a loro ricevendone talvolta veri miracoli. «Tutti lo chiamano “cio Antonio” [Antonio da Noto], in segno di rispetto, nonostante si tratti di uno schiavo. Durante un’epidemia in cui muoiono ottocento pecore, Antonio rincuora il padrone promettendogli che Dio avrebbe moltiplicato il gregge entro un anno. La premonizione puntualmente si avvera. Diventando i miracoli sempre più numerosi, i padroni “ebbero timore di avere per schiavo chi aveva Dio per amico e così gli diedero licenza di affrancamento e il permesso di abitare liberamente dovunque gli piacesse”» (p. 140). Né i due citati sono le uniche figure che emergono; altri non arrivano alla canonizzazione, ma godono fama di santità e si fermano ai gradini inferiori del processo.

Altro aspetto ricco, che fa spesso onore ai capi musulmani, è la missione presso gli schiavi cristiani dei frati, missione di assistenza spirituale ai figli della chiesa in condizioni così gravi, senza che mai venga meno l’anelito di convertire il musulmano. Anzi, nel caso di Juan de Prado, le testimonianze affermano che questi volesse andare in missione in Marocco più che per assistere gli schiavi cristiani, per convertire il re e trovare il martirio per Cristo. Diventa quasi incredibile vedere il re che non vuol contravvenire ai patti con la Spagna e, dunque, non mette facilmente a morte fra’ Juan, mentre questi ostinatamente rifiuta ogni flessibilità e irrita il sovrano confessando continuamente Cristo e la Trinità, fino a determinare la decisione di mandarlo al rogo. L’illustrazione della posizione del compagno Matias chiarisce che non tutti erano come Juan, anzi Matias sembra davvero mirare all’assistenza dei cristiani, che dopo anni e una prudente condotta infine ottiene con le tutele del caso. In proposito, e degna di nota la tessitura della scrittura di G. Fiume, la quale riporta la Relazione del viaggio spirituale e prodigioso che fece a Marruecos il venerabile fra’ Juan de Prado, intrecciandola con l’illustrazione dei personaggi che entrano in gioco, con le strategie e le mire di ciascuno.
Antonino Raspanti

Roberto De Pol (ed.), The First Translations of Machiavelli’s Prince, Amsterdam – New York, Rodopi, 2010, pp. 329.
Interest in the early circulation of Machiavelli’s Prince has grown in recent years. Numerous works have appeared and research projects have been launched to focus on new aspects in comparison with those of the traditional philosophical approach to Machiavelli’s political thought. The present collection of eight essays resulted from a project of its editor, Roberto De Pol, who investigated the first translations of The Prince carried out in Europe from the 16th century to the Revolutionary and Napoleonic periods. Jacob Soll wrote the introduction (entitled Translating The Prince by Many Hands), that is followed by an introductory chapter in which De Pol informs the reader on the aims and results of the project.

Nella Bianchi Bensimon, author of the first essay Le première traduction française (pp. 25-57), focuses on Jacques de Vintimille’s manuscript dated 1546. This translation, which is proof of the early French interest in Machiavelli, is considered relevant for the translator’s attention to the language problem.

Caterina Mardeglia, author of The first Latin translation (pp. 59-82), deals with the work commissioned by the publisher Pietro Perna and carried out by the “Reformed Umbrian exile” Silvestro Tegli. Faithful to the original except for some omitted passages, Tegli’s translation – re-published and printed fourteen times – had an important role in spreading The Prince throughout Europe.

Alessandra Petrina, author of A Florentine Prince in Queen Elizabeth’s court (pp. 83-115), reconstructs the history of four 16th century English translations, three of which were anonymous and one by the Scottish intellectual William Fowler. After providing information on Fowler and his cultural background, Petrina compares the four works making interesting considerations on some aspects of each translation.

María Begoña Arbulu Barturen, writing La primera traducción española (pp. 117-169), analyses the first Spanish translation, an anonymous 17th century manuscript. Her analysis is carried out on three different levels: intertextual (translation studies, reception and the impact of Machiavelli’s ideas on the Spanish Golden Age), extratextual (the source text, the translator and the potential reader) and para-textual (dealing with the translator’s visibility to use Venuti’s terminology).

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