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Lorenzo Negri L’uomo sbagliato


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Era in Cile quando arrivò alla fine la breve stagione del presidente Allende.

Come molti fu costretto alla fuga e all’esilio. Ricercato da più polizie in quanto sovversivo, riuscì grazie all’aiuto dei nonni a raggiungere l’Europa e la Svizzera. Fu lì che conobbe mia madre. Lei, Simonetta Contardo, abitava a Luino e studiava lingue all’Università Cattolica di Milano. Per pagarsi quei corsi, alla sera e nei pomeriggi di sabato e domenica lavorava come cassiera in un cinema di Locarno in cui mio padre era riuscito a farsi assumere in qualità di proiezionista, grazie all’esperienza che aveva maturato proiettando film di propaganda sui muri scalcinati dei villaggi andini.

Mio padre diceva sempre che la mamma da giovane aveva un pessimo carattere e un culo perfetto, con gli anni il primo era notevolmente migliorato a discapito del secondo. Si sposarono subito e mi misero al mondo nell’estate del 74. La mamma ottenne un posto di ruolo come insegnante in una scuola media alla periferia milanese nel 77 e dopo poco lasciammo la grande casa dei nonni materni a Luino per trasferirci in un piccolo appartamento vicino alla stazione di Lambrate.Ho pochi ricordi di quel periodo, ma non posso dimenticare l’odore d’inchiostro di un ciclostile sempre in funzione e il continuo via vai di giovani irsuti e ragazze dalle lunghe gonne a fiori. Seduta sulle spalle di mio padre ho assistito a comizi e manifestazioni di ogni genere. Spesso mi addormentavo in case altrui per risvegliarmi in luoghi ancora diversi, popolati da strani individui. Ho visto i carabinieri distruggere con i calci dei fucili i pochi mobili che avevamo raccolto e sequestrare il nostro ciclostile tra i pianti della mamma. All’inizio degli anni ottanta ci trasferimmo a Roma, perché la mamma aveva avuto un qualche incarico alla Sapienza. Io ho frequentato le elementari in una scuola vicino Campo de’ Fiori, su cui guardava la nostra terrazza. Papà lavorava in un teatro minuscolo ricavato in un sottoscala. Metteva in scena spettacoli per denunciare gli orrori di Pinochet e di Videla. Ricevevamo visite da molte persone che si fermavano a lungo a parlare con lui in spagnolo o in portoghese. La mia stanza puzzava sempre di sigaro. Ad un certo punto cominciammo a subire una quantità incredibile di perquisizioni da parte di ogni genere di uomini in divisa ed in borghese. Spesso trattenevano i miei per lunghi interrogatori.

Avevo da poco compiuto i dieci anni quando, dopo una lunghissima assenza, mio padre tornò a casa , magro e distrutto , come se in quei mesi fosse invecchiato di molti anni.

Mi portò a prendere un gelato e mentre leccavo il mio cono al pistacchio mi spiegò che doveva andarsene lontano e fare in modo che io e la mamma potessimo vivere in pace.

Se fosse restato con noi la nostra vita sarebbe stata un interminabile inferno. Mi strinse forte schiacciando la mia faccia contro i peli del suo petto che spuntavano dalla camicia aperta, baciandomi poi sulla fronte e sulle guance. Ricordo ancora quanto fosse ispida la sua barba , e il fastidio di quella puntura. Mi sembra che ancora le mie guance brucino, perché quello è stato l’ultimo contatto che ho avuto con lui. Andò in India e là rimase . Ora si occupa di bambini, di orfani. Li assiste e li aiuta.

Gaetano Cascione vide nuove lacrime che scendevano da sotto gli angoli delle palpebre socchiuse.

Nonostante il nodo alla gola Amaranta volle concludere la sua storia.

-Rimaste sole, io e la mamma tornammo a Luino, nella grande casa in cui la nonna viveva gli ultimi anni della sua vedovanza. La sua fu una morte lenta e la mamma che l’assistette, senza aiuti oltre a quelli che potevo darle io nei momenti liberi dallo studio, logorò la sua forte fibra nelle lunghe notti di veglia . Avevo diciannove anni quando mia madre ottenne un pensionamento anticipato e mi chiese il permesso di partire per l’India, per riunirsi a mio padre. Io avevo un diploma d’istituto magistrale, frequentavo l’università di magistero ed ero iscritta in una graduatoria che mi consentiva di fare delle sporadiche supplenze. Mi sentivo forte e autonoma. Vendemmo la casa della nonna, comprammo un piccolo appartamento e versammo una bella cifra su un conto corrente intestato a me. Non ci siamo più visti. Franco non mi ha mai permesso di incontrarli. Si è sempre rifiutato di partire con me o di lasciarmi andare ,né da sola, né con la bambina. Li disprezzava senza averli mai conosciuti.Probabilmente il padre lo ha influenzato nel suo giudizio. Ma ora…

- Prima che le sia concesso il permesso d’espatrio bisogna che i dubbi sulla morte di suo marito siano sciolti per cui spero di poter contare sulla sua piena collaborazione.

- Ci conti pure. Però non credo di poterle fornire elementi utili all’individuazione dell’assassino.

-A sua conoscenza, c’era qualcun altro che avrebbe potuto nutrire rancore o desiderio di vendetta nei confronti di suo marito?

- Mio marito per me era ormai una specie di estraneo che mi costringeva a vivere nella sua lussuosa galera. Pertanto non sono al corrente di quello che gli è successo negli ultimi mesi. Ma era un uomo pedante , abitudinario oltre i limiti della noia. Si appassionava solo per il suo lavoro, che funzionava molto bene, per le automobili e gli oggetti di lusso. Non amava né il gioco né altri generi di vizi. Non consumava droghe e non credo che avesse delle amanti. I suoi interessi erano gestiti in parte dal padre in parte da un agenzia di broker di provata abilità. Insomma penso che nessuno lo odiasse come me, anche se a lei non piace che si dica.

-Liti , dissapori cause pendenti?

-Nulla di nulla.

-Problemi con i vicini?

- Niente. Una volta ebbe una discussione con degli stranieri, gente dell’est che stava scaricando nel garage. Lo intralciavano nelle manovre per uscire dal box. Ci fu qualche insulto . Mio marito non sopportava gli extracomunitari. Ma finì tutto lì. È accaduto diversi mesi fa. Poi non li abbiamo più visti.

- Ho capito. Purtroppo queste sue affermazioni sembrerebbero corroborare le tesi di suo suocero che esclude categoricamente l’esistenza di altri sospetti al di fuori del Bacci.

Amaranta corrugò la fronte come se cercasse disperatamente un’altra possibilità.

-Questa mattina mentre ero nell’appartamento di Viale Pisa ho parlato con Bacci al telefono.- Gaetano Cascione si era alzato e sembrava in procinto di andarsene- Non so esattamente per quale circostanza sia avvenuto questo breve scambio di parole. Immagino che lui credesse che in casa ci fossero degli investigatori mandati da suo suocero o suo marito per scoprire qualcosa.

- Sicuro, avevano nuovamente sguinzagliato i segugi ,avevano paura che tra me e lui riprendessero i contatti con l’inizio del nuovo anno scolastico..

- Questo accanimento sembra davvero spropositato.

- L’arroganza e il senso di onnipotenza di Domenico Faggioni non trovano aggettivi adatti per renderne le dimensioni.

- Lei non si sentirà di certo tranquilla in questa situazione?

- Non lo sono per niente e temo soprattutto che escogitino qualcosa per sottrarmi la bambina che al momento è già sotto la loro custodia ovviamente.

- Appena tornerà a casa saranno costretti a riportargliela.

- E chi li costringerà a tanto ?

- Di questo me ne occuperò io e farò anche in modo che il suo domicilio venga sorvegliato e protetto da uomini di mia fiducia.

- La ringrazio.

- Mi urge ancora un’informazione.- disse Cascione, mentre si avvicinava alla porta- Sono convinto che Marco Bacci stia cercando aiuto presso alcuni amici, che finirà inevitabilmente per inguaiare. Lei cosa mi può dire al proposito? Quali nomi mi può fare?

La donna esitò come se avesse timore di sbagliare a fidarsi del suo interlocutore.

- Non si senta obbligata a fornirmi queste informazioni. Lo faccia solo se è convinta che gli unici che possono veramente aiutarlo siamo noi.

Non era del tutto convinta , comunque si risolse a parlare.

- Marco conosce tante persone, ma quando ha veramente bisogno di qualcuno si rivolge a Gigi, il suo vecchio compagno di studi che ora è anche il suo dottore o a Edo , un ex collega che ora si occupa d’arredamento, poi c’è una specie di artista che si chiama Fulvio e abita dalle parti di Porta Genova. Di più non so dirle. Le ripeto non ci siamo visti un granché al di fuori della scuola.

Gaetano consultò velocemente il suo taccuino prima di chiedere :

-Questo Gigi è per caso il dottor Ferrigno ?

- Credo di sì, ma non ci posso giurare.

-Benissimo. Signora la ringrazio e la prego di chiamarmi per qualsiasi evenienza. Mi farò comunque vivo al più presto per sapere quando potrà rientrare a casa. Arrivederci.

Gaetano strinse la mano che la donna gli stava porgendo e si congedò.

Ruvolo sembrava un po’ abbioccato, forse aveva esagerato con i panini e le birre.

- Tutt’apposto, dottò?

- Apposto. Hai pranzato bene?

- Non mi pozzo lamentà. Lei piuttosto , non mi dica che sta andando a pranzo a quest’ora?

-Tranquillo Ruvolo , sto andando dal dottore.




Capitolo sesto
Eduardo Sansone, in sella ad una vissuta city-bike, fece ritorno al suo show-room, cinque minuti prima delle tre.

Era convinto di trovare il suo ospite clandestino ansioso di rivederlo, ma ad accoglierlo ci fu solo un vuoto silenzio.

Subito pensò che Marco non ce l’avesse fatta a resistere alla prolungata attesa e fosse scappato dal bagno, vanificando tutta la fatica che gli era costata quella pedalata di oltre quattro chilometri, con le borse laterali e lo zaino a spalla stracarichi.

Badando a non rovinare gli arredi in esposizione, appoggiò la bici alla porta e si liberò dello zaino.

Andò in bagno, sicuro di trovare il finestrino aperto e una sedia accostata alla parete.

Il finestrino era chiuso e il bagno in perfetto ordine.

- Marco. Sono io. Vieni fuori.

L’esortazione era uscita dalle sue labbra sotto forma di sussurro.

Provò a chiamare una seconda volta, ma produsse poco più che un sibilo

La voce gli era sparita perché gli stava crescendo dentro il timore che Marco si fosse suicidato..

Si sedette su una sedia Acquario in plastica gialla nel cui schienale trasparente erano stati imprigionate delle riproduzioni di pesci tropicali in 3D.

Non voleva trovarlo cadavere, non poteva, non doveva.

- Vaffanculooo, vieni subito fuori!

Gridò in un modo tale da sorprendersi, piacevolmente.

Una delle ante di un quattro stagioni in teck rivestito di finta pelle blu di Prussia ,vero sixties in ogni dettaglio, si aprì per permettere al cranio di Marco di mostrarsi a tutto tondo.

- Uh! Sei tu. Che paura!- disse Marco uscendo dal suo nascondiglio

- Che paura dovrei dirlo io.- replicò Edo senza poter nascondere la stizza.

- Tu ? Di che avevi paura tu?

Marco sembrava cadere dalle nuvole.

- Che te ne fossi andato in un modo o in un altro.

- Se potessi rimarrei qui per sempre.

Il pallore di Marco stonava con le suggestioni tropicali offerte dal suo abbigliamento.

- Avevo una strizza tremenda che fosse la madama. Ogni volta che sentivo una sirena pensavo che fosse finita , che non era servito a nulla , che dovevo dar retta a quel poliziotto e consegnarmi a loro… Non sono per niente certo di aver fatto la scelta giusta…

“ Cazzo - pensò Edo – non mi cambierai idea proprio adesso, dopo che mi sono sbattuto come un pazzo per organizzarti la fuga ? ”

- Però la madama non è venuta.- Edo si rese conto che stava per lanciarsi in una serie di deduzioni azzardate, basate esclusivamente sul suo intuito, che comunque si era spesso dimostrato un’ottima bussola - E ti dirò di più: mi sono sciroppato tutti i notiziari che hanno trasmesso su ogni canale. Si parla dell’omicidio di un giovane commerciante, avvenuto di mattina presto, in Via Villoresi. In un telegiornale regionale hanno menzionato una sparatoria dalle parti di Bande Nere. La polizia ha ferito una persona implicata nell’assassinio. Per ora non sono stati diffusi nomi o identikit..

- Che pensi?- domandò Marco, desideroso di essere guidato.

- Se vuoi scappare puoi tentare di farlo ora. Domani mattina la situazione potrebbe essere diversa.

- Secondo te, se vado in Centrale e prendo un treno non mi fermano?

- No. Credo che tu possa tranquillamente muoverti all’interno dell’Unione Europea..Però più vai lontano, più facilmente verrai controllato. Inoltre diverrà più difficile poterti aiutare. Se resti in Italia, ho già escogitato un sistema per mantenerci in contatto e rifornirti di denaro.

Sopra un tavolino liberty, apparvero un cellulare, un caricabatterie e una carta bancomat.

- Questa carta e questo telefonino – continuò Edo, orgoglioso di aver pensato a tanto – sono intestati a mio nipote Simone. Sul conto corrente per ora ci sono poco più di duemila euro. Nel tempo verseremo altri soldi. Il cellulare usalo per mandare e ricevere sms. Accendilo comunque ogni mattina. Se avessimo bisogno di parlarti ti daremo un orario in cui riceverai la chiamata che verrà effettuata da un telefono pubblico, magari da qualcuno che non conosci, ma sempre a nome dello zio Edo. Chiaro?

- Si, tutto molto chiaro, tranne che non capisco cosa intendi quando dici “noi “.

- Marco, lo sai bene che non sono il tuo unico amico.

- Capisco.

- Alla voce zio, sulla rubrica del cellulare, troverai il pin della carta bancomat. Lo so che odi questi aggeggi.- Edo sventolava il piccolo telefono sotto il naso dell’amico - Ti dovrai arrendere, meglio dipendere da un aggeggio elettronico che da un secondino, no?

- Purtroppo hai ragione tu.

- Se hai con te bancomat o carte di credito intestate a te o a tuoi famigliari, distruggile subito. È uno dei sistemi più semplici per controllare i tuoi movimenti.

Marco estrasse la sua tessera magnetica ed Eduardo prese un paio di grosse forbici dal cassetto della sua scrivania simile all’impronta di un gigantesco pesce del carbonifero.

- Visto che sei un buon ciclista e hai l’aria da americano in gita, fingi di essere un cicloturista. Non ho mai visto una pattuglia fermare un ciclista , se tu fossi nero o assomigliassi ad un magrebbino , magari potrebbe anche accadere, ma con quell’aspetto così wasp, puoi stare tranquillo. Seguimi.

Con un attento slalom tra la mobilia raggiunsero la bicicletta e le borse.

- Bé che te ne sembra? Fin dove pensi di poter arrivare con questo splendido mezzo?

- Fin dove mi lasciano arrivare. C’è un kit per cambiare le camere?

- Guarda, se vuoi ti cambio l’arredamento di trenta camere – Eduardo non aveva previsto questo genere di esigenza - alle camere d’aria non ci sono arrivato. Comunque provvedo subito.

- No grazie, hai già fatto fin troppo, me ne occuperò lungo la strada.

- Non hai ancora visto niente.

Eduardo aprì lo zaino e ne estrasse una mantella , una felpa e tre maglie , un paio di braghette per ciclisti, un maglione a dolcevita blu, tre paia di calze , mutande, coltellino svizzero, torcia elettrica, e un microscopico sacco a pelo, adatto per appendersi sulle pareti di roccia.

Nelle borse appese al porta pacchi c’erano una mini canadese , borraccia , alcuni salamini fatti in casa dai parenti campani, e un caciocavallo, il cui trasporto era stato un vero supplizio offerto sull’altare dell’amicizia , in quanto Eduardo soffriva di caciofobia acuta. Come dalla tasca di Eta Beta uscirono anche una forma di pane di Altamura e alcuni taralli con le mandorle salate e il peperoncino appena sfornati.

- Hai mangiato qualcosa ?- domandò Eduardo sorpreso dall’assenza di reazioni dell’amico.

- No, non ho fame.

- Ti conosco da più di vent’anni e non ti ho mai sentito dire una cosa simile.

Edo era riuscito a far sorridere Marco. Se Marco era un goloso Eduardo era quasi anoressico.

Una volta tanto le posizioni si erano invertite.

Marco si diede da fare per riorganizzare il bagaglio. Volle evitare di caricarsi lo zaino in spalla e quindi fu costretto ad eliminare molte cose .Sistemò gli oggetti scelti nelle borse.

- Così va meglio. Acqua e altre cibarie le comprerò e le consumerò lungo la strada.

- Dove pensi di andare . Ti è venuta qualche idea?

- Si ho pensato che andrò…

- No , aspetta non dire niente.

- Perché?

- Non si sa mai cosa possono inventare per costringere qualcuno a fare la spia.- Eduardo vedeva già facce da Gestapo con impermeabili verdi fare a pezzi la sua preziosa merce.

- Edo, che casino ho combinato!

- Il casino è proprio serio, ma non puoi averlo combinato con i tuoi sogni..

- Come posso convincere la polizia della mia innocenza?

- Qualcosa escogiteremo. Non hai per caso pensato ad un avvocato che ti difenda.

- Non conosco nessuno, a parte il fratello di Fulvio.

- Bene. Lo contatterò. Potremmo anche ingaggiare un investigatore per svolgere un’indagine parallela.

- Non credo che convenga- obiettò Marco- questi investigatori sono tutti ex carabinieri o militari in pensione. Non si schiereranno contro i Faggioni. Piuttosto, mentre ti aspettavo ho scritto due righe per la scuola. Chiedo anche di essere collocato in aspettativa il più a lungo possibile.

- Dammi la lettera, ci penserò io. E non ti preoccupare se perdi il posto ti assumo come facchino.

Risero con tristezza.

Poi si scambiarono una forte stretta di mano accompagnata da un lungo sguardo colmo di affetto, franchezza, solidarietà e gratitudine.

Come Kit Carson e Tex Willer davanti ad uno dei mille bivi delle loro infinite piste.

Edo aprì la porta sul cortile ingombro di mezzi e si diresse verso la strada.

Guardò a destra e a sinistra come se potesse coi suoi occhi miopi verificare la presenza di eventuali nemici e poi fece un cenno di via libera a Marco che inforcò la bici e iniziò la sua lunga pedalata.

- Suerte amigo ! – gli gridò Eduardo vedendolo allontanarsi.

- Muchas gracias- fu la risposta che Marco lanciò nel vento.


La signora Annarosa cucinava i migliori moscardini in guazzetto di tutto il globo terracqueo. Pure gli occhi si sollazzavano nel vedere i corpicini rosei affogati nella salsa purpurea, circondati da crostini dorati nell’olio. I cefalopodi erano stati preparati nel tentativo di far scordare al suo Gino di casa le angustie che lo avevano avvelenato. Mentre scendeva le scale del condominio in cui abitava dal lontano sessantadue, il Commissario Capo decise di accendersi un altro mezzo toscano, ben sapendo che quel gesto poteva essere rimandato di qualche minuto, evitando così d’offendere le narici di tutte le megere che lo tediavano con l’elenco interminabile dei malesseri causati dalla combustione di quel suo piccolo, delizioso, tizzone di tabacco bruno.

Inutile negare che più le bacucche s’inalberavano, più lui ci trovava gusto e in una giornata come quella ci voleva proprio l’aroma forte dei suoi sigari, arricchito da un pizzico di perfidia, per controbilanciare la sovrapproduzione di succhi biliari causati dalla la vicenda dell’omicidio di Franco Faggioni .

Una storia di quelle che avrebbe sbolognato a qualcun altro, se solo il Questore non gliel’avesse affidata personalmente, facendogli intendere che questa era l’occasione per realizzare i suoi sogni.

Era una di quelle storie attraverso le quali capiva quanto era stato bravo e fortunato a costruirsi una famiglia in cui certamente si discuteva tanto, ci si arrabattava per far quadrare i conti, ma alla fine tutti quanti ci si ritrovava stretti in un volemose bene ristoratore, di modo che in fondo si dormiva tranquilli.

Non avrebbe scambiato il potere e il lusso dei Faggioni con la sua trambustata modestia.

Il trillo del cellulare lo riportò all’ hic et nunc.

- Galante, sono Faggioni.

Secco come uno sparo.

- Buonasera … L’avrei chiamata dall’ufficio non appena…

Come Don Abbondio davanti ai bravi, senza nemmeno un messale in cui nascondere la faccia.

- Ve lo siete lasciato sfuggire. È venuto fin sotto il vostro naso e non l’avete preso.

- È incredibile, ma si sono sovrapposte una serie di circostanze..una maledetta sfortuna.

- Fortuna e sfortuna non esistono. Vi siete comportati come degli incompetenti.

Faggioni aveva cominciato con un sibilo e finito con un latrato.

- Le assicuro che …

Non gli fu permesso di proseguire.

- Lei deve assicurare quel farabutto alla giustizia entro domani , altrimenti sarò costretto ad intervenire.

- Come sarebbe a dire ?

Non ci furono chiarimenti.

Il Commissario Capo restò per qualche secondo imbambolato a guardare il display che recitava: fine collegamento con numero non disponibile.Poi con un gesto di stizza interrò il suo toscano in una delle fioriere che abbellivano l’ingresso del condominio, sacrificando alla sua ira un paio d’ibischi aranciati.

“Ma come cavolo fanno i cinesi a vivere in quel tanfo di cavolo?”

Tra i suoi millecinquecento pazienti , il Dott Pierluigi Ferrigno aveva in lista almeno un centinaio di famiglie provenienti dai quattro angoli del mondo con le quali s’intendeva attraverso un esperanto di gesti , ammiccamenti e versi, che il suo cinquanta per cento di sangue napoletano rendeva efficaci il giusto per portare a buon fine anamnesi, diagnosi e prognosi..

La vecchia a cui aveva appena riscontrato un focolaio di polmonite, viveva in un bilocale con una decina di parenti e affini che per tutto il tempo della visita avevano continuato a scaracchiare , a sciabattare avanti e indietro portando giganteschi termos di acqua calda, destinati a riempire delle tazze di vetro, a misura di boccali da birra, in cui affondavano svogliatamente le ben piccole foglie della pianta del te. Nella stanza accanto a quella in cui languiva la malata, c’era un gruppetto di maschi impegnato a litigare attorno ad un tavolo da ma- jong, facevano un tale bordello che per poter auscultare quei poveri polmoni, il dottore era stato costretto a tirar fuori tutta la sua voce da baritono e a smoccolare come un carrettiere per ottenere un paio di minuti di silenzio.

Ora le aveva prescritto antipiretici e antibiotici, premurandosi di responsabilizzare a dovere una ragazza dall’aria sveglia. Gli era sembrato di capire che si chiamasse Gin-gi e che fosse la nipote.

- Io fa lo che dottole vuole. Io va plesto falmacia pel nonna. No paula, io cula bene.

Mentre cercava di raggiungere la sua Toyota parcheggiata su un carraio in una via parallela, si ritrovò a domandarsi quante settimane fossero passate dall’ultima volta in cui si era permesso un intero giorno di riposo. Laddove per riposo s’intendeva semplicemente assenza di malati.

Sotto il tergicristallo della Toyota sventolava una contravvenzione.

Si guardò intorno come un Caronte incazzato, saettando gli occhi di bragia per cercare di intravedere il ghisa ubriaco che non si era accorto della scritta ben in vista sul cruscotto “ MEDICO IN VISITA –

Con quell’espressione furibonda dipinta sul volto incorniciato da una barba lunga e un po’ riccia, sembrava il cerusico di Mefistofele.

Sbuffò infastidito dal contrattempo accorgendosi che la tensione nervosa stava salendo oltre i livelli di guardia. Si accese una MS e cercò di arrestare l’ondata di tic che gli stava montando in tutto il corpo.

Lasciò che i suoi novanta chili per uno e ottantacinque si abbattessero sul sedile della Toyota, attaccò l’autoradio, sintonizzata perennemente su Life Gate, e scagliò la borsa di pelle sul sedile posteriore.

Il ritrovarsi all’interno della propria macchina, tra le proprie cicche che strabordavano dal portacenere e l’odore del fumo rappreso, lontano da cinesi e pizzardoni, lo aiutò a calmarsi.

Doveva andare al comando dei vigili e fare la solita scena fino a che non gli avessero annullato la contravvenzione. Decise di rinviare questa seccatura al primo momento libero della prossima settimana, che equivaleva a dimenticarsene e a dover pagare il doppio della cifra tra un paio di mesi.

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