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Lorenzo Negri L’uomo sbagliato


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Sarebbe venuta a trovarlo in carcere?

O si sarebbero rivisti solo nell’aula del tribunale?

Cosa avrebbe cercato nei suoi lunghi occhi enfiati dalle lacrime?

Lo avrebbe insultato? Accusato ? Maledetto ?

O gli avrebbe creduto e dopo la condanna si sarebbero incontrati nel parlatorio di S. Vittore?

Le mani appiccicate contro il vetro divisorio, gli occhi negli occhi.

Le labbra di Marco che per la milionesima volta compitano non sono stato io.

Il capo di Amaranta che si muove lentamente e ripetutamente: lo so, io lo so.

Labbra serrate. Piombo nel cuore.

No. Non poteva andare così.

Lui era innocente e doveva trovare il modo di dimostrarlo.

Non sapeva ancora come, ma doveva a tutti i costi restare in libertà.

Uscì dal bar e dalla stazione della metropolitana, come se sapesse dove andare e cosa fare di sé.

Ritrovò con enorme piacere il cielo grigio e l’aria pesante della città, ritrovò il rombo onnipresente del traffico, gli alti palazzi come seri volti squadrati.

Dove andare ora? Dove nascondersi?

Dal lato opposto della piazza era in funzione lo sportello automatico di una banca.

“ Cominciamo a vedere se posso avere ancora un po’ di denaro”

La tessera magnetica non era stata bloccata e la macchina gli elargì duecentocinquanta euro.

In primo luogo doveva cambiare abito. La tenuta da jogger non lo avrebbe portato lontano.

Di fronte alla Baggina , c’era un grande magazzino a prezzi popolari. Gli serviva un travestimento.

Non è l’abito che fa il monaco, dice giustamente il proverbio.

Se una tonaca può nascondere un criminale, una tenuta da jogger può nascondere un frate .

“ Un cappuccino! Quel coglione ha sparato ad un frate cappuccino!”

Sprofondato nel sedile posteriore dell’auto che correva verso l’ospedale San Carlo, il Commissario Capo Galante malediva il momento in cui non aveva dato peso alla voce della sua coscienza.

Qualche ora prima, verso le otto di quell’orribile sabato tredici settembre, e c’è ancora chi crede che il numero tredici porti sfiga solo quando cade di venerdì, un campanellino era squillato nella sua testa per dirgli che l’abbinata Di Cristofalo Cascione era cosa da evitare. Che già troppi guai erano capitati quando quei due si erano trovati nello stesso equipaggio.

Ora come se la sarebbe sfangata?

Come affrontare le tv e la stampa?

Far west a Milano Ovest.

Sabato di sangue tra i Navigli e lo stadio.

Chissà quali stronzate si sarebbero inventati pur di dargli addosso.

Non se ne poteva più.

Per fortuna, all’entrata del pronto soccorso non si erano ancora appostati gli avvoltoi .

Piccolo sollievo da non mostrare a nessuno perché in questi casi bisogna esibire durezza, mascelle serrate e sguardi infocati.

Fece appello a tutto il suo repertorio di marzialità nell’atto di uscire dall’auto per infilarsi a lunghi passi, scanditi da sonori colpi di tacco, attraverso il corridoio, in fondo al quale un capannello di agenti si aprì con muta coordinazione per fargli immediatamente ala.

Li scrutò ad uno ad uno cercando senza successo Di Cristofalo o Maglio.



Il generale passò in rassegna le truppe sconfitte, dardeggiando strali di malcelato disprezzo.

Come gli era venuta in mente una frase del genere?

Spalancò risolutamente la porta dai grandi vetri smerigliati.

Accasciato su una panchina d’alluminio un affranto Cascione fissava assorto la parete di fronte al suo naso.

Le sue labbra si muovevano come se stese recitando un rosario.

- Che fai? Preghi?

Con un leggero sussulto Gaetano uscì dal suo stato meditativo e con un sorriso che avrebbe commosso anche il Buddha si alzò e si scusò per l’accaduto.

- È solo colpa mia. Se mi fossi portato dietro il mastino Fra Gregorio non sarebbe ridotto così.

- Pensi che sia molto grave?

- Quando spari a qualcuno è sempre un fatto grave. Quando spari ad un religioso che sta facendo jogging senza nemmeno avergli dato il tempo di mostrare un documento d’identità …

- Questo lo so da me. – lo interruppe Galante - Quali sono le sue condizion? Ha perso molto sangue?

- Parecchio . Ma il problema è l’articolazione del ginocchio. Dev’essere ricostruita.

La pallottola è entrata con un’angolazione tale che ha reciso un grosso vaso, distrutto la rotula e scheggiato le teste di tibia e perone. Ne avrà per un bel pezzo e forse non potrà più correre.

- Sei riuscito a parlare con il frate ?

- Sì. È stato bellissimo.

- Cosa cazzo vuol dire: è stato bellissimo?

- Che è una persona splendida. Nella sua sofferenza è riuscito a non maledirci. Anzi mi ha benedetto. Dice che gli abbiamo fatto provare un dolore simile a quelli di San Francesco e di Padre Pio, quando hanno ricevuto le stimmate. Addirittura si è scusato, come si sentisse in colpa.

- Già, è la prima volta che sento di un frate che smette la tonaca per fare jogging.

-Fra Gregorio mi ha confessato che questa è la via indicatagli dal Signore per sfuggire alle tentazioni. Per questo correva. Per sfogare qualche eccesso di libido.

- Sono tue farneticazioni?

- Sono le sue parole. Quando eravamo sull’ambulanza si è ripreso e nel ritrovarsi ferito e ammanettato alla barella, ha chiesto se lo stavamo punendo per i suoi peccati.

- Quali peccati?

- Lui si occupa della distribuzione dei mobili usati che vengono donati al centro. Di solito li vendono, ma a qualche persona bisognosa li regalano. Ieri sera si è presentata una giovane donna colombiana. Le ha regalato più di quello che avrebbe dovuto. Per tutta la notte ha continuato a sognare i seni tondi della donna su cui era tatuata una grossa farfalla. Una farfalla blu. Mi ha parlato come se fosse in confessionale. Invece di accusarmi mi stava chiedendo un’assoluzione.

Galante era quasi tentato di lasciarsi sfuggire un sorriso.

Speculando sui sensi di colpa del frate e sulle pressioni che avrebbe potuto far esercitare sui francescani, c’erano buone speranze che la notizia non si propagasse.

Di certo in questura qualche talpa aveva già messo in moto i cronisti di nera, ma forse forse…

Gaetano Cascione intuì subito il motivo del cambiamento d’umore.

- Bisogna parlare con i giornalisti. Meglio rilasciare qualche dichiarazione prima che a certi ficcanaso venga in mente di rimestare nella vicenda portando a galla troppa melma.

- Sono d’accordo. Tra l’altro si può sempre sperare che i mezzi d’informazione ci aiutino a catturare l’assassino. Dirò al questore di convocare una conferenza stampa. Faremo circolare le immagini che possediamo. Scateneremo i segugi sulla pista del Bacci. Il maestro assassino. Gli piacerà, ci sguazzeranno, oltre al torbido forse ci daranno qualche elemento utile al nostro fine.

Galante stava già passando dal dire al fare quando vide l’espressione di Cascione.

- Che hai adesso ? Perché mi guardi in quel modo?

- Vorrei che mi dicesse qual è il nostro fine.

- Che diamine, assicurare alla giustizia l’assassino di quel povero ragazzo!

- Fin qui siamo d’accordo. Però non è certo che si tratti di Marco Bacci. Penso che dovremmo prendere in considerazione qualche altro movente oltre all’omicidio passionale.

- Per esempio?

- Una vendetta trasversale. Ci sono molte persone che potrebbero avere coltivato grandi rancori nei confronti di Domenico Faggioni, in Italia e all’estero. Negli ambienti dell’extrasinistra e in quelli della malavita. L’ordine d’uccidere potrebbe essere uscito da qualcuna delle nostre carceri. Perché escluderlo? E delle abitudini della vittima, cosa sappiamo? Ci stiamo facendo manipolare.

-Stronzate! Prendiamo Bacci e poi facciamo tutte quelle cazzutissime indagini che hai nella testa!

L’umore di Galante stava virando nuovamente sul tempestoso.

- Ascolti, provi a rispondere a questa domanda: perché il Bacci ha telefonato a casa sua?

Sul viso di Galante si disegnò un corrugamento di pelle stanca .

- Hai detto che vi ha visto dalla strada e voleva sapere chi c’era in casa sua, non è andata così?

- Certo che è andata così! – rispose Cascione con soddisfazione- Ma l’assasino sa già chi è andato a cercarlo. Non ha bisogno di telefonare per chiedere conferma

Galante aveva ascoltato tutto il discorso del suo Vice con gli occhi a terra .

Restò ancora qualche secondo immobile con il corpo contratto e all’ìmprovviso si tirò un gran pugno sulla coscia sinistra.

-Accidenti a te!- tuonò- Vuoi sempre aver ragione! Porca puzzola!

Qualche metro più avanti la faccia preoccupata di un infermiere sbucò dallo spiraglio di una porta .

- Tutto bene? – domandò l’infermiere con esitazione.

Gaetano gli rispose alzando affermativamente un pollice.

- Fanculo.- sibilò Galante che vedeva la casetta ad Ischia sgretolarsi tra i pernacchi dei parenti.

- Cosa vuoi che faccia? – sbuffando .

- Manteniamo il riserbo, diamo alla stampa solo le notizie certe e non facciamo il nome di Bacci. Descriviamo il motociclista così come l’hanno visto i testimoni e non aggiungiamo altro. Intanto indaghiamo a fondo sulla vita della vittima. Mettiamo sotto controllo tutto il giro di persone, amici famigliari colleghi, che gravitano attorno al Bacci. Non è un professionista , si tradirà presto. Diamo a tutte le pattuglie l’indicazione d’identificare ogni persona che possa assomigliare al nostro uomo.

- Le cose andranno diversamente da come te l’immagini. Sei un enorme coglione se pensi che Domenico Faggioni non sia in grado di far circolare il nome del tuo maestrino in tutte le agenzie di stampa. Le sue foto potrebbero essere già apparse in qualche notiziario. Il tuo presunto innocente è già condannato. Il suo linciaggio è già in atto.

- Lo so, ma non vi voglio partecipare né come poliziotto né come uomo.

- Merda schifa! Avrai quello che chiedi, ma si scatenerà un inferno. Avremo tutti contro.

Gaetano Cascione respirò sollevato.

Galante abbozzò un mezzo sorriso.

- Grazie capo, ora mi sento nuovamente un ufficiale di polizia giudiziaria, non più una marionetta.

- Piantala. Piuttosto cosa ti serve prima di tutto?

- Il suo cellulare.

- Perché ?

- Il mio ha esaurito la batteria. Devo avvisare mia moglie che non posso pranzare con loro.

- Chittemuerto.


Le undici e mezza erano passate da qualche minuto.

Eduardo Sansone stava sorbendosi con tutta calma il suo terzo caffè della giornata, il primo però servito proprio alla napoletana , nel vetro e con uno schizzo d’anice.

Quasi senza volerlo, pensava a come avrebbe potuto investire quei dodicimila euro che aveva appena incassato vendendo ad una bella signora un salotto anni quaranta.

Da qualche anno Eduardo aveva aperto uno show–room in Via Savona, proprio di fronte alle vetrine del bar nel cui interno stava seduto a leggiucchiare La Repubblica, sorseggiare la sua bevanda e al contempo controllare l’arrivo di nuovi clienti.

Era molto orgoglioso di essere il proprietario dell’ampio salone in cui vendeva articoli di modernariato restaurati, sotto la sua direzione, da un gruppo di ragazzi provenienti da varie comunità d’accoglienza, mossi dal desiderio d’imparare un mestiere.

I Servizi Sociali gli fornivano spazi, attrezzi e finanziamenti come contributo a questa iniziativa finalizzata all’inserimento lavorativo di ragazzi problematici.

Prima di dedicarsi a quel genere di commercio, anche Eduardo aveva fatto parte della categoria degli insegnanti elementari, ma dopo venticinque anni di carriera era arrivato a quel punto di saturazione in cui, per non perdere la stima di se stessi, si è come costretti a dare un calcio alle sicurezze di un impiego statale e intraprendere una nuova attività.

Dopo qualche difficoltà iniziale, le cose si erano messe a girare nel senso giusto.

La via si era riempita di locali e ristoranti che attiravano, soprattutto nelle ore serali e notturne, un buon numero di persone in cerca di piacere e divertimento, molte delle quali si fermavano volentieri davanti alle vetrine illuminate che esibivano arredi, elettrodomestici, giocattoli, opere di grafici e pittori che avevano creato lo stile e l’immaginario italiano dall’inizio degli anni trenta alla fine dei sessanta.

Qualcuno dei gaudenti notturni tornava negli orari d’apertura alla ricerca di qualcosa che potesse dare un tocco d’originalità al proprio studio o alla propria abitazione.

Eduardo riusciva a navigare con destrezza in quell’ambiente. Intuiva i desideri della sua sempre più vasta clientela e frugava l’Europa alla ricerca di pezzi sempre più rari.

L’uomo che si stava fermando davanti alle sue vetrine doveva essere un americano.

Lo intuiva dalla camicia sgargiante, forse messicana, sulla cui stoffa leggera erano stampate file di cactus alternate a serie di soli gialli, onde di rossi serpenti e silhouette di bianche piramidi a gradoni.

La testa del gringo era completamente rasata e quei grossi occhiali scuri sul viso rotondo lo facevano rassomigliare ad un Charlie Brown che avesse rubato a Snoopy il travestimento da Joe Falchetto.

D’acchito fece finta di non averlo visto.

Gli americani non gli erano simpatici fin dai tempi della guerra fredda.

Figuriamoci ora.

Però nel giro di pochi giorni si sarebbe tenuta un’asta fallimentare in cui sarebbero stati messi all’incanto diversi pezzi davvero interessanti..

Gli yankee di solito comprano volentieri e pagano qualsiasi prezzo senza discutere. Cash.

Chissà se anche in America il suo indirizzo girava già nelle riviste e nei siti specializzati.

Si costrinse ad abbandonare il suo comodo tavolino ed uscì incontro al potenziale cliente.

L’inglese gli era sempre stato antipatico.

Quando si affiancò al turista evitò il good morning e scelse deliberatamente il nostrale buongiorno.

- Ciao Edo- gli rispose una voce triste e arcinota.

Dovette attendere che il finto turista si levasse gli occhialoni scuri per riuscire a riconoscere in quell’individuo lo sguardo e la corporatura di Marco Bacci.

I due si frequentavano da venti e passa anni. Ultimamente Eduardo aveva aiutato l’amico a rimanere a galla nella difficile situazione in cui versava.

Nonostante tutto gli era impossibile riconoscere Marco, non tanto per l’abbigliamento stravagante quanto per la completa assenza di peli sul volto.

- Ti avevo scambiato per un americanass. Vuoi bere qualcosa ? Andiamo al bar o preferisci entrare?

Eduardo aveva già capito che l’amico doveva avere qualche particolare ragione per decidersi a rinunciare a quella barba che dai sedici anni in poi lo aveva sempre contraddistinto.

-È meglio se entriamo.

Non solo la voce era più triste del solito, anche il respiro sembrava difficoltoso, come se un grosso peso gli opprimesse il petto.

- Entra, è aperto.

Eduardo spinse la porta e lasciò il passo all’inaspettato visitatore.

Lo avrebbe investito con una valanga di domande, ma giudicò più delicato tergiversare e lasciare all’altro decidere quando e come sbottonarsi.

- Mi sembra una vita che non ci si vede. Stai sempre tappato in casa o a correre da solo, rifiuti gli inviti…quanto tempo è passato dall’ultima volta che sei venuto qua? Una vita eh?

Silenzio e occhi bassi.

- Sai chi mi sembri? Mago Merlino di ritorno da Honolulu! La spada nella roccia , Walt Disney… non dirmi che ti sei dimenticato quella scena…

- Posso sedermi ? – chiese Marco con un filo di voce.

-Certo, scegli tu dove. Poltroncina anni cinquanta? Divanetto inspirato allo stile di Dalì? Seggiola per autosodomia. Non ci manca nulla, tranne le cose comuni e banali.

Marco si lasciò andare su un facsimile di triclinio concepito negli anni venti da un nostalgico della Roma imperiale.

Eduardo sospirò sollevato quando vide che il telaio di ciliegio aveva assorbito il peso di quei novanta chili abbattutisi sulla delicata struttura, prese una Thonnè laccata di rosso e si sedette a cavalcioni appoggiando i gomiti sullo schienale tondeggiante.

Si guardarono per qualche istante restando entrambi in silenzio.

Gli occhi scuri e latini di Eduardo coperti da invisibili lenti a contatto.

Gli occhi chiari e nordici di Marco velati da una palpabile angoscia.

D’istinto Eduardo avrebbe buttato lì un che succede?

Per vincere l’imbarazzo preferì lanciarsi nella consolidata imitazione del bauscia milanes che grazie al contrasto con le sue evidenti origine campane garantiva un sicuro effetto comico.

-Alura , cume la va, cari el me sciur?

Nemmeno un abbozzo di sorriso.

- Malissimo, sono ricercato per omicidio.

Per qualche ragione inspiegabile, Eduardo aveva connaturata al carattere la capacità di aumentare la sua impassibilità in maniera direttamente proporzionale all’incresciosità delle situazioni in cui si trovava.

Appena udita la parola omicidio, qualcosa nel metabolismo di Eduardo mutò, i battiti cardiaci si rallentarono, la temperatura corporea si abbassò di un paio di gradi, la dimensione temporale si dilatò, tutto intorno a lui il mondo cominciò a girare ad un ritmo più lento.

- Chi hai ucciso ?- domandò con la stessa calma con cui un altro avrebbe potuto chiedere: qual è il tuo romanzo preferito?

-Nessuno, per lo meno non nella realtà.- mentre parlava Marco si guardava le mani- Però ho sognato tante volte di uccidere una persona che poi è stata realmente assassinata.

- Chi è questa persona ?

- Il marito di Amaranta. Franco Faggioni.

- Credevo che questa storia fosse finita da un pezzo.

- Sono mesi che non le parlo. Ho rispettato le loro richieste. L’ho lasciata alla sua famiglia e credo che lei non me l’abbia perdonato. Ma loro continuano a tenermi sotto controllo. Sono venuti anche a scuola. L’altra notte. Credevo che fossero loro le persone che ho visto quando ho telefonato a casa mia.

- Alt ! Non ti seguo più. Se ho ben capito, tu ritieni che nonostante la tua relazione con Amaranta sia completamente finita, loro continuino ad accanirsi con te.

Marco annuì.

La voce di Eduardo era una specie di sussurro monocorde, neutra, incolore, e Marco se la sentiva scorrere addosso come un’acqua che diluiva il suo panico e lo calmava.

- Poi hai detto che c’era qualcuno in casa tua, ma non ho capito ne’ quando ne’ chi.

- Stamattina, verso le dieci, tornavo dalla corsa, arrivavo da Piazzale Siena e ho visto sul mio balcone un uomo, pelato come me e te, che faceva cenno ad un altro, uno con tanti capelli ricci e scuri, lo invitava a salire. Mi sono fermato qualche istante tra le macchine parcheggiate sotto gli alberi. Ho visto entrare il ricciolone dal portone, parlare con la portinaia e dirigersi verso la mia scala.

Sono corso via, ma un passo dopo l’altro mi montava una rabbia tremenda. Volevo quasi tornare indietro e sorprenderli con le mani nel sacco. Poi ho avuto paura che mi potessero fare del male e allora sono sceso nella stazione di Gambara per chiamare la polizia. Ma mi son detto che cane non mangia cane. Sarebbe stato inutile. Così ho provato a telefonarmi pregando di non aver staccato il telefono la sera prima. Magari avrebbero risposto per vedere se era lei chiamarmi., ne avei approfittato per fargli sapere che ne avevo abbastanza dei loro soprusi, che il gioco doveva cambiare. Invece ha risposto quel poliziotto…mi stanno cercando, vogliono arrestarmi, ma io sono innocente Edo, lo posso giurare, quell’uomo l’ho ucciso centinaia di volte ed in modi molto diversi tra di loro, ma solo in sogno.

- Hai un alibi?

- Non so neanche quando e dove è stato ammazzato. In ogni caso sono sempre stato da solo.

- E così ti sei travestito da Americano a Milano e ti sei rapato. Devo dire che sei stato abile, non è facile riconoscerti. Per me è stato impossibile, non so se un altro con gli occhi migliori dei miei potrebbe riuscirci meglio.

- Edo tu lo sai che sono innocente vero?

La domanda esigeva un’immediata risposta affermativa .

- Certo che lo so.- poi si prese un momento di riflessione – anche se bisogna ammettere che non mi stupirei nemmeno del contrario.

- Sono cambiato Edo, non sono più quello di una volta, sono uno sconfitto che si è deciso ad imparare qualcosa dai propri errori e che sta cercando di rimettersi in piedi. Ne ho avute abbastanza.

- Spero che tu sia sincero. In ogni caso, non mi tocca il ruolo di giudice. In questo momento sono solo un tuo amico e spero di poterti aiutare. Ora dimmi quali sono le tue intenzioni.

- Mi hanno chiesto di consegnarmi, ma non voglio farlo, bisogna che prima trovino il vero colpevole, altrimenti il mio sarà peggio di un caso Carlotto, sarà un ergastolo sicuro. Se per incastrare Sofri hanno dovuto inventarsi Marino, per incastrare me non avranno bisogno nemmeno di quello, la famiglia e le spie dei Faggioni fabbricheranno qualsiasi genere di prova falsa.

- Dove pensi di nasconderti e cosa pensi di fare?

- Non riesco a pensare nulla di preciso, ho una gran confusione in testa.

Eduardo si alzò, afferrò un grosso mazzo di chiavi e si diresse verso la porta.

- Per qualche ora potrai restare qua dentro e cercare di raccogliere le idee. Ora chiudo il negozio e me ne vado. L’ultima sala non ha vetri. Lì non ti vedrà nessuno. Cercherò di studiare un piano per la tua fuga e vedere se posso trovarti un nascondiglio sicuro. Vuoi che faccia arrivare dei messaggi a qualcuno?

- Fai in modo che i miei genitori sappiano che sono vivo e innocente, per favore.

- Sarà fatto. Posso fidarmi a lasciarti qua da solo?

- Sì, fidati. Proverò anch’io a pensare qualcosa.

- Spremiamoci.

Marco sentì la chiave girare nella serratura.

Realizzò di essere già un recluso, imprigionato dentro un incubo in cui non s’intravedevano via d’uscita.



Capitolo quinto
La Clinica San Giuseppe era molto diversa dai vetusti padiglioni del Policlinico, con cui il vicecommissario Cascione aveva avuto modo di familiarizzare nel corso dell’ultimo anno, ma i malati avevano dipinto sul volto l’identica espressione di composta sofferenza .

Amaranta Blanquez era ricoverata al quinto piano, stanza 519.

Mentre saliva nell’ampio ascensore, il Vice Commissario Gaetano Cascione si ritrovò a calcolare quante volte avrebbe potuto entrarci l’asfittica cabina in cui si era rinchiuso quella stessa mattina per raggiungere l’appartamento del Bacci. Almeno sei volte, valutò.

Nell’istante in cui si aprirono le porte, l’agente Ruvolo lo riconobbe e si alzò in piedi tirando le estremità della giacchetta per ridare una parvenza di presentabilità al goffo completo grigio, rigorosamente non stiro, che dichiarava la sua appartenenza alle forze dell’ordine in maniera ancor più esplicita dell’uniforme d’ordinanza.

Galante aveva detto A Ruvolo che doveva sorvegliare e proteggere la signora con discrezione.

- Come va?- domandò Gaetano Cascione in tono confidenziale.

- Tutto tranquillo. Non è venuto ancora nessuno, a parte una specie di domestica negra che le ha portato dei vestiti e se n’è subito fuggita. Lei non si è mossa dalla stanza. Le hanno portato il pranzo e la signora l’ha proprio schifato. Dal profumo sembrava anche roba buona, non la solita sbobba degli ospedali. Mo sarei magnato io, mo sarei

- Hai fame?

- ‘Nzomma

La faccia di Ruvolo sembrava la maschera di Pulcinella quando si profila un piatto di spaghetti.

- Vai a mangiare qualcosa. Senza fretta. Ora ci sto io. Basta che torni verso le tre.

- Dottò, lei è davvero gentile.

- Piantala con le fesserie e vai Fila.

Ruvolo si fece inghiottire dall’ascensore e Cascione bussò alla stanza 519.

Non ci fu risposta.

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