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Lo svolgimento del processo


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Quanto agli altri due episodi narrati da Giuseppe Marchese, legati a notizie di “soffiate” di Contrada che Michele e Salvatore Greco avrebbero girato a Filippo Marchese (l’allontanamento da Villabate di Vincenzo Marchese, e la fuga di Vincenzo, Filippo e dello stesso Giuseppe Marchese dalla casa dei Bagnasco a seguito dell’omicidio di Gioacchino Tagliavia), a pag. 158 del volume II dell’Atto di impugnazione è stato unicamente dedotto che in nessuno dei due casi vi erano state perquisizioni, così come non vi erano state per la villa di Borgo Molara, abitata dal Riina. Paradossalmente, dunque, assumono i difensori appellanti <> - sempre secondo il pentito - in una occasione aveva dubitato che Contrada portasse notizie “buone”, cioè vere ed utili (pag. 34 trascrizione udienza 22 aprile 1994).

Il rilievo non è condivisibile.

Ed invero, proprio nel frangente richiamato dalla Difesa, il collaborante aveva riferito che suo zio Filippo Marchese aveva fugato i suoi dubbi rappresentando di avere avuto rassicurazioni dai Greco: <>.

Del resto, anche la possibilità di apprestare le necessarie cautele costituiva un vantaggio per il sodalizio mafioso, e ciò a prescindere dal fatto che all’indicazione di possibili operazioni di Polizia facesse seguito la loro successiva attuazione, ed a prescindere dalla precisione delle notizie (anche nel caso della fuga da Villabate, peraltro, la soffiata aveva riguardato la zona, non specificamente l’abitazione), o ancora dalla loro documentazione.

Senza dire che il Tribunale ha dato conto con specifico riguardo alla fuga da casa Bagnasco, del riscontro costituito dalla telefonata anonima al 113, con la quale si indicavano in Filippo Marchese, "Pinuzzu" Calamia e Carmelo Zanca gli autori dell'omicidio Tagliavia (pagine 1040 e 1041) .

Segnatamente, con la relazione di servizio in data 5/9/1981, a firma di Antonino Raspanti, agente di P.S. in servizio presso la Centrale Operativa di Palermo, allegata al rapporto giudiziario del 27/8/1982 concernente la scomparsa di Gioacchino Tagliavia, si comunicava che, alle ore 19,57 del giorno 5 Settembre 1981 era pervenuta al centralino del “113” una telefonata anonima che indicava, quali autori dell'omicidio, Giuseppe Calamia, Filippo Marchese ed i fratelli Pietro e Carmelo Zanca (pag. 1040).

In questo dibattimento la Difesa ha dedotto che il collaborante poteva essere stato a conoscenza della relazione - ed avervi costruito artatamente la sua accusa - perché imputato nell’ambito del medesimo procedimento, del quale, dunque, poteva avere letto gli atti.

Ora, che Giuseppe Marchese, - non menzionato tra i soggetti denunciati con il rapporto del 27/8/1982 - sia stato successivamente processato per l’omicidio Tagliavia, è un dato che deve senz’altro presumersi: il collaborante, infatti, ha confessato la propria diretta partecipazione ad esso, unitamente ad altri soggetti, e lo ha collocato cronologicamente verso la fine (Ottobre- Novembre) del 1981 (cfr. pagine 32 e 68 trascrizione udienza del 22 aprile 1994 ).

Tale circostanza, tuttavia, non elide la valenza di riscontro del documento, e cioè la sua funzione di conferma dell'attendibilità del dichiarante. Non è emerso in alcun modo, invero, che lo stesso Marchese, peraltro, palesemente incolto e quindi necessariamente poco versato nello studio delle carte processuali, avesse preso visione di tutti gli atti del processo relativo a fatti dei quali si era comunque autoaccusato.

In ultimo, la Difesa (pag. 150 vol. II dei motivi di appello) ha dedotto che ulteriore <> sarebbe <

Infatti, il rapporto giudiziario del 7 febbraio 1981 sull’omicidio del dott. Giuliano fu redatto personalmente dal dott. Contrada e fu il frutto di un lungo ed impegnativo lavoro investigativo che il dott. Contrada nella qualità di Dirigente della Criminalpol (incarico ricoperto alla data 7.2.1981) non era tenuto od obbligato a fare, non essendo il responsabile della polizia giudiziaria di Palermo, che era allora il Capo della Squadra Mobile dott. Giuseppe Impallomeni.

Il dott. Contrada fece quel rapporto perché sentiva forte il dovere morale di dare tutto il suo contributo al fine di far luce, per quanto possibile, sull’omicidio del suo collega con il quale aveva lavorato sedici anni e con il quale aveva avuto rapporti fraterni. Contributo consistente nel delineare il quadro criminale in cui si era maturato il delitto, le motivazioni, i mandanti, gli esecutori materiali e che dette la possibilità di evidenziare il collegamento con l’omicidio del Cap. CC. Basile e di comprendere l’evoluzione in atto della mafia, che andava attuando sistemi terroristici nei confronti delle Istituzioni e degli uomini che le rappresentavano. Ma non solo. Nel rapporto si delineava il sorgere di quel gruppo feroce e sanguinario che costituiva il primo nucleo aggregato di quello che sarà poi il “clan vincente o corleonese”; infatti, di lì a poco (tra aprile e maggio 1981) scoppierà la “guerra di mafia”, iniziata con gli omicidi Bontate e Inzerillo>>.

Il Tribunale si è fatto carico di questo argomento e ne ha evidenziato i limiti alle pagine 1045-1051 della sentenza appellata.



Segnatamente, ha evidenziato che, nel rapporto del 7 febbraio 1981, che a detta del suo stesso estensore (2° foglio) <<delinea e rappresenta le attività investigative che alla data del 21 luglio 1979 occupavano maggiormente il capo della Mobile e che, per i motivi che saranno via via enunciati e sviluppati, si ritiene costituiscano le premesse e le cause della sua uccisione>>, erano stati menzionati:

  • il contenuto dei rapporti di denuncia a firma del dott. Boris Giuliano in data 30/4/1979-2/5/1979 e 6/6/1979 a carico di Spitalieri Rosario, Greco Giovanni, Greco Giuseppe, Mondello Giovanni, Marchese Pietro e Marchese Gregorio, esponenti delle famiglie mafiose di Corso dei Mille e di Ciaculli;

  • gli arresti di Marchese Antonino e Gioè Antonino e la scoperta del “covo” di via Pecori Giraldi;

  • l’intuizione dello stesso Giuliano, correlata a tale scoperta,dell’ascesa dei “corleonesi”;

  • il fatto che <> (cfr. ff. 38 e ss. rapporto cit.);

  • la circostanza che quest’ultimo, a sua volta, <>> (pag. 1050 della sentenza appellata);

  • la circostanza che tali risultati erano stati ulteriormente consolidati con il rapporto giudiziario del 16/4/1980 del Nucleo Operativo dei C.C., <> (pag. 1050 della sentenza appellata).

In effetti, più di quanto non abbia fatto il primo giudice, deve darsi atto che, nel rapporto a firma del dott. Contrada in data 7 febbraio 1981 si coglie un contributo personale dell’odierno imputato, estrinsecatosi:

  • in una visione di sintesi dei collegamenti enucleati in precedenti rapporti della P.S. e dell’Arma dei Carabinieri;

  • nella valorizzazione di episodi specifici come le minacce al dott. Paolo Procaccianti, medico legale incaricato dell’esame dei guanti di paraffina prelevati ai presunti esecutori materiali dell’omicidio Basile (fogli 92 e 93 del rapporto), collegato all’omicidio Giuliano;

  • nella netta indicazione dei soggetti responsabili come appartenenti <<allo stesso gruppo di mafia, composto da soggetti provenienti da famiglie di mafia diverse, ma tradizionalmente legate da vincoli di alleanza, cooperazione, interscambio di affiliati per singole azioni criminose..>> (cfr., ibidem foglio 80, foglio da 84 ad 87) e dei moventi dell’omicidio Giuliano.

Tuttavia, anche se il rapporto del 7 febbraio 1981 non è un elaborato meramente compilativi, la qualità e la mole dell’attività investigativa in cui aveva trovato la sua causale l’omicidio Giuliano ne esaurisce sostanzialmente il contenuto.

Oltretutto, la condotta di agevolazione ascritta all’imputato era necessariamente legata a situazioni contingenti che potevano permettere la trasmissione di qualche notizia di interesse del sodalizio mafioso ma non una palese, costante e non dissimulabile attività informativa.

Vanno,dunque, condivise le considerazioni espresse a pag. 1051 della sentenza appellata, così enunciate:

<< Le pervicaci e brillanti indagini compiute dal dott. Giuliano e dal cap. Basile a carico dell’unico pericoloso aggregato mafioso facente capo ai corleonesi, ragione stessa della loro eliminazione ad opera di “Cosa Nostra”, non potevano consentire in alcun modo l’omissione di una denuncia nei confronti di quei soggetti che dall’operato investigativo di quei funzionari avevano subito gravi conseguenze.

Tale comportamento, inesigibile da parte della stessa organizzazione mafiosa, avrebbe certamente scoperto il ruolo svolto dal dott. Contrada che doveva essere quello di assicurare la latitanza agli appartenenti a “Cosa Nostra”, comunicando loro le notizie in suo possesso su operazioni di Polizia che avrebbero potuto comportarne l’arresto, così come hanno concordemente riferito i collaboratori di giustizia esaminati>>.

In conclusione, non ha fondamento il costrutto difensivo che inquadra le propalazioni del Marchese, in quanto coordinate con quelle di Gaspare Mutolo, nell’ottica di un complotto ai danni dell’imputato; tesi che gli stessi difensori escludono di avere propugnato (si vedano, per esempio, le Brevi Note depositate il 2-5-01: << né l’imputato né la sua Difesa hanno mai, in questo processo,avanzato o sostenuto tesi di “complotto”>> ; <<la propalazione di Marchese non è stata qualificata elemento integrante il presunto “complotto”>>) e che, invece, come rilevato dal Procuratore Generale nella memoria depositata il 14 novembre 2005, <<emerge a ogni piè sospinto dalle dichiarazioni del prevenuto e dal modo di conduzione del controesame dei collaboranti>>.

Per concludere la disamina delle censure riguardanti l’attendibilità ed il contributo di Giuseppe Marchese, va segnalato il rilievo svolto a pag. 122 del Volume I, tomo II, dei Motivi nuovi, con il quale si assume che sarebbe stata smentita l’affermazione del Marchese, de relato del cognato Leoluca Bagarella, secondo cui Salvatore Greco detto il “Senatore”, fratello di Michele Greco, sarebbe stato massone26.

Il Marchese, in effetti, non ha fatto alcun riferimento alla persona dell’imputato, né può escludersi che la sua fonte sia incorsa in errore.

I difensori appellanti, tuttavia, hanno ritenuto che egli abbia voluto insinuare il dubbio di una appartenenza o di una contiguità massonica dell’imputato, in quanto informatore dei Greco.

Orbene, all’udienza del 10 maggio 1994 il teste Luigi Bruno, del centro D.I.A. di Palermo, ha riferito di avere verificato che nella via Roma esisteva “una sede distaccata della Massoneria”, dove nel 1986 erano state effettuate delle perquisizioni ed erano stati acquisiti gli elenchi degli iscritti, tra cui Salvatore Greco detto “l’ingegnere”, omonimo di Salvatore Greco detto “il senatore” (pag. 75 della trascrizione).

A questa stregua, il “de relato” del Marchese - peraltro riguardante un aspetto assolutamente marginale delle sue dichiarazioni - parrebbe smentito, ma - in realtà - così non è.

Il predetto teste, infatti, ha preso in considerazione l’indagine condotta nel 1986 della Criminalpol, che aveva interessato i locali di una loggia massonica ubicati a Palermo, nella Via Roma, dove soleva recarsi un tale Lo Cascio.

Giuseppe Marchese, per contro, si è riferito ad un periodo antecedente al 1986, coincidente con la sua frequentazione del fondo “Favarella” dei Greco, e di auge di costoro. Egli, inoltre, al di là della generica indicazione di appartenenza del “senatore” alla massoneria, riferitagli dal cognato in modo altrettanto generico, non ha menzionato specifiche logge, né una sede ubicata in via Roma.

Nel riferire, poi, degli accertamenti condotti sulle eventuali frequentazioni massoniche dell’imputato, il teste Bruno ha dichiarato che era stato seguito il metodo del raffronto tra i nominativi annotati nelle agende dell’imputato ed <>, precisando che questi ultimi <<non sono tutti>>, e cioè che gli elementi di conoscenza in suo possesso non erano esaustivi (pag. 54 della trascrizione).

D’altra parte, il controllo sulle agende non avrebbe mai potuto condurre ad alcun risultato utile circa l’affiliazione massonica del “senatore”, essendo impensabile che il suo nome fosse annotato nelle agende dell’odierno imputato.

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La positiva verifica della attendibilità di Giuseppe Marchese, operata dal giudice di primo grado, ha ricevuto ulteriore alimento dalle dichiarazioni rese - in questo secondo dibattimento di appello - dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, che, citato come imputato in reato connesso, avendo rinunciato alla facoltà di non rispondere è stato escusso nella qualità di testimone assistito all’udienza del 30 gennaio 2004.



Rispondendo alle domande del presidente del collegio sulle ragioni della sua collaborazione, iniziata il 15 giugno 2002 (pagina 89 e segg. della trascrizione), il Giuffrè, dopo avere dato una spiegazione etico - solidaristica della sua appartenenza a Cosa Nostra ( <<A me hanno insegnato che nel momento in cui un amico aveva di bisogno, bisognava lasciare la propria moglie che stesse partorendo per andare a soccorrere l'amico>>), ha dichiarato di avere maturato dopo due mesi di regime carcerario ex art. 41 bis O.P., seguito al suo ultimo arresto, un percorso di revisione delle proprie convinzioni, legato alla constatazione che all’interno del sodalizio gli interessi economici avevano soverchiato qualunque legame e valore personale.

Per quanto qui rileva, il Giuffrè ha riferito:



  • di avere fatto parte di “Cosa Nostra” sin dal 1980, da affiliato alla famiglia mafiosa di Caccamo, compresa nell’omonimo mandamento;

  • di avere inizialmente svolto il ruolo di accompagnatore e di uomo di fiducia del capo famiglia e capo mandamento di Caccamo Ciccio Intile, che, agli esordi della sua militanza, gli aveva presentato, nella loro tenuta di “Favarella”, Michele Greco e Salvatore Greco;

  • di avere altresì conosciuto, sempre per il tramite dell’Intile, vari esponenti mafiosi di Bagheria, tra cui Leonardo Greco, il quale, in occasione di una riunione tenuta nel 1981 in quella località, dopo lo scoppio della guerra di mafia, all’interno dei suoi locali adibiti a deposito del ferro27, aveva perorato ed ottenuto il passaggio dello stesso Intile con i “Corleonesi” di Bernardo Provenzano;

  • di avere seguitato ad accompagnare l’Intile a riunioni di mafia tra esponenti dei mandamenti di allora (<<Brusca Bernardo, Totò Riina, Pippo Calò e tanti altri, tanti altri personaggi>>) ed anche ad incontri con Salvatore Riina, pur limitandosi e salutare i presenti e senza prendervi parte;

  • di avere conosciuto,nel 1983, alcuni rappresentanti provinciali della Sicilia (Giuseppe Madonia, Bernardo Brusca, Michele Greco, Carmelo Colletti, un fratello di Santapaola) in occasione di una riunione tenutasi a Caccamo in una casa di campagna di suo padre, nella quale era stato << sancito….. il passaggio di potere da Michele Greco a Salvatore Riina>>;

  • di avere, dopo l’arresto dell’Intile nell'83 - ’84, accompagnato il suo successore Diego Guzzino, anche ad incontri con Bernardo Provenzano, sino all’arresto del Guzzino stesso, tra fine ’85 ed o 86;

  • di essere stato successivamente invitato dall’Intile, all’epoca ancora in carcere, ad occuparsi del mandamento di Caccamo, compito dapprima ricoperto “ufficiosamente”, e, dal 1987 formalmente;

  • di essere entrato dal 1986, in modo particolare, in contatto <<con Bernardo Provenzano a solo>>.

A domanda della Difesa, il Giuffrè ha precisato di non avere mai chiesto o saputo dove fossero i rifugi dei capi di Cosa Nostra, in ciò riscontrando l’indicazione del Marchese secondo cui il covo di Borgo Molara di Totò Riina era conosciuto da pochissime persone della sua cerchia più ristretta <<perché andare a chiedere o sapere, senza un motivo plausibile, quale fosse il covo di Riina o quale fosse il covo di Provenzano, mi sembra che non avevo né l'autorità e nemmeno il motivo…. >> (pag. 74 trascrizione udienza 30 gennaio 2004).

Ha chiosato tale affermazione citando un pregnante aforisma coniato da Salvatore Riina: <<la curiosità è l'anticamera della “sbirritudine”>> (cioè della delazione, n.d.r.) e spiegando che, da curiosi, <<si moriva>>.

Per ciò che riguarda l’odierno imputato, come risulta dalla nota in data 3 marzo 2004 del Procuratore della Repubblica di Palermo - Direzione Distrettuale Antimafia, in sede di formazione del “Verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” ex art. 14 legge 13 febbraio 2001 n. 45, al Giuffrè non è stata posta alcuna domanda riguardante Contrada.

Tale circostanza spiega perché soltanto in dibattimento - dopo avere esordito dicendo di non ricordare fatti specifici - il collaborante abbia dapprima genericamente evocato la veste di funzionario di Polizia <> dell’imputato, dicendone di averne avuto notizia negli anni ottanta del novecento, e quindi abbia precisato i propri ricordi, ancorandoli all’epoca in cui egli stesso era stato custode della latitanza - trascorsa a Caccamo (pag. 57, ibidem) - di Michele Greco, imputato nel primo maxi processo di Palermo e catturato il 20 febbraio 198628.

Il Giuffrè - dando atto che dell’episodio dell’allontanamento di Riina da Borgo Molara la stampa aveva parlato ampiamente riferendo di questo processo - ha riferito di avere appreso in quel contesto (e quindi circa dieci anni prima dell’esame del Marchese e delle relative notizie di stampa) da Michele Greco o dal lui fratello o da Mario Prestifilippo, che quello specifico allontanamento aveva avuto origine da una “soffiata” dell’odierno imputato.

Orbene, quanto al profilo della credibilità di Antonino Giuffrè, trattandosi di una collaborazione alquanto recente - e non essendo state prodotte dalla Pubblica Accusa sentenze passate in giudicato nelle quali essa sia stata valorizzata - la Corte non dispone di quegli elementi di giudizio che possono essere forniti, in particolare, dalla sperimentata verifica giudiziale della fondatezza delle indicazioni accusatorie.

Né, per altro verso, appaiono compiutamente valutabili le ragioni della collaborazione, sinteticamente indicate, come si è visto, in un percorso interiore di resipiscenza sviluppatosi in epoca immediatamente successiva a quella dell’arresto. A parte, infatti, la oggettiva difficoltà di sondare stati soggettivi non ancorati a pregresse manifestazioni di rifiuto di logiche e stili mafiosi, in linea generale - come si è detto - le collaborazioni, favorite da una scelta di politica legislativa di tipo premiale ed incentivante, scontano di per se stesse una motivazione di tipo utilitaristico e sfuggono, in linea di massima, ad un inquadramento in termini prettamente morali o spirituali.

Deve, comunque, rimarcarsi che la posizione di spicco (capo del “mandamento” di Caccamo) assunta da svariati anni in Cosa Nostra dal Giuffrè ha trovato conferma nella quantità e qualità dei procedimenti definiti e pendenti a suo carico per fatti di mafia, risultanti dalla posizione giuridica prodotta dal Procuratore Generale. Inoltre, le indicazioni sui luoghi della latitanza di Michele Greco e sul ruolo rivestito dal Giuffrè nel proteggerla sono state acclarate con la sentenza resa dalla Corte di Appello di Palermo il 15 marzo 1994 nei confronti di Farinella Giuseppe + 19, irrevocabile il 18 aprile 1995, prodotta dal Procuratore Generale, in questo dibattimento, all’udienza del 25 marzo 2004.

In essa, infatti, nella parte relativa alla posizione dell’imputato Antonino Giuffrè, sulla scorta delle attendibili propalazioni del collaboratore di giustizia Benedetto Galati, si rileva che pochissimi erano al corrente dei luoghi della latitanza di Michele Greco, cioè lo stesso Galati, Mario Prestifilippo, Giuseppe Zaza ed Antonino Giuffrè, e si afferma:

<>.

Non risulta, poi, in alcun modo che l’odierno imputato abbia avuto modo di occuparsi del Giuffrè, suscitando in lui sentimenti di vendetta che non traspaiono dalla deposizione, nella quale il collaborante ha ben precisato i limiti delle proprie conoscenze.

Né, infine, avuto riguardo alla mole di informazioni che lo stesso Giuffrè ha fornito in altri procedimenti, è sostenibile che le sue indicazioni scaturiscano dal proposito di accreditarsi come pentito. Senza dire che proprio i limiti delle conoscenze sull’odierno imputato trovano una plausibile spiegazione nel fatto che gli episodi per cui è processo non intercettano né i luoghi, né, soprattutto, l’epoca in cui si colloca la militanza mafiosa del Giuffrè, iniziata nel 1980.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, non può disconoscersi la valenza di riscontro delle indicazioni del Giuffrè, attinte nell’ambito dell’entourage di Michele Greco all’epoca in cui egli ne curò la latitanza, e come tali non assimilabili a voci correnti nel pubblico, non riferibili dai testimoni ai sensi dell’articolo 194 comma terzo c.p.p.

Né, infine, la circostanza che lo stesso Giuffrè non abbia fatto menzione dell’odierno imputato in sede di formazione del “Verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” incide sulla utilizzabilità delle sue dichiarazioni, giacchè tale sanzione, - posta dall’articolo 16 quater comma 9 D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con modifica nella L. 15 marzo 1991 n. 82 (introdotto nel corpo del citato D.L. dall'art. 14 della L. 13 febbraio 2001 n. 45) che colpisce le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale medesimo - trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio e non, dunque,alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento (ex plurimis, Cass. pen. sez V, sentenza n. 18061 del 13 maggio 2002).

CAPITOLO VIII


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