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Lo svolgimento del processo


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Che il Marchese intendesse riferirsi alla villa si deduce, senza alcun dubbio, dalla successiva dichiarazione “...in tale villa il Riina allora abitava insieme alla moglie ed...”(pag. 101, dich. a P.M. 4.11.1992).
Alla udienza del 22.4.1994 il Marchese ha dichiarato:
“...Mio zio Filippo mi tirò da parte e mi disse di andare avvisare, dice, u zu Totuccio e ci dici: <>. Sono andato là a trovarlo, in questa villa e gli dissi: <una perquisizione.” (pag. 25, ud. 22.4.1994)>>.

A pag. 49 della memoria depositata il 14 novembre 2005 il Procuratore Generale ha fatto rilevare che l’espressione <<il luogo dove il Riina allora abitava>> è polivalente, essendo suscettibile di assumere significati diversi in rapporto a contesti diversi: se certamente, la propria abitazione è “il luogo in cui si abita”, non ogni luogo in cui si abita è la propria casa, potendo esserlo anche la propria città od un quartiere di essa.

Del resto, come puntualmente osservato dallo stesso Procuratore Generale, tenuto conto della povertà dei mezzi espressivi e del vocabolario del collaborante, <casa o di villa, avrebbe fatto ricorso all’indiretta – e, per lui, più arzigogolata – espressione luogo in cui abitava>>.

La tesi secondo cui il Marchese avrebbe fatto costante riferimento alla località e non alla villa è stata efficacemente argomentata nei termini seguenti.

Nella versione riportata nei motivi d’appello il brano delle dichiarazioni dibattimentali del Marchese reca un “cà” accentato.

Nella trascrizione agli atti del processo l’accento non si rinviene.

Le conseguenze sono di non poco momento, giacchè, nel dialetto siciliano, il “cà” accentato significa qua e quello non accentato equivale alla congiunzione che, introduttiva di una proposizione.

Nel primo caso, osserva il Procuratore Generale <qua - cioè alla villa dentro la quale si trovava all’atto del parlare - avrebbe dovuto esserci una perquisizione, in tal modo suffragando l’assunto difensivo che il preannuncio di perquisizione riguardava specificamente l’abitazione del latitante; nel secondo caso, il collaborante avrebbe semplicemente detto a Riina che nella località dov’egli abitava, avrebbe dovuto esserci una perquisizione>>.

Osserva questa Corte che la mancanza dell’accento sulla “a” del “ca” potrebbe essere dovuta ad una omissione del trascrittore.

Tuttavia, l’ascolto della registrazione non si è reso necessario perché lo stesso testo delle dichiarazioni enuncia la fondatezza della ricostruzione del Procuratore Generale.

Ed invero, nella trascrizione agli atti del processo il “ca” è seguito da una virgola ed è preceduto da un apostrofo, e quindi suonerebbe, in vernacolo :”ncaa..”; espressione del tutto anodina, utilizzata come intercalare specialmente da chi ha un basso grado di cultura e, quindi, delle lacune espressive.

Tale conclusione è rafforzata dal fatto che, nel contesto del periodo << Che li sapere me zio, che ci faci sapere u dottor Contrada che dice (o ca, n.d.r. ) ci avissi a essire una perquisizione... >>”, il lemma “dice” non è la terza persona singolare del verbo “dire”, ma25 - in questo caso, abbinato al “ca” - costituisce un’espressione meramente riempitiva, utilizzata come intercalare in quello che i linguisti chiamano “italiano regionale”.

Eliminandolo, quindi, per forza di cose residua il precedente “che”, dopo la parola “Contrada”, e cioè necessariamente una congiunzione, non certo l’avverbio di luogo “qua” (“che ci fici sapere u dottor Contrada che dice ca ci avissi a essire una perquisizione”).

Senza dire che, comunque, anche il “cà” accentato non avrebbe affatto imposto di attribuire all’ambasciata del Marchese il significato inteso della Difesa.

Altra osservazione di carattere lessicale - ma tutt’altro che accademica, ed anzi gravida di implicazioni - è quella fatta dal Procuratore Generale a proposito dell’espressione <<ci avissi a essire una perquisizione>>, che nel dialetto siciliano esprime possibilità o probabilità, ma non certezza, significando “potrebbe” o “dovrebbe” esserci una perquisizione.

Ne deriva che la mancanza di prova della effettiva esecuzione di perquisizioni, o di attività di osservazione, a Borgo Molara in un momento immediatamente successivo alla ambasciata del Marchese non vale ad infirmare la credibilità del collaborante, come invece sostenuto dai difensori appellanti.

Per non dire che, come ampiamente spiegato dal Tribunale (pag. 1032 e segg. della sentenza di primo grado), non vigeva, all’epoca, la prassi di documentare comunque gli atti di Polizia Giudiziaria, specie nel caso di operazioni con esito negativo (emblematici i casi di due perquisizioni domiciliari non documentate, e cioè quella nell’attico di via Jung n.1, effettuata il 30 aprile 1980, della quale ha riferito il teste Firinu, e di quella condotta nelle prime ore del 12 aprile 1980 dal teste Renato Gentile presso l’abitazione di Salvatore Inzerillo, della quale si dirà a proposito della cd. “Vicenda Gentile”).

A conferma dell’interesse investigativo della zona di Borgo Molara, va, inoltre, rimarcato quanto sottolineato dal Tribunale alle pagine 1036 e 1037 della sentenza appellata: <).

Il D’Antone, infatti, pur affermando di non avere ricevuto segnalazioni specifiche nei primi mesi del 1981 in ordine ad una casa sita a Borgo Molara utilizzata come rifugio da Salvatore Riina, ha dichiarato che Borgo Molara era uno dei luoghi, nei dintorni di Palermo, che si prestavano ad occultare latitanti e che spesso, per tale motivo, anche durante il periodo della sua dirigenza alla Squadra Mobile, si mandavano uomini in quella zona per ricercare latitanti ed in particolare i pericolosi “Corleonesi (cfr. ff. 115, 158, 159 ud. 14/7/1995) .

Tale emergenza processuale, di peculiare rilevanza, atteso il ruolo svolto all’epoca dal dott. D’Antone nell’ambito della Squadra Mobile, riscontra l’effettiva esecuzione di pattugliamenti da parte delle Forze di Polizia, finalizzati alla cattura di latitanti, proprio nella zona e nell’epoca indicata dal Marchese, e risulta, peraltro, assolutamente coerente sia con la notizia riferita dal predetto che con le altre risultanze esaminate, sulla base delle quali deve ritenersi che l’allontanamento del Riina da quell’abitazione era stata “consigliata” per motivi di prudenza e non perchè il suo rifugio fosse stato localizzato dalla Polizia>>.

Le considerazioni svolte nel brano dianzi trascritto inducono a superare una ulteriore obiezione, avanzata dalla Difesa nel corso della discussione per screditare la figura ed il contributo di Giuseppe Marchese.

Si assume, cioè, che, una volta “bruciato” il suo covo, perché scoperto dalle forze di Polizia, Totò Riina non avrebbe mai potuto ragionevolmente farvi ritorno.

In realtà, come si è visto, il messaggio di cui era stato latore Giuseppe Marchese riguardava l’imminenza di possibili perquisizioni nella zona, e non nella villa, di Borgo Molara.

La successiva scelta di Riina di fare ritorno nel suo rifugio, dunque, può ragionevolmente spiegarsi con la circostanza che non erano state compiute operazioni di Polizia concernenti la villa di Via Cartiera Grande n.33, e quindi con la convinzione di non essere esposto ad altri pericoli, se è vero che la notizia della sua presenza in quel “covo” sarebbe circolata tra i mafiosi dello schieramento “perdente” soltanto nell’imminenza della seconda guerra di mafia, e cioè nell’aprile del 1981.

Alla stregua del riferimento alla zona e non alla villa di Borgo Molara si supera anche l’obiezione secondo cui i funzionari di Polizia e gli ufficiali dei Carabinieri citati quali testi dalla difesa (vol. II dell’Atto di impugnazione, pagine 145-150) avevano riferito che, agli inizi del 1981, il covo di Totò Riina non era stato ancora individuato dalle Forze di Polizia.

Peraltro, anche sotto un diverso profilo, la circostanza che agli inizi del 1981 non fosse ancora noto alle Forze dell’Ordine il covo del Riina non è indicatrice di mendacio da parte del Marchese .

In altri termini, anche ad ammettere che, agli inizi del 1981, Contrada non sapesse specificamente della presenza di Totò Riina a Borgo Molara - il che appare improbabile, tenuto conto che egli ha dichiarato di avere avuto, nella sua carriera, “centinaia di confidenti” (cfr. pag. 110 trascrizione udienza 13 dicembre 1999) - l’avere avvertito dei tramiti qualificati come i Greco, tra i pochissimi a conoscenza del rifugio dello stesso Riina, della imminenza di possibili operazioni di Polizia in una zona a lui nota come luogo di rifugio di latitanti mafiosi (posto che lo era all’amico e collega Ignazio D’Antone), è una condotta che si pone in perfetta sintonia con il paradigma del concorso esterno in associazione mafiosa, caratterizzato dalla pertinenza al sodalizio in sé delle condotte di agevolazione, illuminate dal dolo diretto.

In questa ottica - anche se, nel narrato del Marchese, l’indicazione di Contrada è correlata alla figura del Riina - è ben possibile che la successiva comunicazione dai Greco a Filippo Marchese, e quindi al collaborante, avesse decodificato una notizia di carattere generale, considerata di grandissimo interesse per la tutela di una figura apicale, e quindi della macchina organizzativa, del sodalizio mafioso.

Sebbene, poi, non constino specifiche censure sul punto, va ricordato come, nel rassegnare i riscontri alle dichiarazioni del Marchese, il Tribunale abbia evidenziato che questi aveva dimostrato di ben conoscere i luoghi da lui indicati, ed in particolare la villa di Borgo Molara dove si era recato ad avvisare il Riina e quella di San Giuseppe Jato dove lo aveva accompagnato (pag. 1022); che dalle risultanze processuali era risultato che la villa di Borgo Molara, di proprietà di tale Carmelo Pastorelli, era nella disponibilità di esponenti di “Cosa Nostra” o comunque di soggetti molto vicini a questa organizzazione; che, in particolare nel 1981, anno cui si riferisce il fatto in esame, era condotta in locazione da un mafioso di particolare spicco, tale Salvatore Tamburello, raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. in quanto indicato da più fonti quale reggente in luogo di Mariano Agate (arrestato nel 1990, altro mafioso alleato del Riina e capo del mandamento di Mazara Del Vallo).

Il Tribunale, ancora, ha valorizzato come riscontro le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Anselmo, “uomo d’onore” della famiglia della Noce, alleata dei corleonesi, fratello del latitante Vincenzo Anselmo, “figlioccio” dello stesso Riina.

Salvatore Anselmo, che aveva iniziato a collaborare nel Novembre del 1984, ed era stato ucciso il 12 novembre 1984, aveva già indicato la villa di via Cartiera Grande n°33 in località Borgo Molara come luogo in cui si rifugiavano e si riunivano il Riina, insieme al fratello Vincenzo Anselmo e ad altri latitanti tra cui anche Bernardo Provenzano (cfr. deposizione resa sul punto dal cap. dei C.C. Leonardo Rotondi).

Oltretutto, l’utilizzazione di quella villa come luogo della latitanza di Salvatore Riina era emersa dalle già citate propalazioni di Baldassare Di Maggio.

Altro riscontro al narrato del Marchese in ordine a questo episodio sono state considerate le indicazioni accusatorie di Gaspare Mutolo circa l’estensione dei favori dell’imputato a soggetti mafiosi appartenenti al gruppo dei Corleonesi, collocandosi la prima fuga del Riina da Borgo Molara <> (pag. 361 della sentenza appellata).

Gaspare Mutolo, infatti, in via bensì esemplificativa, ma immediata e spontanea, si è riferito a Totò Riina come ad uno dei beneficiari di tali favori, riferendo, a domanda del presidente del collegio (pag. 51 trascrizione udienza 12 luglio 1994 che Riccobono gli aveva detto che <<gli stessi favori>> da lui ricevuti erano stati fatti <<mi disse per esempio, che so, Salvatore Riina, per esempio, io sto portando un paragone.

PRESIDENTE: si'.

MUTOLO G. per esempio tale giorno lo dovevano arrestare allora si sposto' perche' il dottor Contrada...

PRESIDENTE: ecco, non parlo' specificatamente...>> .

Infine, a confermare l’attendibilità delle accuse del Marchese su questo specifico episodio militano le già menzionate propalazioni del pentito Salvatore Cancemi.

Quest’ultimo, infatti aveva riferito:


  • di avere continuato a sentire parlare dal suo capo capomandamento Pippo Calò dell’imputato, come persona a contatto con “Cosa Nostra”, almeno fino agli anni 1983-1984, e quindi in un’ epoca in cui, essendo stati uccisi Riccobono e Bontate, i suoi contatti con l’organizzazione non potevano avere come referenti tali soggetti;

  • di avere appreso in più occasioni da vari “uomini d’onore”, e segnatamente da Raffaele Ganci, capo della famiglia della Noce, da La Barbera, Biondino e dallo stesso Riina, che quest’ultimo era stato avvisato dai poliziotti di mettersi da parte a causa di particolari operazioni dirette alla sua ricerca.

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