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Lo svolgimento del processo


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)>>.

Soggiungono i medesimi difensori (ibidem, pag. 92 e segg.): <

Ma dall’esame di questo foglio si evince con chiarezza che esso non è nemmeno passato per le mani del dott. Contrada, in quanto, giunto alla Squadra Mobile (timbro di entrata) il 25 settembre 1979, fu sottoposto al visto del V. Dirigente della Mobile dott. Vittorio Vasquez e da questi passato per la trattazione al dott Crimi, allora dirigente Sez. Antimafia della Squadra Mobile - Sezione delegata a trattare pratiche del genere. Infatti, in calce alla lettera (acquisita agli atti del processo unitamente a tutta l’altra documentazione sull’argomento) è apposta la decretazione “Al dr. Crimi - sigla V.” (che significa Vasquez).

Il 25 settembre 1979 il dott. Contrada - allora dirigente della Squadra Mobile e della Criminalpol - era impegnato per l’omicidio del giudice C. Terranova, perpetrato appunto quella mattina del 25.9.1979 e non poteva essere in ufficio a leggere la posta di ordinaria amministrazione in arrivo>>.

In ogni caso, secondo i predetti difensori (analoga osservazione è stata svolta a proposito della pratica per la restituzione della patente di guida a “Pinè Greco”), se fosse stato davvero interessato a favorire Stefano Bontate, Contrada avrebbe dovuto svolgere una vera e propria attività di regia, intervenendo (ipotesi esclusa dalle testimonianze degli interessati):



  • sul Prefetto al fine di determinarlo, nell’ambito della sua facoltà discrezionale conferitagli dalla legge, ad emanare il provvedimento di concessione della patente;

  • sul Dirigente del Distretto di Polizia, affinché esprimesse un parere favorevole o comunque non ostativo all’accoglimento dell’istanza o a fornire informazioni non aderenti alla realtà;

  • sul Questore, onde convincerlo a fare sue le informazioni del suddetto funzionario e trasmetterle, senza interferire nella sostanza di esse, al Prefetto;

  • sul dirigente dell’ufficio patenti della Prefettura per indurlo a ritardare la richiesta di nuove informazioni da inoltrare alla Questura dopo che la patente di guida, in data 2 agosto 1978, era stata rilasciata “in via di esperimento”;

  • sul dirigente dell’Ufficio Misure Prevenzione della Questura per convincerlo a soprassedere nell’invio in Prefettura del parere della Squadra Mobile, sfavorevole al mantenimento della patente, concessa in via provvisoria;

  • sul dirigente della Sezione Antimafia della Squadra Mobile per far sì che indugiasse ad esprimere il parere sul mantenimento del beneficio già concesso al Bontate dal Prefetto.

*******

Come ricordato nell’atto di impugnazione, la pratica di rilascio della patente al Bontate ebbe tre fasi: la prima, tra il 28 febbraio 1977 (data della istanza al Prefetto da parte di Bontate) ed il 2 agosto 1978 (data di concessione in via di esperimento della patente da parte del Prefetto); la seconda, tra l’undici luglio 1979 (data della richiesta della Prefettura alla Questura di aggiornate informazioni su Bontate) e l’otto settembre 1980 (risposta della Squadra Mobile alla Questura con parere sfavorevole al mantenimento della patente da parte del Bontate); la terza, tra l’otto settembre 1980 ed il 23 aprile 1981 (uccisione di Bontate), in cui la pratica rimase ferma, senza alcuna ulteriore informativa alla Prefettura, presso l’Ufficio Misure Prevenzione della Questura.

Orbene, gli stessi difensori appellanti, pur affermando che Bontate non ebbe a godere di alcun trattamento di favore all’interno degli Uffici della Questura, riconoscono che si verificarono <>> relativa alla sua patente, mai sospesa o revocata sino alla sua uccisione ancorché rilasciata “in via di esperimento”.

Addirittura, come puntualmente evidenziato dal Tribunale, (pagine 698-700 della sentenza appellata) <

Ed infatti, come si evince dagli atti esistenti sia nel fascicolo cat. II° della Questura di Palermo che in quello della Prefettura, il Bontate in data 29/4/1975 in un’epoca in cui risultava dimorante obbligato nel comune di Cannara (prov. Perugia), era stato sorpreso e tratto in arresto sull’autostrada del Sole, nei pressi del Comune di Scandicci (Firenze), a bordo di un’autovettura “Porsche” intestata al proprio fratello Giovanni in compagnia del mafioso Scaglione Salvatore; nell’occasione il Bontate era stato trovato in possesso di una patente di guida, Cat. C n° 843 a lui intestata in cui risultava apposta la dicitura “duplicato” (rilasciato il 4/1/1971 dalla Prefettura di Palermo e vidimata per gli anni 1973-74 e 75) che il Distaccamento della Polizia Stradale di Campi- Bisenzio aveva trasmesso per accertamenti sia alla Prefettura che alla Questura di Palermo; tale patente, contrariamente a quanto si leggeva sulla stessa non era stata rilasciata dalla Prefettura di Palermo e per tale motivo era stato avviato un procedimento penale per falso presso la sezione penale della Pretura unificata di Firenze a carico del Bontate (…) Il dott. Carmelo Emanuele, che è stato addetto ininterrottamente per circa sedici anni all’Ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Palermo, prima come funzionario e poi come dirigente, escusso all’udienza del 23/6/1995 ha dichiarato che se il richiedente era un indiziato mafioso doveva valutarsi la possibilità di un abuso della patente da parte dello stesso e se si fosse profilata una tale eventualità il parere avrebbe dovuto essere negativo; solo se la condotta dell’indiziato mafioso non avesse dato adito ad alcun sospetto allora la patente di guida si sarebbe potuta rilasciare (cfr. ff. 22- 56 e ss. ud. cit.). E’ evidente che nel caso in esame non v'era una mera ipotesi di un possibile abuso della patente di guida da parte del Bontate bensì la certezza di un abuso già perpetrato essendo stata già realizzata una specifica condotta penalmente rilevante>>.

I difensori appellanti hanno, poi, sostenuto che il compendio documentale in atti rivelerebbe l’assenza di trattamenti di favore nei confronti del Bontate.

Essi, però, omettono di considerare il tenore di una nota manoscritta relativa alla fase del rilascio della patente, redatta su un foglio datato 24 aprile 1978 ed intestato alla Questura di Palermo, nella quale vengono oscurati i temi della qualità di indiziato mafioso e della possibilità di abuso della patente di guida da parte dello stesso Bontate.

Segnatamente, dopo l’esito negativo della prima richiesta di informazioni a firma del Prefetto Grasso, con nota n° 45024 del 3/4/1978 il Prefetto Di Giovanni chiese alla Questura con nota n° 45024 del 3/4/1978: <<poichè il Bontate è diffidato, si prega di fare conoscere l’avviso della S.V. in ordine alla richiesta, precisando, in particolare, se sussistano motivi ostativi o se l’interessato abbia dato concreti segni di ravvedimento>>.

Seguì la citata nota manoscritta della Questura in data 24 aprile 1978, con la quale si richiese al I Distretto di Polizia, territorialmente competente (pag. 704 della sentenza appellata): <<Si prega far conoscere l’attività lavorativa svolta in atto dal Bontate e se in relazione a tale attività il documento richiesto costituisca per lo stesso mezzo indispensabile di lavoro>>.

Orbene - al di là della perfetta sintonia sia con l’istanza di rilascio a firma del Bontate, nella quale si evidenziava la necessità di detto documento per esigenze di tipo lavorativo, e dell’assonanza con l’istanza con cui successivamente “Pinè Greco” chiese la restituzione della sua patente di guida - colpisce il fatto che la nota decampa del tutto rispetto ai due temi oggetto di accertamento, e cioè:



  • l’esistenza di “motivi ostativi” al rilascio della nuova patente richiesta dall’interessato;

  • l’eventuale esistenza di “concreti segni di ravvedimento” da parte del diffidato.

A questi due quesiti, infatti, come rilevato dal Tribunale (pag. 703 della sentenza) << la Questura avrebbe dovuto rispondere e non v’è dubbio che il Bontate, essendo stato tratto in arresto due anni prima nella flagranza della contravvenzione all’obbligo di soggiorno in compagnia di altro soggetto indiziato mafioso e con una patente contraffatta, non soltanto aveva posto in essere una condotta del tutto opposta a quella richiesta di positivo ravvedimento, ma in modo specifico aveva dato prova di abusare del documento abilitativo alla guida>>.

Alle informazioni favorevoli del primo distretto di Polizia (<<la patente richiesta dal Bontate, appare un mezzo necessario di lavoro per lo stesso>>) seguì il parere del Questore Epifanio del 19 luglio 1978, il cui accento logico si polarizza sulla conclusione << Non si esclude che lo stesso, in relazione alla sua attività, possa avere bisogno dell’invocato documento di abilitazione alla guida”>>, scaturita dalla premessa che dalle <<recenti informazioni assunte>> era risultato che il Bontate, peraltro già indiziato mafioso, era <<proprietario di diversi appezzamenti di terreno coltivati.....che conduceva direttamente>>;parere nel quale vengono sostanzialmente obliterati i quesiti posti dalla Prefettura circa l’esistenza di motivi ostativi e di concreti di ravvedimento.

L’ex Questore Epifanio, nel corso del suo esame dibattimentale (pag. 707 della sentenza appellata), ha dichiarato che << nel caso di specie, non ricordava se si era posto il problema della possibilità di un abuso ed in ogni caso, verosimilmente, si era limitato ad aderire a quella indicazione riguardante la necessità per il Bontate della patente per motivi di lavoro fatta dai suoi collaboratori, facendo quindi proprio un giudizio altrui (cfr. ff. da 35 a 49 ud. 5/5/1995)>>.

A prescindere, comunque, da tale indicazione, legata ad un giudizio di verosimiglianza coerente col notorio, la direzione impressa in Questura all’andamento della pratica costituisce un indubbio riscontro alle convergenti accuse del Cancemi e del Marino Mannoia.

Né coglie nel segno l’obiezione difensiva secondo cui, ove davvero il rilascio ed il mantenimento della patente al Bontate fossero stati dovuti all’apporto dell’imputato, questi avrebbe dovuto condizionare il Prefetto, il Questore, il Dirigente del Distretto di Polizia territorialmente competente, il Dirigente dell’ufficio patenti della Prefettura ed il dirigente dell’Ufficio Misure Prevenzione della Questura.

Il Bontate, infatti, aveva già interessato un Prefetto (Grasso) tramite un politico (Ventimiglia), ed in quella circostanza era emerso come fosse imprescindibile una pronunzia favorevole della Questura.

Ciò che rileva,comunque, è il riscontro di un apporto decisivo in una fase del procedimento, offerto dalla citata nota della Questura del 24 aprile 1978. cui fecero seguito le informazioni favorevoli del I Distretto di Polizia, di segno schiettamente “georgofilo”, al pari di quelle successivamente rese per la patente di “Pinè” Greco.

Del resto, se un connotato essenziale della condotta di sistematica agevolazione del sodalizio, ascritta all’imputato, è proprio la sua dissimulazione, non si può certo pretendere che Contrada propugnasse apertamente la causa del rilascio della patente di guida al Bontate.

Non ha pregio, poi, l’ulteriore argomento secondo cui il ricorso all’interessamento del maggiore dei Carabinieri Enrico Frasca per una perquisizione compiuta nell’abitazione di Stefano Bontate dalla Polizia di Stato sarebbe incompatibile con l’apporto di Contrada.

Il maggiore Frasca, infatti, intervenne presso il dott. De Luca a distanza di poche ore dalla perquisizione effettuata nel domicilio del Bontate, dimostrandosi, quindi, come il suo tramite più immediato, come traspare anche nell’appunto dello stesso De Luca, trascritto alle pagine 94 e 95 del volume II capitolo V, paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione (<<….L’Ufficiale era infatti a conoscenza, e non so attraverso quali canali, che nelle prime ore di stamani avevo inviato una squadra nell’abitazione del predetto con lo scopo di procedere ad una dettagliata perquisizione domiciliare ed accompagnamento in Ufficio del prevenuto. Il Bontate nella circostanza non è stato trovato, evidentemente perché riuscito a fuggire attraverso i giardini retrostanti. La moglie agli agenti ha riferito che il marito era già uscito per recarsi in campagna.

Ho riferito al Maggiore FRASCA che in relazione al triplice omicidio di SCELTA Ignazio, VITALE Rosario e SIINO Girolamo, consumato in piazza Uditore la sera del 15 corrente, stavo controllando la posizione di alcuni esponenti mafiosi palermitani e, fra costoro, il BONTATE Stefano>>.

Un tale ruolo del maggiore Frasca, tuttavia, non contrasta con la possibilità, per il Bontate, di appellarsi anche a figure istituzionali interne agli uffici della Questura (necessariamente competente ad interloquire con la Prefettura rispetto al procedimento per il rilascio della patente), cosa puntualmente avvenuta se si considera che, appena due mesi dopo, venne formata la più volte citata nota della Questura stessa in data 24 aprile 1978 con cui si eludevano i temi della esistenza di motivi ostativi e di concreti di ravvedimento.

Per converso, non è un fatto logicamente necessitato che il Bontate, pur disponendo di un contatto più immediato, e cioè il maggiore dei Carabinieri Enrico Frasca, dovesse prescinderne sol perché la perquisizione in suo danno era stata fatta dalla Polizia e non dai Carabinieri22.

Del resto - valgono, al riguardo, le medesime osservazioni svolte a proposito della vicenda della patente restituita a Pinè Greco, riferita dal pentito Marino Mannoia - il citato documento della Questura del 24 aprile 1978, come tutti gli atti successivi, rimonta ad un’epoca in cui altri funzionari di Polizia (segnatamente il dr. Purpi ed il dr. Speranza) dei quali sono emerse condotte improntate al favoritismo nei riguardi del Bontate non operavano più all’interno della Questura stessa.

Ma la individualizzazione più pregnante degli elementi di conferma delle accuse è data dalla inerzia degli uffici della Questura, successivamente al rilascio, in via di esperimento della patente di guida al Bontate, correlata alle indicazioni emerse dalla testimonianza del dott. Giuseppe Crimi, all’epoca dirigente della sezione Antimafia della Squadra Mobile.

Rinviando alla ricostruzione operata dalla sentenza di primo grado (pagine 710 e seguenti), mette conto evidenziare che:



  • con nota dell’undici luglio 1979 il Prefetto Di Giovanni chiese “aggiornate informazioni” sul conto del Bontate;

  • con nota della Questura in data 24 settembre 1979, diretta alla Squadra Mobile - Sezione Antimafia, venne richiesto un rapporto informativo;

  • tale rapporto venne redatto soltanto un anno dopo (8 settembre 1980) e non fu mai ufficialmente trasmesso dalla Questura alla Prefettura sino alla data dell’omicidio del Bontate.

Alla già citata obiezione dei difensori appellanti secondo cui la nota del 24 settembre 1979 non sarebbe nemmeno passata per le mani di Contrada - allora dirigente della Squadra Mobile e della Criminalpol, impegnato nelle indagini per l’omicidio del giudice Cesare Terranova e non a <> - il Tribunale ha puntualmente risposto citando le dichiarazioni del teste Crimi (pagine 713-718 della sentenza appellata).

Quest’ultimo, infatti, aveva riferito che, in quel momento, le indagini sui Bontate, intraprese dal dirigente della Squadra Mobile Boris Giuliano, stavano “particolarmente a cuore” a Contrada e, proprio perché esse erano in corso, era stata presa la decisione di “temporeggiare” nella determinazioni riguardanti la patente di guida per evitare di dare agli stessi Bontate “segnali negativi”, cioè di rivelare che si stavano conducendo indagini sul suo conto.

E’ significativo, come osservato dal Tribunale ( pag. 717 della sentenza) appellata, che il Crimi, <<… che lo stesso imputato ha indicato come uno dei suoi più stretti collaboratori con cui ha avuto anche un rapporto di amicizia al di là del mero rapporto professionale (cfr. f. 136 ud. 4/11/1994)>>:


  • dapprima abbia ammesso di <>;

  • e però, alla fine della sua deposizione, alla domanda della difesa del seguente tenore : “Ho capito, insomma, di ritardare la risposta non le fu detto da Contrada? abbia risposto : “Nella maniera piu’ assoluta, no”.

Egli, cioè (pag. 716 della sentenza appellata) << mentre per la prima parte della propria deposizione ha ricordato i fatti in oggetto fornendo una spontanea ricostruzione degli stessi tale da coinvolgere necessariamente il dirigente della Squadra Mobile in quella decisione di “opportunistica” attesa, in un secondo momento della sua deposizione, verosimilmente perchè resosi conto del pregiudizio arrecato all’imputato, ha radicalmente mutato impostazione escludendo in modo assoluto, ma con risultati poco convincenti, il coinvolgimento del dott. Contrada>>.

In definitiva, le censure dei difensori appellanti non hanno intaccato il costrutto motivazionale concernente l’interessamento di Contrada nella pratica di rilascio della patente a Stefano Bontate.

Persuasivamente, dunque, il Tribunale ha ritenuto che le indicazioni accusatorie del Marino Mannoia e del Cancemi, tra loro convergenti, avessero trovato riscontro nel fatto che il periodo in cui la patente era stata ottenuta (1978) era <> (pag. 710 della sentenza appellata).

Il Tribunale ha rilevato, altresì, anomalie anche nel rilascio del passaporto a Stefano Bontate (pagine 723-724 della sentenza appellata), sintomatiche di favoritismo proveniente nei suoi confronti dagli uffici della Questura.

Tuttavia, come si è osservato a proposito delle analoghe anomalie riscontrate nella pratica di rilascio del passaporto a “Pinè” Greco, gli elementi evidenziati in sentenza non possono considerarsi alla stregua di riscontri in carenza di una specifica indicazione accusatoria sul rilascio del documento, né hanno una autonoma, pregnante consistenza indiziaria rispetto alla persona dell’imputato.

Quanto, infine, alle indicazioni accusatorie del Cancemi sul rilascio del “porto d’armi” a Stefano Bontate (Volume II, capitolo V, paragrafo V. 1, pagine 116 – 130), il Tribunale ha premesso (pag. 728 della sentenza appellata) che la ricerca dei riscontri, <> in quanto gli atti relativi alle autorizzazioni in questione, aventi validità pluriennale, in ottemperanza alle disposizioni che regolano lo scarto d’archivio, venivano conservati per almeno due anni dalla scadenza del titolo e, quindi, ne era stata disposta l’eliminazione.

Era stato accertato, tuttavia, che tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60 Stefano Bontate era certamente titolare sia di porto di fucile che di porto di pistola.

Quanto al porto di pistola (pag. 734 della sentenza appellata) <>.

A giudizio del Tribunale (pag 735 e segg. della sentenza appellata) l’impossibilità <

Mentre per il porto di pistola taluni indizi indurrebbero a ritenere che il titolo di Polizia venne successivamente revocato al Bontate, conclusioni diverse devono trarsi per il porto di fucile. Ed infatti, a seguito dell’evidenziata segnalazione da parte del dirigente della Squadra Mobile, dott. Madia, successiva al fermo del Bontate insieme al Greco, appare improbabile che al Bontate, potesse essere stato mantenuto il porto di pistola, di cui, peraltro egli era risultato sprovvisto nel momento in cui era stato trovato ucciso pur essendo in possesso di una pistola cal. 7,65, con matricola abrasa (cfr. fascicolo relativo all’omicidio di Stefano Bontate- acquisito all’udienza del 19/5/1995)>>.

Il Tribunale, a sostegno della ritenuta impossibilità di escludere che al Bontate fosse stato rilasciato un nuovo porto di fucile a partire dall’epoca in cui, secondo il costrutto accusatorio, egli “avvicinò” l’imputato (cioè intorno alla fine del 1975) ha valorizzato (pagine 736 e segg. della sentenza):


  • il fatto che, alla morte dello stesso Bontate, risultavano annotati in carico a lui presso la stazione dei carabinieri di Villagrazia un fucile, un revolver ed una pistola semiautomatica, dei quali era stato chiesto conto alla vedova, che nulla aveva saputo dire;

  • il fatto che il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta aveva riferito di avere personalmente verificato, con riferimento al periodo Giugno 1980-Gennaio 1981, che Stefano Bontate aveva l’abitudine di andare ogni mattina a caccia portando con sè dei fucili (cfr. f. 16 ud. 25/5/1994).

In relazione alla prima di dette emergenze, quel Giudice ha ritenuto che la circostanza <>.

In relazione alla seconda, ha dedotto che, siccome il Bontate in quel periodo non era latitante, il portare quotidianamente con sè armi necessarie alla caccia induce a ritenere possibile << che, nel periodo d'interesse, fosse munito quanto meno del porto di fucile per uso caccia>>.

Ora, deducono i difensori appellanti che:


  • <>;

  • <>;

  • la circostanza, riferita dal Buscetta, che egli si recasse quotidianamente a caccia del periodo giugno 1980-gennaio 1981 non è probante, non potendo considerarsi prioritaria, per un criminale del suo spessore, la preoccupazione di procurarsi il titolo di polizia;

  • il dott. Francesco Faranda, dirigente del I Distretto di Polizia (nella cui circoscrizione territoriale era compresa la residenza del Bontate) dal 1976 al 1980 aveva escluso la possibilità del rilascio di porti d’arma, alla stregua degli articoli 11 e 43 T.U.L.P.S., attesi i precedenti di polizia dello stesso Bontate (pagine 18 e 19 trascrizione udienza 21 marzo 1995).

I rilievi sin qui illustrati non valgono, ad avviso di questa Corte, ad invalidare la sostanza dell’iter logico seguito dal Tribunale.

Ed invero, al di là del condizionale usato nella sentenza appellata (<>), il fatto che il Bontate, al momento della sua uccisione, fosse in possesso di una pistola con matricola abrasa induce a ritenere che anche all’epoca indicata dal Cancemi (e cioè prima del 1979) egli ne fosse sprovvisto, pur non constando traccia,nel fascicolo permanente ctg. 2^ (pregiudicato) di una revoca o un di mancato rinnovo del porto di pistola del quale lo stesso Bontate era titolare nel 1963.

Tuttavia, proprio la lacunosità della documentazione disponibile e la mancanza di specifiche indicazioni nel citato fascicolo permanente non consentono di escludere in radice - avuto riguardo alla circostanza che in carico al Bontate risultava la detenzione di armi corte e lunghe, regolarmente denunciate - che egli, pur privo di porto di pistola - fosse rimasto titolare del porto di fucile o lo avesse riottenuto.

Peraltro, nei riguardi di Stefano Bontate non apparivano sussistere i presupposti cui gli articoli 11 e 43 T.U.L.P.S. (richiamati dal teste Faranda) riconnettono il diniego obbligatorio del rilascio delle autorizzazioni di Polizia (tant’è che allo stesso Bontate venne rilasciata, in via di esperimento, la patente di guida) e della <>.

Di tali vicende amministrative, tuttavia, non è rimasta traccia, e proprio per questo manca il riscontro estrinseco della accusa del Cancemi, de relato del suo capodecina e poi sottocapo Lipari e del suo capo mandamento Pippo Calò, circa l’interessamento dell’imputato per il porto d’armi a Stefano Bontate.

Oltretutto, l’affermazione di Tommaso Buscetta di avere visto quotidianamente Stefano Bontate recarsi a caccia portando con sé dei fucili parrebbe contrapporsi (e qui il condizionale è d’obbligo perché non è chiaro se i periodi di riferimento siano diversi o meno) a quella del collaboratore di giustizia Angelo Siino, esaminato nel primo dibattimento di appello, di essere stato solito portare con sé due fucili quando andava a caccia con il Bontate perché questi era privo di licenza, dandogliene uno salvo a riprenderlo con sé in caso di controlli (cfr. pagine 179 –180 trascrizione udienza 4 dicembre 1999).

A questa stregua, non può che farsi riferimento al principio della frazionabilità della chiamata in correità (Cass. pen. sez. I sentenza n. 4495 del 1997, sez. VI 17248 del 2004; sez. I sentenza 468/2000), già richiamato nell’ambito del vaglio delle censure riguardanti le dichiarazioni di Gaspare Mutolo, atteso che hanno retto alla verifica giudiziale le altre parti del racconto del Cancemi, e segnatamente:


  • la problematicità, e dunque l’esistenza, dei rapporti di Bruno Contrada con Stefano Bontate e Rosario Riccobono, bisognevoli di assicurazioni in seno alla “Commissione” (della diffidenza che circondava il rapporto con il Riccobono hanno riferito il Buscetta, il Marino Mannoia, e, in grado di appello, il Brusca de relato di Salvatore Riina ed Angelo Siino de relato dello stesso Bontate);

  • l’intervento dell’imputato nel rilascio della patente di guida al Bontate;

  • l’appropriazione della sua figura da parte dell’ala vincente dei Corleonesi (pagine 740 - 742 della sentenza appellata, che richiama le propalazioni di Giuseppe Marchese);

  • il generale contesto collusivo nel quale erano state assimilate le figure dell’odierno imputato e del funzionario di Polizia dr. Ignazio D’Antone (cfr. pagine 753-757 della sentenza appellata), condannato, come meglio si vedrà a proposito delle propalazioni di Rosario Spatola con sentenza resa dal Tribunale di Palermo in data 22 giugno 2000, irrevocabile il 26 maggio 2004, per concorso esterno in associazione mafiosa.

Devono, conclusivamente, essere condivise le positive conclusioni cui è pervenuto il Tribunale in ordine alla attendibilità intrinseca, alla attendibilità estrinseca ed al contributo del Cancemi rispetto alla prova della condotta di concorso esterno in contestazione.

CAPITOLO VI


Le censure riguardanti le propalazioni di Tommaso Buscetta.
Come ricordato dal Tribunale, Tommaso Buscetta, affiliato alla famiglia mafiosa di “Porta Nuova”, capeggiata da Giuseppe Calò, per la prima volta aveva fornito una chiave di lettura organica, dall’interno, delle vicende di “Cosa Nostra”, delineando un quadro nitido e preciso del suo apparato strutturale e strumentale, delle sue dinamiche e delle sue strategie.

Nel corso del suo esame dibattimentale, svoltosi all’udienza del 25 maggio 1994, egli aveva dichiarato di essere a conoscenza di relazioni intrattenute da Bruno Contrada con uomini d'onore di "Cosa Nostra", segnatamente con Rosario Riccobono, capo della famiglia mafiosa di Partanna-Mondello e dell’omonimo mandamento.

In particolare, il Buscetta aveva riferito che, trovandosi a Palermo dopo essersi sottratto al regime di semi-libertà concessogli dal Tribunale di Sorveglianza di Torino, aveva manifestato a diverse persone, e tra queste al Riccobono, suo fidato amico, l'intenzione di allontanarsi da Palermo e di ritornare in Brasile con la famiglia. Il Riccobono aveva tentato di dissuaderlo dicendogli che si sarebbe potuto stabilire tranquillamente nel suo territorio, perché nessuno sarebbe venuto a cercarlo lì, aggiungendo la frase: <<io ho il dott. Contrada, che mi avviserà se ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona, quindi qua potrai stare sicuro>>; assicurazione, questa, come chiarito dal collaboratore, fortemente impegnativa non soltanto nei suoi confronti ma anche nei riguardi di tutto l'ambiente mafioso.

Il Buscetta aveva collocato tale colloquio con il Riccobono in un arco temporale compreso tra giugno 1980 (quando da Torino si era trasferito a Palermo) e Gennaio 1981 (quando egli aveva lasciato l'Italia), periodo in cui aveva incontrato più volte il Riccobono, come gli era accaduto anche prima di rendersi latitante, e cioè durante i regolari permessi concessigli dal magistrato di sorveglianza di Torino.

Qualche tempo dopo quel colloquio aveva avuto occasione di parlare con Stefano Bontate della rivelazione fattagli dal Riccobono e della sua proposta di rimanere nel suo territorio. Il Bontate, in maniera "netta e precisa", gli aveva confermato che la notizia di contatti tra i due era vera e che, anzi, in seno alla “Commissione provinciale" si mormorava molto perché la loro frequentazione veniva ritenuta sospetta, in quanto esorbitante le mere esigenze informative che avrebbero potuto giustificarla.

Il collaborante aveva chiarito che, secondo le regole vigenti all’interno di “Cosa Nostra”, un rapporto, acclarato o sospettato, di un “uomo d’onore” con un poliziotto, è accettato se ne vengono benefici all’organizzazione nel suo complesso. Viceversa, se ne derivano pregiudizi, le conseguenze possono essere le più gravi, fino all’eliminazione fisica dell’affiliato. Pertanto, l’affermazione del Riccobono di “avere il dott. Contrada nelle mani”, secondo il collaborante poteva solo significare che tale rapporto si traduceva in un vantaggio per l’organizzazione, giovandosene latitanti ed inquisiti.

Il Buscetta aveva dichiarato di avere riferito per la prima volta nel 1984, all'inizio della propria collaborazione, nell’ambito di un interrogatorio reso dinanzi al G.I. Giovanni Falcone, le notizie in suo possesso sul conto di Contrada.

Lo aveva fatto, però "mal volentieri" perchè, in quel periodo, non era disposto a parlare di uomini dello Stato, essendo convinto che ciò lo avrebbe esposto al rischio di vedere smentita, per le coperture di cui essi potevano godere, la sua generale credibilità.

Aveva chiarito di essersi deciso a dichiarare all’Autorità Giudiziaria italiana quanto appreso sul conto dell’odierno imputato, con maggior dovizia di particolari, solo nel corso dell’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 25 novembre 1992.

La scelta di abbandonare il suo iniziale atteggiamento era scaturita dalla “illusione” che, a seguito delle stragi in cui avevano perso la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino, fossero maturate le condizioni generali che avrebbero consentito di procedere ad un’azione più incisiva nei confronti della mafia e dei soggetti con essa collusi, appartenenti alle più alte sfere del potere istituzionale.

Il Tribunale, dopo avere rilevato che la generale credibilità del Buscetta era già stata acclarata nel primo maxi-processo, valutava come assolutamente genuine ed originali le accuse formulate a carico dell’imputato, rivelate sin dal lontano 1984, e cioè all’inizio del proprio rapporto di collaborazione con la giustizia; accuse bensì sintetiche e parziali, ma risalenti ad un epoca assolutamente non sospetta (o più esattamente, immune da qualsiasi sospetto di ipotetica manipolazione) e dunque costituenti <<un importantissimo “riscontro ex ante” delle più ampie dichiarazioni>> rese dallo stesso Buscetta nel 1992 (pag. 784 della sentenza di primo grado).

L’importanza del contributo nel presente procedimento emergeva, ad avviso del Tribunale, sotto ulteriori profili:



  • le notizie sul conto dell’odierno imputato, apprese direttamente dal Riccobono e confermate dal Bontate, coincidevano, sia in ordine al contenuto che alla collocazione cronologica (con riferimento al consolidarsi del rapporto collusivo), con quelle riferite dagli altri collaboratori di giustizia escussi in dibattimento;

  • i chiarimenti forniti dal Buscetta in ordine al significato della notizia appresa dal Riccobono sul conto dell’odierno imputato (l’essere “a disposizione di Cosa Nostra”) convergevano con quelli forniti dei collaboratori di giustizia Cancemi e Mutolo, configurando una tipologia di condotta assolutamente conforme alla contestazione a carico di Contrada;

  • le specifiche circostanze in cui Buscetta aveva appreso tale notizia e gli strettissimi rapporti personali sia con Rosario Riccobono che con Stefano Bontate deponevano nel senso della genuinità delle fonti del collaborante;

  • non sussisteva alcun dato processuale idoneo a giustificare una deliberata calunnia da parte del Buscetta ai danni dell’imputato.

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A Tommaso Buscetta sono dedicati il Volume IV, capitolo V, paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione e l’intero volume III dei Motivi nuovi di appello (pagine 1-142).

Segnatamente, nell’Atto di Impugnazione si espone che le dichiarazioni rese al Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto ed al Giudice Istruttore Giovanni Falcone, cristallizzate nel verbale del 18 settembre 1984 (trasmesso al Pubblico Ministero per quanto ritenuto di sua competenza) erano state oggetto di un’indagine articolata e approfondita.

All’esito, il Procuratore della Repubblica di Palermo, nella propria requisitoria del 19 febbraio 1985, aveva concluso chiedendo dichiararsi non promuovibile l’azione penale per la manifesta infondatezza della notizia criminis, avendo le indagini permesso di accertare una cospicua e prolungata attività di polizia giudiziaria svolta da Bruno Contrada nei confronti di Rosario Riccobono e degli appartenenti alla sua cosca.

In accoglimento della richiesta, in data 7 marzo 1985 il Giudice istruttore del Tribunale di Palermo aveva emesso decreto di archiviazione, che il 18 maggio 1985 il Consigliere Istruttore dott. Caponnetto aveva fatto pervenire in copia all’imputato, accompagnandolo con un biglietto recante le parole: “Con i piu’ cordiali saluti”.

Il volume III dei Motivi nuovi è dedicato, nella sua prima parte (pagine 1-29), ad una più specifica analisi degli atti di quell’inchiesta giudiziaria, cioè il compendio documentale relativo alle indagini condotte da Contrada nei riguardi di Rosario Riccobono e della sua famiglia mafiosa, le sommarie informazioni rese dello stesso Contrada e del dott. Camillo Albeggiani (medico condotto della borgata di Partanna Mondello ed amico dell’odierno imputato), nonchè da vari funzionari e sottufficiali di Polizia (tra i funzionari, anche l’ex Questore dott. Vincenzo Immordino e l’ex dirigente della Squadra Mobile Dott. Giuseppe Impallomeni, che pur avendo avuto ragioni di frizione con l’odierno imputato non avevano espresso accuse o avanzato sospetti di collusione nei suoi confronti23).

Ne era emersa, a giudizio del magistrato requirente, la mancanza di elementi indizianti <<una protezione che il dott. Contrada avrebbe accordato a taluni boss latitanti e segnatamente a Rosario Riccobono ed alla sua cosca >>.

L’ulteriore sviluppo delle argomentazioni difensive (pagine da 30 a 56 del terzo volume dei motivi nuovi) ruota sul tema della presunta incompatibilità logica tra le assicurazioni di Rosario Riccobono sull’ impunità di cui Buscetta avrebbe potuto godere se fosse rimasto nel suo territorio ed il personale impegno di Contrada nell’evidenziare le ragioni che sconsigliavano la semilibertà, poi concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Torino con ordinanza del 28 gennaio 1980; impegno comprovato dai telex del 24 dicembre 1979 e del 18 gennaio 1980, con i quali si delineava la personalità criminale del Buscetta.

Infine, i difensori appellanti, rassegnati gli elementi, a loro avviso, di difformità tra le dichiarazioni di Buscetta, siccome verbalizzate il 18 settembre 1984, e quelle rese all’udienza del 25 maggio 1994 (pagine 57- 79 del terzo volume dei motivi nuovi) nonché le incongruenze da loro ravvisate nella deposizione testimoniale dell’ex Consigliere istruttore di Palermo Antonino Caponnetto, (ibidem, pagine 80 - 88), hanno riassunto i rilievi critici avverso la sentenza di primo grado (pagine 89 - 134) e tratto le relative conclusioni (pagine 135- 142).

Tanto premesso, rinviando, per la positiva verifica dell’attendibilità intrinseca del collaborante, alle considerazioni svolte alle pagine da 780 a 791 della sentenza appellata, giova richiamare il tenore delle dichiarazioni rese il 18 settembre 1984 al cospetto dei magistrati Falcone e Caponnetto (il verbale, nella parte ad esse relativo, è stato acquisito al fascicolo del dibattimento all'udienza del 25 maggio 1994 all’esito dell’esame e delle contestazioni del Pubblico Ministero):



<<"Le SS. LL. mi chiedono se mi risulta che organi preposti alla repressione del fenomeno mafioso siano in qualche modo collusi con "Cosa Nostra". Posso dire che a me risulta che a Palermo gli organi di polizia hanno fatto sempre il loro dovere.
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