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Lo svolgimento del processo


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  • del tutto inconducenti, dunque, anche a volere prescindere dalla inconsistenza delle osservazioni riguardanti i rapporti personali tra il dr. Contrada e le signore Fisher ed Ingoglia, sono gli accertamenti di Polizia Giudiziaria (effettuati incrociando i nomi di donna risultati dalle agende dell’imputato con gli acquisti di autovetture Alfa Romeo presso il concessionario Calogero Adamo), in ordine all’epoca del pagamento del prezzo delle autovetture rispettivamente acquistate dalla Fisher e dalla Ingoglia;

  • quest’ultima, infatti, aveva acquistato una “Giulietta 1600”, in data 17/6/1982, per un prezzo di £ 12.000.000, pagato quanto a £ 5.000.000 in data 14/6/1982 e quanto a £ 7.000.000 in data 22/6/1982, mentre la Fisher si era resa acquirente di una “Alfa Sud” targata Bolzano, come da fattura emessa in data 24 Giugno 1982, per un prezzo di lire 8.101.000, pagato in più soluzioni tra il 27 maggio 1982 ed il 22 giugno 1982;

  • le emergenze dibattimentali avrebbero, addirittura, offerto la prova contraria del fatto affermato dal Mutolo de relato di Rosario Riccobono;

  • ed infatti, , nel giugno 1981 era stata acquistata presso l’Adamo una “Golf” per la somma di lire 10 milioni, pagata per cassa, con intestazione a nome di Rosalia Vitamia, moglie del Riccobono, mentre nel novembre dello stesso anno risultava l’acquisto di una FIAT 127, per la somma di lire 5 milioni e mezzo, con intestazione a Margherita Greco, madre del Riccobono, anch’essa pagata per cassa, per un complessivo ammontare di quindici milioni mezzo di lire.

    Osserva questa Corte che l’acquisto di autovetture per i propri familiari, da parte del Riccobono, non costituisce una smentita del narrato del collaborante: il Mutolo, invero, ha menzionato, de relato del suo “capofamiglia” una autovettura Alfa Romeo e non DI UNA “Golf” e di una “FIAT 127” che lo stesso Adamo, concessionario Alfa Romeo, escusso all’udienza del 25 ottobre 1994, ha riferito di avere prelevato presso altri rivenditori a titolo di cortesia nei riguardi del Riccobono, conseguendo un margine di guadagno irrisorio.

    D’altra parte, come persuasivamente osservato dal Tribunale, non è realistica l’ipotesi che il Riccobono avesse avvertito l’esigenza di trarre in inganno il Mutolo per pagare con la cassa della famiglia mafiosa gli acquisti di due vetture per la sua famiglia anagrafica, dati i <>(pagina 524 della sentenza appellata).

    E’ pur vero, però, che la esclusione dell’ipotesi del mendacio da parte del Riccobono non elide la necessità dei riscontro al narrato del Mutolo, laddove gli <<elementi indiretti di concordanza>> evidenziati dal Tribunale hanno una mera dignità congetturale che non basta a rendere credibile la specifica indicazione accusatoria dell’esborso di quindici milioni di lire per l’acquisto di una autovettura Alfa Romeo, prima delle festività natalizie del 1981, destinata ad una amante dell’imputato (dono di notevole valore, equivalendo detta somma, all’attualità, a circa venticinquemila euro).

    L’episodio, d’altra parte, non essendo stato provato il movente corruttivo della condotta di concorso esterno ritenuta a carico dell’imputato, non può nemmeno legittimare la cd. traslazione dei riscontri, ammissibile allorché il chiamante in correità renda dichiarazioni che concernono una pluralità di fatti-reato commessi dallo stesso soggetto e ripetuti nel tempo e sussistano ragioni idonee ad imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni accusatorie, quali l'identica natura dei fatti in questione, l'identità dei protagonisti o di alcuni di loro, l'inserirsi dei fatti in un rapporto intersoggettivo unico e continuativo (cfr. ex plurimis, Cass. Pen. sezione VI, sentenze n. 3945/99 e n. 1472/98).

    Una siffatta lacuna non è stata colmata dalle dichiarazioni rese nel primo dibattimento di appello dai collaboranti Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato.

    Segnatamente, all’udienza del 18 febbraio 1999, il Ferrante, già uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo, ricadente nel mandamento di Partanna Mondello, ha riferito che, nello stesso torno di tempo della sua formale affiliazione, avvenuta nel dicembre 1980, il suo sottocapo Pippo Gambino aveva comunicato che non c’erano soldi in cassa perché Rosario Riccobono aveva preteso dalle quattro famiglie del suo mandamento un contributo di tre o quattro milioni di lire, destinato all’acquisto di una autovettura da regalare al dott. Contrada. Lo stesso Ferrante ha sostenuto di avere sentito parlare, per la prima volta, dell’odierno imputato in quella circostanza.

    Indipendentemente, infatti, dal giudizio di attendibilità intrinseca del Ferrante (sulle cui dichiarazioni non risulta compiuta alcuna attività integrativa di indagine per la ricerca di eventuali riscontri11), è palese come lo stesso si sia riferito ad un prelievo nell’imminenza del Natale 1980 e non del 1981, incidente sulle casse delle famiglie del mandamento di Partanna Mondello e non, esclusivamente, della famiglia del Riccobono ( le cui finanze, peraltro - ha chiarito il Mutolo - ben floride grazie ai proventi del traffico degli stupefacenti, non erano state depauperate più di tanto dalla trattenuta dei quindici milioni di lire).

    Oltretutto, stando al narrato del Ferrante, il Riccobono non avrebbe avuto ragione di detrarre quindici milioni di lire in sede di conteggi, avendo già ottenuto il denaro per pagare l’autovettura con un prelievo straordinario dalle casse delle famiglie.

    In sostanza, le dichiarazioni del Ferrante appaiono positivamente apprezzabili unicamente come indicatore dell’assenza di qualsiasi ipotesi di complotto - proprio perché una preordinazione di esso avrebbe imposto una lettura lucida ed orientata degli atti del giudizio di primo grado - ma non hanno corroborato in alcun modo quelle del Mutolo.

    Considerazioni analoghe possono farsi a proposito delle propalazioni del collaborante Francesco Onorato, il quale, all’udienza del 19 gennaio 1999 (pag. 35 della trascrizione) ha dichiarato che Calogero Adamo, recatosi al bar “Singapore”, luogo di incontri dei mafiosi della famiglia di Partanna Mondello, avrebbe ricordato a Salvatore Micalizzi <<che Riccobono doveva dargli dei soldi, perché aveva dato una macchina al dott. Contrada>>.

    Ora, a parte la carenza di riferimenti temporali, questo episodio non si concilia con il presupposto della detrazione dei quindici milioni di lire, cioè con il loro pagamento.

    Lo stesso Adamo, del resto, escusso nel primo dibattimento di appello all’udienza del 17 marzo 2000, non si è limitato a smentire l’episodio (cosa che avrebbe avuto interesse (cosa che, al limite, avrebbe avuto interesse a fare), ma ha riferito che il Riccobono era un ottimo cliente, avvezzo a pagare in contanti, o talvolta con assegni, ma comunque sempre per cassa, le autovetture che acquistava (pag. 100 della trascrizione).

    Tali precisazioni, non smentite in alcun modo dalle risultanze processuali , appaiono credibili alla stregua della caratura mafiosa del Riccobono, tale da rendere poco verosimile la sua messa in mora, così come,a monte, il suo inadempimento.

    In conclusione, l’indicazione accusatoria del Mutolo, relativa alla detrazione del prezzo di una Alfa Romeo”, non è corroborata da adeguati riscontri esterni ma non ridonda nemmeno a detrimento della complessiva attendibilità del collaborante, così come della notevole portata del suo contributo, positivamente verificate dal Tribunale.


    CAPITOLO IV
    Le censure riguardanti le propalazioni di Francesco Marino Mannoia

    Francesco Marino Mannoia aveva riferito di essere stato formalmente affiliato a "Cosa Nostra" nella famiglia di Santa Maria di Gesù, capeggiata da Stefano Bontade, nella primavera del 1975.

    Il suo patrimonio di conoscenze, rilevava il Tribunale, si era rivelato particolarmente ricco ed il suo contributo alla giustizia si era dimostrato eccezionale: egli, infatti, pur da "soldato" di Stefano Bontate, era stato in diretti rapporti con lui - privilegio riservato ad altri nove “soldati”, che lo sottraeva alla intermediazione gerarchica del sottocapo, dei capidecina o dei consiglieri - e, successivamente, era stato inserito per molti anni nei traffici di stupefacenti gestiti dai "corleonesi".

    Il collaborante aveva avuto, altresì, assidui contatti con il gruppo di mafia facente capo a Rosario Riccobono, con il quale aveva commesso svariati crimini oggetto delle sue confessioni.

    L’importanza della sua collaborazione con la giustizia aveva trovato un primo e positivo riscontro da parte della Suprema Corte nella sentenza n° 80 del 1992 della Suprema Corte di Cassazione, conclusiva del primo maxi-processo, e nel fatto che, come conseguenza giuridica del giudizio positivo formulato dalla stessa Suprema Corte sulla sua attendibilità, gli era stata riconosciuta la diminuente di cui all’art. 8 D.L. 13 Maggio 1991 n° 152 conv. in L. 12 Luglio 1991 n° 203.

    Punto critico della valutazione della sua credibilità intrinseca veniva considerata dal Tribunale la "tormentata evoluzione" che aveva scandito - e non soltanto con riguardo alla posizione dell’odierno imputato - il divenire del suo pentimento.

    Lo stesso Marino Mannoia, infatti, aveva chiarito che, quando nel 1989 aveva iniziato la propria collaborazione con la Giustizia, si era limitato ad autoaccusarsi di appartenenza all’associazione criminale “Cosa Nostra”, nonché di reati in materia di armi e traffico di stupefacenti, non affrontando il delicato tema delle collusioni con la mafia da parte di soggetti appartenenti alle istituzioni, data la sfiducia che nutriva nei confronti dello Stato italiano, che non gli sembrava approntare alcuna efficace politica governativa di lotta alla mafia, né, tanto meno, di tutela dei collaboranti e dei loro familiari.

    Nel contempo - per ragioni esclusivamente personali, dovute alla difficoltà di affrontare questo aspetto della propria antecedente condotta di vita con la propria convivente e con la figlia da lei avuta - aveva deciso di non confessare le proprie responsabilità in ordine agli omicidi commessi.

    Solo dopo alcuni anni, mentre si trovava negli Stati Uniti d’America, dove vigeva una legislazione organica a tutela dei collaboranti, aveva riflettuto sul programma di protezione offertogli, che avrebbe potuto garantire sicurezza alla sua famiglia ove si fosse deciso a confessare in modo completo le proprie responsabilità,. A queste condizioni, intorno al gennaio 1993, aveva sottoscritto l’accordo di collaborazione con il Governo statunitense.

    In tale contesto, si era verificata la “svolta” nella sua collaborazione. Egli aveva confessato tutti i delitti commessi, ammettendo le proprie responsabilità anche in ordine agli omicidi cui aveva partecipato, informando, tramite i propri legali, l’Autorità Giudiziaria palermitana e rinunciando alle garanzie procedurali di “inutilizzabilità” nei propri confronti delle sue confessioni previste dal trattato di mutua assistenza giudiziaria fra l’Italia e gli U.S.A.; indicatore, questo, della genuinità del suo proposito di collaborare.

    Tuttavia, nonostante tale scelta, egli non aveva detto quanto a sua conoscenza sull’odierno imputato nel corso dell’interrogatorio reso negli Stati Uniti il 3 Aprile 1993 ai magistrati della Procura di Palermo sui c.d. omicidi politici (segnatamente l’omicidio Lima, le vicende concernenti l’On. le Andreotti ed altri episodi di collusione tra uomini politici e “Cosa Nostra”).

    Ad impedirgli, infatti, una lucida messa a fuoco dei suoi ricordi - spiegazione ritenuta plausibile dal Tribunale, salva la necessità di un più prudente e rigoroso accertamento dei riscontri alle sue successive indicazioni accusatorie - erano state le particolari condizioni di stanchezza e “stress” in cui egli si era trovato quando era stato affrontato, alla fine di quell’interrogatorio lunghissimo ed estenuante, protrattosi fino a tarda notte, l’argomento “Contrada”.

    Sul punto, infatti,egli era stato assai evasivo, rispondendo: <<Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale. Con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi>> (pag. 608 della sentenza appellata).

    In data 27 Gennaio 1994 - unica volta in cui era stato sentito dall’Autorità Giudiziaria italiana dopo il 3 Aprile 1993 - egli era stato nuovamente interrogato dai magistrati della Procura della Repubblica di Palermo per rogatoria, negli Stati Uniti d’America, su alcuni omicidi da lui confessati.

    In quel contesto, prendendo spunto dal proprio coinvolgimento nel tentato omicidio di tale Lo Piccolo, sventato da un agente di Polizia della sezione antirapine della Squadra Mobile che si trovava insieme alla vittima designata, egli aveva ricordato uno specifico episodio di favoritismo nei propri riguardi da parte del dott. Vincenzo Speranza, dirigente della predetta sezione, dovuto al rapporto personale del funzionario di Polizia con Stefano Bontate12. Lo sfondo collusivo di quella vicenda lo aveva portato a mettere a fuoco la figura di Contrada quale “altro funzionario di Polizia” in rapporti con esponenti di “Cosa Nostra”, e segnatamente con Rosario Riccobono.

    Il Tribunale, a questo punto, sottolineava che, nel corso del suo esame, il Marino Mannoia aveva offerto un contributo originale, e dunque immune dal sospetto di pedissequo adeguamento o di adattamento manipolatorio delle sue dichiarazioni a quelle di altri collaboranti, menzionando situazioni e fatti specifici al di là del quadro collusivo da lui delineato, e segnatamente:



    • una conversazione, svoltasi intorno al 1979, tra Stefano Bontate ed il suo sottocapo Giovanni Teresi, dipendente di Arturo Cassina, vertente su un appuntamento da fissare, per il tramite dell’imprenditore Arturo Cassina, con Contrada;

    • l’intervento di Contrada per il rilascio della patente di guida allo stesso Bontate, precedentemente revocata per effetto di una misura di prevenzione (all’udienza del 28 aprile 1994 ne aveva parlato anche il collaborante Salvatore Cancemi, tanto che il Tribunale ravvisava nella propalazione in esame un riscontro al suo narrato, al pari degli ulteriori elementi di conferma risultanti dall’analisi del compendio documentale relativo alla pratica);

    • la restituzione della patente di guida al mafioso “Pinè” Greco - "uomo d'onore" di Ciaculli, cugino di Greco Michele detto "il papa" e di Salvatore Greco detto "il senatore", soggetti che altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Marchese, aveva indicato in stretto contatto con l'imputato.

    Quanto a quest’ultimo episodio, secondo la ricostruzione del Tribunale la patente del Greco era stata sospesa a tempo indeterminato a seguito di un provvedimento di diffida.

    Il Greco, con istanza del 20 agosto 1979 - a quella data, Contrada ricopriva il doppio incarico di dirigente della locale Squadra Mobile e della Criminalpol - inoltrata alla Questura di Palermo, ne aveva richiesto la restituzione per ragioni di lavoro legate alla sua attività di agricoltore (sulla falsariga di quanto, in precedenza, aveva fatto il Bontate) e gli uffici della Questura avevano dato avvio con "rara celerità" ad un’istruttoria che sembrava preludere ad un esito favorevole.

    Senonchè, quando la pratica per la patente del Greco era giunta al Questore Immordino (nelle more, subentrato al dott. Epifanio), questi aveva ritenuto di redigere personalmente il parere negativo da inoltrare alla Prefettura.

    Davanti all’ostacolo del parere di Immordino, che aveva impedito al Greco di ottenere per vie regolari la restituzione della patente (conseguita, invece, dal Bontate nel periodo in cui la Questura era retta dal dott. Epifanio), l’unica possibilità era quella di ricorrere alla sottrazione materiale del documento, giacente presso gli atti della Prefettura.

    Tale sottrazione era stata perpetrata, e detto riscontro, ad avviso del Tribunale, risultava individualizzato dal fatto il personale di Polizia ha, normalmente, accesso agli archivi esistenti presso l’Ufficio patenti della Prefettura, essendo stata solo in tempi recenti instaurata la prassi di formalizzare una richiesta scritta per la consultazione, di cui rimane traccia agli atti .

    Analoghe anomalie, peraltro, venivano ravvisate da quel giudice nella pratica di rilascio del passaporto allo stesso Greco.

    Tanto premesso, le censure concernenti la figura e le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia sono state articolate:


    • per ciò che riguarda l’attendibilità intrinseca del collaborante, nel volume II, capitolo V, paragrafo V. 1 dell’Atto di impugnazione (pagine 1- 69) e nel volume 16 dei Motivi nuovi;

    • per quanto attiene al tema “Interessamento del dott. Contrada per la patente a Stefano Bontate”, nel volume II, capitolo V, paragrafo V. 1 dell’Atto di impugnazione, nell’ambito delle doglianze riguardanti la valutazione delle propalazioni del pentito Salvatore Cancemi (pagine 70-115);

    • per quanto concerne il presunto interessamento del costruttore Angelo Graziano nel procurare al Contrada l’appartamento di via Jung n. 12, nel volume V dei motivi nuovi, congiuntamente alle censure riguardanti le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo;

    • per quanto riguarda l’instaurazione dei rapporti tra l’odierno imputato e Stefano Bontate per il tramite di Arturo Cassina, nel volume 16 dei Motivi nuovi.

    Di assoluta preminenza, nel costrutto difensivo, è il tema della credibilità del collaborante, messa in discussione per la tempistica ed i contenuti delle sue propalazioni.

    Il Tribunale ha evidenziato come, in generale, il ritardo della legislazione nell’approntare adeguati strumenti di tutela dei pentiti e dei loro familiari, così come il timore di perdere credibilità formulando accuse di collusione, e quindi di trovarsi maggiormente esposti, avessero reso giustificabile una certa gradualità nelle collaborazioni (cfr. pagine 599- 604 della sentenza appellata)13.

    Ha rimarcato la centralità dei criterio normativo dei riscontri estrinseci (pag. 605) ed ha ritenuto genuina la risoluzione del collaborante a riferire senza riserve quanto a sua conoscenza (pagine 606 e 607).

    Si è soffermato, quindi, sulle contestazioni mosse dalla Difesa in relazione all’unico interrogatorio del 1993 all’autorità Giudiziaria Italiana di cui - in prime cure - si era a conoscenza; quello, cioè, reso il 3 aprile 1993 presso l’U.S. Attorney’s Office del Distretto Meridionale di New York nell’ambito della commissione rogatoria internazionale autorizzata in relazione al procedimento penale n°1557/1992 della Procura della Repubblica di Palermo, concernente l’omicidio dell’On. le Salvatore Lima.

    L’atto istruttorio aveva avuto inizio alle h. 10.00 del 3 Aprile 1993 ed era stato concluso alle h. 1.00 del 4 Aprile 1993, protraendosi per quindici ore consecutive. Nel corso di esso erano state verbalizzate complessivamente n°20 pagine, e la domanda concernente l’odierno imputato era stata verbalizzata nella parte finale del foglio n° 18, seguito dal foglio n° 19, comprendente ulteriori domande, e dal foglio conclusivo n°20, contenente poche righe e le sottoscrizioni finali.

    Il Tribunale ha ritenuto, in tale contesto, la risposta :<<Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale. Con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi>>, fosse sintomatica di una precisa scelta <> (pagine 609-610 della sentenza appellata), anche perché la domanda, al pari di altre, esulava dallo specifico tema della rogatoria.

    Successivamente alla pronunzia della sentenza di primo grado la Difesa è venuta in possesso del verbale di interrogatorio reso dal Marino Mannoia il 2 aprile 1993 ai magistrati della Procura della Repubblica di Caltanissetta, che lo avevano interrogato per rogatoria il 2 aprile 1993 <<nell’ambito dei procedimenti relativi alla morte del giudice Giovanni Falcone, della dott.ssa Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, del giudice Paolo Borsellino e degli uomini della scorta; per il fallito attentato all’Addaura del giugno 1989; per le ipotesi di (illeggibile) magistrati del distretto di Palermo>>14.

    In detto verbale, di cui il Tribunale non aveva avuto cognizione, è riprodotta una risposta analoga a quella data il giorno successivo ai magistrati della Procura di Palermo, e cioè <<Non ricordo di avere mai conosciuto il dott. Bruno Contrada e l'Ispettore Luigi Siracusa, nè ricordo di aver mai sentito parlare degli stessi come persone legate o comunque vicine a Cosa Nostra. Ricordo solo di aver sentito nominare il dott. Contrada solo come componente dell'apparato della polizia che lavorava a Palermo>>.

    A seguito della notizia delle dichiarazioni rese il 2 aprile 1993, il Marino Mannoia è stato nuovamente escusso nel primo giudizio di appello: all’udienza del 20 maggio 1999 ha risposto che, in quel frangente, non conservava alcun ricordo di Contrada al di là della sua veste di funzionario, e che egli stesso era rimasto disorientato perché convinto di dover rispondere su vicende criminali che lo avevano visto personalmente coinvolto.

    Tanto premesso, le argomentazioni difensive circa la dedotta non plausibilità della risposta data il 3 aprile 1993 e circa il senso della risposta data il 2 aprile 1993 possono riassumersi nei seguenti termini:



    1. se il 3 aprile 1993 avesse davvero taciuto perché non più lucido, il collaborante << avrebbe fatto presente il suo stato di stanchezza ed avrebbe quindi potuto manifestare con poche parole la riserva di riferire ciò che era a sua conoscenza in un momento successivo (l'indomani o in altra occasione), e non avrebbe di certo dichiarato : "Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale...">> (pag. 9 vol. II capitolo V paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione);

    2. come risulta agli atti, l’interrogatorio del 3 aprile 1993 aveva avuto inizio alle ore 10.00 ed era terminato alle ore 1.00 del successivo 4 aprile 1993, e pertanto, a fronte di una durata complessiva di quindici ore, date le venti pagine del verbale, la redazione di ogni pagina avrebbe avuto una durata media di ben 45 minuti (ibidem, pag.27);

    3. posto che la risposta del Marino Mannoia sul conto di Contrada è riportata all’inizio della pag. 18 del verbale, se essa fosse stata dettata <<dalla mente stanca>> in una situazione di stress, distruzione psicologica, e <<bisogno di andare a buttarsi immediatamente su di un letto>>, non vi sarebbero state le ulteriori dichiarazioni che riempiono la parte restante della pag. 18 del verbale, l’intera pag. 19 ed ancora la pag. 20 (ibidem, pagine 27-29);

    4. <">> (ibidem, pag.10);

    5. in altri termini, delle due l’una, o Marino Mannoia aveva mentito ad aprile 1993
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