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Lo svolgimento del processo


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Vorrei riferire, solo per completezza, un fatto che, a mio avviso, dimostra proprio quella che è la mia convinzione.
Quando mi sono recato a Palermo in licenza durante il regime di semi-libertà, mi sono incontrato anche con Rosario Riccobono il quale mi disse che era opportuno che io non rientrassi a Torino e riprendessi il mio posto attivo in "Cosa Nostra".
Soggiunse che potevo nascondermi nel territorio della sua famiglia e che non c'erano problemi che qualcuno venisse a cercarmi perché la Polizia non sarebbe venuta a cercarmi in quella zona. Successivamente, quando mi allontanai arbitrariamente da Torino e tornai a Palermo, riferii il contenuto delle suddette affermazioni del Riccobono a Stefano Bontade ed egli mi rispose che il Riccobono era "sbirro" in quanto amico di . Contrada della Polizia di Palermo>>.
Orbene, come rilevato dai difensori appellanti, a parte la divergenza nella collocazione temporale della conversazione tra Buscetta e Riccobono, considerata di marginale importanza (in sede di esame il collaborante ha affermato che, in quel frangente non era in licenza, ma si era già sottratto al regime di semilibertà, del quale aveva goduto da gennaio a giugno 1980 a Torino), la discordanza più rilevante consisterebbe nel fatto che:
  • nella versione verbalizzata nel 1984 non è il Riccobono - il quale si limita ad assicurare al Buscetta che la “Polizia” non lo andrà a cercare nel suo territorio - a fare il nome di Contrada, ma è Stefano Bontate, che esorta lo stesso Buscetta a diffidare di quelle assicurazioni perché lo stesso Riccobono è “sbirro”, cioè un possibile delatore;
  • in sede di esame, invece, le assicurazioni di Riccobono vengono direttamente riferite alla persona dell’imputato (<> (pagine 3-4 trascrizione udienza 25 maggio 1994), anche se viene confermata, in modo più sfumato, l’esortazione a diffidare rivolta da Stefano Bontate (<>).
Nel commentare, quindi, le giustificazioni offerte dal Buscetta, i difensori appellanti hanno duramente stigmatizzato alcune sue ulteriori affermazioni, e cioè che:
  • qualora, il 25 novembre 1992, i Magistrati del Pubblico Ministero che lo avevano interrogato gli avessero esibito il verbale del 1984, egli ne avrebbe confermato il contenuto;
  • non essendo accaduto ciò, il 25 novembre 1992 egli aveva narrato i fatti secondo ciò che ricordava in quel momento (narrazione pacificamente conforme a quella resa in dibattimento);
  • il fatto che non fosse stato esplicitato, nel verbale del 18 settembre 1984, che il Riccobono ex ore suo si fosse direttamente riferito a Contrada, poteva essere dipeso da una “manchevolezza” del giudice Falcone, consistita nel non avere posto una specifica domanda sul punto, ovvero da una disattenzione di esso collaborante;
  • alla verbalizzazione su quell’argomento egli si era prestato malvolentieri.

Va ricordato, per un corretto inquadramento del contesto in cui si svolse l’interrogatorio del 18 settembre 1984, quanto riferito dal Buscetta a domanda del Presidente del collegio, e cioè che (pagine 89 e segg. trascrizione udienza 25 maggio 1994), in una fase propedeutica alla verbalizzazione, il giudice Falcone gli aveva proposto di fare assistere all’atto istruttorio il dott. Cassarà, funzionario di P.S., persona di assoluta affidabilità. Egli aveva manifestato la propria contrarietà a tale proposta, adducendo di non fidarsi degli appartenenti alla Polizia di Palermo perchè sapeva che, al suo interno, vi era corruzione (BUSCETTA T.:Una volta mi fece una proposta di fare assistere agli interrogatori il defunto Commissario di Polizia Ninni Cassara', al quale io mi rifiutai. Lui insistette e disse: "Signor Buscetta, le garantisco, il dott. Cassara' puo' assistere, non sfuggiranno notizie" Non intendo parlare davanti un funzionario di Pubblica Sicurezza, perche' io so, mi risulta che c'e' della corruzione nella Polizia di Palermo, quindi non ne voglio. Allora mi dica il nome. Il nome? Io non lo so, non ne ho nome. No, ma lei deve avere un'idea. Questo e' il linguaggio fra me e il dott. Falcone, che ancora non viene registrato, non viene verbalizzato perche' si tratta di ammettere alla nostra presenza il dott. Ninni Cassara', quindi e' una parlata piu' che altro generalizzata, si arriva al nome del dott. Contrada>>).

In tale cornice, dunque, esso collaborante aveva fatto il nome dell’odierno imputato e, di fronte all’insistenza del giudice Falcone e dello stesso Consigliere istruttore Caponnetto a verbalizzare quanto a sua conoscenza sul conto di Contrada, si era mostrato riluttante per i timori già esposti, timori superati dopo le stragi del 1992.

Persuasivamente, dunque, il Tribunale ha ritenuto emblematica di tale tensione e dell’avversione manifestata dal Buscetta alla verbalizzazione la circostanza che egli avesse < “posso dire che mi risulta che a Palermo gli organi di Polizia hanno fatto sempre il loro dovere (cfr. ff. 96 e ss. trascr. cit.) pur essendo convinto, invece, del contrario>> (pag. 776 della sentenza appellata).

In sintesi, dunque, il contrasto tra la verbalizzazione del 18 settembre 1984 e le iniziali esternazioni di Riccobono, riferite da Buscetta, sulla “Polizia”, non enuncia né la scarsa credibilità dello stesso Buscetta, né la scarsa professionalità del giudice Falcone.

Il collaborante, infatti, motivò prima del suo interrogatorio, e quindi prima della verbalizzazione, il suo rifiuto a deporre alla presenza del dott. Cassarà con la sua sfiducia nella Polizia, considerata inaffidabile perché tramite di informazioni, facendo il nome di Contrada.

A questo punto, fermato ed invitato (nella sua ottica, “costretto”) a precisare le sue dichiarazioni sotto una veste formale,egli fece riferimento alla qualità di confidente di Contrada - attribuita a Riccobono da Bontate - come esemplificazione del concetto che le forze di Polizia facevano il loro dovere, esprimendosi in modo obliquo, e cioè con un artificio retorico perfettamente consentaneo al dire mafioso.

Egli, cioè, intese sottolineare un rapporto personale che, sia per le modalità della sua descrizione in termini di contrasto tra apparenza e realtà, sia per la caratura criminale dello stesso Riccobono meritava un approfondimento investigativo, che in effetti vi fu, ancorchè sulla base degli elementi all’epoca disponibili.

In sostanza, il verbale del 18 settembre 1984, dotato di fede privilegiata, contiene espressioni effettivamente pronunciate, frutto, da parte del collaborante, di un accorto e sapiente dosaggio delle parole e dei concetti; un dire e non dire, che, collegato alle battute sulla inaffidabilità della Polizia che ne avevano preceduto la stesura, e letto criticamente nell’ottica del mafioso Buscetta, assumeva un significato potenzialmente opposto al senso letterale di quanto affermato e verbalizzato. Ben si spiegava, dunque, la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero, disposta dai giudici Falcone e Caponnetto.

Né scandalizza, ad onta di quanto sostenuto dai difensori appellanti, che il Buscetta dica che avrebbe confermato, se gli fossero state lette dai magistrati del Pubblico Ministero che nel 1992 lo avevano interrogato, le dichiarazioni verbalizzate il 18 settembre 1984. Si tratta, all’evidenza, di una conferma del tenore allusivo di queste ultime, desumibile anche dal fatto che in esse non viene esplicitato che Riccobono avesse taciuto il nome di Contrada.

Allo stesso modo, è normale che a quei magistrati, nel 1992, Buscetta dicesse ciò che ricordava in quel momento.

La ipotizzata “manchevolezza” del giudice Falcone nel non avere fatto mettere a fuoco e verbalizzare, nel 1984, che il nome di Contrada era stato fatto da Rosario Riccobono prima che da Stefano Bontate, è, all’evidenza, una spiegazione che il collaborante cerca di dare a sè stesso, alternativa all’ipotesi che fosse stato lui a non enucleare questo punto (<<Sfuggi' a lui, sfuggi' a me, perche' era, ripeto ancora una volta, un verbale che era nato male e che io non avrei voluto assolutamente fare>>, pag. 91 della trascrizione).

D’altra parte, non è illogico che Bontate avesse esortato Buscetta a diffidare del capofamiglia di Partanna Mondello proprio perché era stato Riccobono a menzionare lo stesso Contrada. Si spiega, dunque, il trapasso dialettico dal riferimento alla “Polizia” in genere (cioè dalle Forze dell’Ordine, evocate dal Riccobono nella versione del 1984) alla indicazione dell’odierno imputato (evocato nella versione del 1992, e, poi, in sede di esame).

Ed ancora, è di estrema importanza il fatto che l’accenno di Buscetta alle remore frapposte alla presenza del dott. Cassarà all’interrogatorio sia avvenuto alla fine dell’esame e grazie alle domande del Presidente del collegio. Traspare, cioè, una progressiva precisazione dei ricordi del collaborante, che porta Buscetta a focalizzare la scansione cronologica tra i preliminari e l’interrogatorio vero e proprio, veridicamente verbalizzato.

A proposito, poi, della testimonianza dell’ex consigliere istruttore Antonino Caponnetto, è del tutto marginale stabilire se fosse stato sollecitato dall’imputato o fosse stato spontaneo l’invio del biglietto del 18 maggio 1985, a firma del teste, recante la dicitura: “Con i piu’ cordiali saluti“, con cui, due mesi dopo la sua pubblicazione, venne accompagnato il decreto di archiviazione a firma del Giudice istruttore dott. Motisi.

Lo stesso Caponnetto, infatti, ha riferito di ritenere che il biglietto fosse stato chiesto da Contrada; deduzione a posteriori ricondotta alla diffidenza, da lui riferita in sede di esame, manifestatagli da Giovanni Falcone per l’odierno imputato.

In ogni caso, al di là dell’esito dell’inchiesta del 1984 e del tenore dei biglietti, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, all’epoca rimaste prive di elementi di conferma, sono state rivalutate - si intende, per ciò che valgono come riscontro ex ante di altre indicazioni accusatorie, in difetto di riferimenti a specifici episodi a sfondo collusivo - nell’ambito di questo processo, e cioè a distanza di anni dal procedimento sfociato nel decreto di archiviazione del 7 marzo 1985.

I difensori appellanti, inoltre, hanno sottolineato che, nel verbale del 18 settembre 1984, manca qualsiasi cenno da parte del Buscetta <>, laddove il teste Caponnetto aveva riferito <<:"Accennò in quel nostro incontro a complicità e a corruzioni tra i personaggi della Questura di Palermo ">>, precisando che Buscetta aveva anche detto<<"Proprio non è il caso che io faccia i nomi per ora>> (pag. 5 trascrizione udienza 19-5-95).

Anche tale dissonanza, ad avviso di questa Corte, è apparente, dovendosi, ancora una volta, ribadire che le esternazioni sulla Polizia e su Contrada scaturirono dal preannuncio della presenza del funzionario di Polizia Cassarà all’interrogatorio del 18 settembre 1984, e che non vennero ripetute nei medesimi termini al momento della stesura del verbale, quando il collaborante fece ricorso ad un artificio retorico perché riluttante a muovere accuse dirette ed esplicite ad uomini delle Istituzioni.

E’ del tutto congrua, a questa stregua, la risposta data dal teste alla domanda dell’avv. Sbacchi (cfr. pag. 25 trascrizione udienza 19 maggio 1995) :<<Quello che dichiarò Buscetta fu verbalizzato, diciamo, in termini esatti, precisi oppure si....trovarono delle forme di accomodamento? CAPONNETTO A.: Noi eravamo abituati a verbalizzare in modo preciso, avvocato>>.

Del resto, il nucleo essenziale della testimonianza del dott. Caponnetto è proprio il tema della riluttanza del Buscetta a fare i nomi di poliziotti collusi: il teste, infatti, a riprova della bontà della ricostruzione sin qui esposta (iniziale riferimento alla inaffidabilità della Polizia e menzione del dott. Contrada, occasionati dal preannuncio della presenza del dott. Cassarà), ha affermato <<quindi questo vuol dire che inizialmente aveva detto qualcosa, che mi autorizzava a fare questa domanda>>. Egli, in altri termini, ha ricollegato in modo assolutamente genuino un ricordo tendente a sbiadire (<>> , pag. 27, ibidem) al dato certo di una iniziale esternazione di Buscetta.

Deve, dunque, essere condivisa la valutazione espressa alle pagine 785 e seguenti della sentenza appellata, laddove la testimonianza di Antonino Caponnetto è definita di <<decisiva importanza, al fine di suffragare l’attendibilità del Buscetta>>.

La Difesa, ancora, ha ravvisato una incompatibilità logica tra le presunte assicurazioni di impunità fatte da Rosario Riccobono ed il personale impegno del dott. Contrada nel descrivere al Tribunale di Sorveglianza di Torino la personalità criminale di Tommaso Buscetta, impegno comprovato dai telex del 24 dicembre 1979 e del 18 gennaio 1980 e dalla annotazione nella agenda da tavolo del 18 gennaio 1980 di un colloquio telefonico con il Presidente della sezione di Sorveglianza di Torino.

Una incompatibilità siffatta, ad avviso di questa Corte, non sussiste.

Nulla, infatti, attesta che il Riccobono conoscesse la posizione assunta da Contrada nel procedimento di semilibertà (posizione della quale nemmeno il collaborante si era detto a conoscenza, rassicurato dalla notizia del parere favorevole del PM di Torino), e nulla attesta che l’imputato sapesse delle insistenti offerte di ospitalità del Riccobono.

Ciò che più interessa, tuttavia, è che il ritorno di Tommaso Buscetta aveva alimentato notevoli aspettative a seguito del mutare degli equilibri all’interno dello schieramento mafioso palermitano a vantaggio dei “corleonesi”, ben lumeggiate dallo stesso collaborante e ben descritte nella sentenza appellata (pagine 770, 795 e 796).

Il Riccobono, infatti, riteneva Buscetta un alleato prezioso nella lotta interna a “Cosa Nostra” contro i “corleonesi”, considerati alla stregua di rozzi contadini (“viddani”), tanto da esserlo andato a trovare a Palermo, nel carcere dell’Ucciardone, dove lo stesso Buscetta era stato recluso sino al 1977, prospettandogli di ricoprire in seno alla Commissione il posto di Pippo Calò, capo della famiglia di porta Nuova, cui apparteneva il collaborante (cfr. pagine 7 ed 8 trascrizione udienza 25 maggio 1994: <<Anzitutto devo premettere che io ho visto Rosario Riccobono anche in carcere a Palermo, all'Ucciardone. Cioè lui era latitante e venne a visitarmi alla Matricola dell'Ucciardone il quale parlò con me e il quale mi disse che si aspettava a me per fare una guerra, la dico in siciliano se me lo consente la Corte, per fare la guerra a sti viddani che non ne poteva più. E quindi era ansioso che io fossi posto in libertà perchè la mia maniera di agire o la mia personalità faceva sì di potere avere un equilibrio superiore in seno alla Commissione dove lui insieme a Bontate e insieme a Gigino Pizzuto, e insieme a Salvatore Inzerillo e qualche altro che in questo momento non ricordo, si trovavano in difficoltà nei confronti dei corleonesi, quando dico corleonesi non intendo dire le persone che sono nate a Corleone, ma bensì quell'ala che pensava come pensava Totò Riina, cioè Michele Greco e Riina, Provenzano, Bernardo Brusca ecc. Quindi, quando mi incontro con Riccobono, Riccobono proprio quasi ad esigere che io non andassi via da Palermo, perchè potessi creare quel senso di equilibrio in seno alla Commissione andando ad occupare il posto di Pippo Calò, famiglia a cui io appartenevo. Non so se ho esaurito la richiesta)>>.

La visita in carcere, fatto inquietante ed emblematico, è stata confermata da Gaspare Mutolo come avvenuta il giorno prima dell’omicidio dei due fratelli Ganci, implicati nel sequestro Mandalà, nel corso dell’esame del 7 giugno 1994, pagine 63 e 64 della trascrizione.

Ora, l’importanza di acquisire l’appoggio di una figura carismatica quale quella del Buscetta ben poteva indurre il Riccobono a sbilanciarsi con una promessa di ospitalità e ad una assicurazione di impunità così impegnative nei confronti del sodalizio mafioso, logicamente spiegate dal collaborante col fatto che egli stesso, in quel frangente, aveva manifestato il proposito di tornare in Brasile, dove aveva vissuto con la sua famiglia e dove tornò nel giugno 1981.

Ed ancora, a fugare l’ipotesi che il Riccobono, rivolgendosi a Buscetta avesse millantato un inesistente rapporto con l’odierno imputato militano:


  • lo strettissimo legame di amicizia tra i due mafiosi (illustrato dal collaborante richiamando l’episodio in cui egli aveva portato allo stesso Riccobono, latitante, la sua prima figlia appena nata, cfr. pag. 15 trascrizione udienza 25 maggio 1994);

  • la pericolosità stessa di una simile millanteria (<<sarebbe stato molto amaro per lui il vantarsi di amicizie che non aveva>>, pag. 70 trascrizione udienza 25 maggio 1994);

  • la stoltezza del porsi nelle condizioni di dovere rendere conto di un rapporto con un funzionario di Polizia, suscettibile di dare luogo a “mormorii” ed alla taccia di “sbirro”, ed anche bisognevole di assicurazioni al sodalizio, qualora quel rapporto non fosse mai esistito24.

Le considerazioni sin qui svolte esauriscono la massima parte delle “Osservazioni e rilievi critici “ ai quali è dedicato - talora, peraltro, sulla base di estrapolazioni del testo della sentenza appellata, che qui si intende richiamato nella sua interezza e che puntualmente ne confuta il contenuto - il quinto paragrafo del volume terzo dei Motivi nuovi.

Ad esempio, i difensori appellanti enfatizzano il fatto (pagine 92-93 del volume), che Buscetta, seppure detenuto con Salvatore Cancemi all’Ucciardone, nulla avesse da lui saputo su prove concrete di disponibilità verso l’organizzazione mafiosa da parte dell’odierno imputato, come nulla aveva detto di saperne Gaspare Mutolo, detenuto con loro. Considerano, in particolare, tale circostanza come sintomo di inattendibilità di tutti i predetti collaboranti.

Ora, rinviando alla trattazione delle censure riguardanti le propalazioni del Cancemi, non è esatto che questi, come si assume alle citate pagine 92-93, avesse detto di avere saputo nel 1976, prima della sua detenzione, che <<dire che Contrada era colluso con i mafiosi era come dire "pane e pasta”>>.

Il Cancemi, infatti, ha riferito di avere appreso a partire dal 1976 (pag. 665) della disponibilità dell’imputato a rendere favori ad esponenti mafiosi, e di avere avuto genericamente tale notizia, per la prima volta, in un frangente in cui aveva lamentato, al cospetto di Giovanni Lipari, suo capo-decina e successivamente sotto-capo della famiglia di Porta Nuova, di non potere avere la patente di guida a cagione di una misura di prevenzione irrogatagli nel 1971.

Ha pronunciato l’icastica espressione <<era come dire "pane e pasta”>> (pagine 45-46 trascrizione udienza 28.4.94), cioè “era notorio”, senza un preciso riferimento all’epoca antecedente la sua carcerazione (pagine 37,39,45 trascrizione udienza 28 aprile 1994).

In ogni caso, nella sentenza appellata si dà ampia contezza di entrambi i rilievi appena citati, riguardanti il Bontate ed il Cancemi (pagina 794):<.

D’altra parte l’unico soggetto, per quel che è emerso nell’ambito dell’odierno procedimento, che avrebbe potuto riferire al Buscetta qualche notizia di segno contrario sul conto dell’odierno imputato sarebbe potuto essere il Cancemi, che ha dichiarato di avere appreso prima del proprio arresto quelle generiche notizie sulla “disponibilità” del dott. Contrada, mentre Mutolo, come Buscetta, aveva appreso con analogo stupore solo molto piu’ tardi, quando si era presentata la possibilità e l’occasione nel 1981 di trattare l’argomento in oggetto con Rosario Riccobono, che il dott. Contrada era diventato “uomo a disposizione” di “Cosa Nostra”>>.

Analogamente, il primo giudice ha escluso in modo convincente un ulteriore, possibile profilo di contraddizione nel deposto del Buscetta, prospettato dalla Difesa nei seguenti termini (pag. 94 vol. III dei Motivi nuovi) <"era nelle mani" di Riccobono per quale motivo si doveva mormorare o criticare il comportamento di Riccobono, addirittura additandolo quale "sbirro", cioè confidente di polizia, dal momento che l'asservimento del funzionario era a vantaggio di tutta l'organizzazione?>>.

Nella sentenza appellata, infatti, si dà conto della ambivalenza degli umori e delle attese nei riguardi dell’imputato (che si coglie a piene mani, come si è detto, dalle dichiarazioni rese dal Marino Mannoia e, nel dibattimento di secondo grado dai collaboranti Giovanni Brusca ed Angelo Siino), osservandosi, alle pagg. 801 ed 802 : <>.

Senza dire che lo stesso Cancemi aveva riferito (pag. 668 della sentenza appellata) <>. Ulteriore riprova, questa, della problematicità di un rapporto che contribuisce ad attestarne l’esistenza; rapporto che l’imputato ha sempre negato di avere intrattenuto con il Riccobono anche nella forma della relazione da poliziotto a confidente e che non avrebbe avuto ragione di negare,specialmente dopo la morte del Riccobono, se fosse stato confessabile.

Ed ancora, nella sentenza appellata è stato persuasivamente affrontato l’ulteriore tema, prospettato alle pagine da 118 a 122 del vol. III dei Motivi nuovi, dell’apparente paradosso contenuto nelle assicurazioni “a tutto campo” del Riccobono al Buscetta: (cfr. pag. 803, ma questo concetto è esplicitato ancora più chiaramente alle pagine 746 e 751 a proposito delle propalazioni di Salvatore Cancemi) :<< Si è già detto che non è pensabile che il solo dott. Contrada potesse assicurare “copertura totale” ai mafiosi o che potesse essere informato su tutto, specie se si trattava di interventi non programmati, ma poichè al tempo in questione la ricerca dei latitanti avveniva per lo più sulla base di notizie di natura confidenziale, normalmente le operazioni che ne scaturivano erano precedute da adeguati controlli ed attività investigative che richiedevano tempi piuttosto lunghi di verifica e, peraltro, il dott. Contrada, seppur posto in una posizione particolarmente privilegiata per il controllo del flusso di notizie di interesse investigativo, non era certamente il solo funzionario a “disposizione “ dell’organizzazione mafiosa, come è emerso dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia anche nell’odierno procedimento>>.

Non va sottaciuto, del resto, che lo stesso Riccobono, che nel suo territorio poteva comunque essere protetto anche dai suoi sodali, ad esempio con attività di staffetta o con informazioni tempestive, si era comunque dotato, in uno dei suoi domicili privilegiati, e cioè quello di Via Guido Jung n°1, dove abitavano la moglie e le figlie, di una via di fuga costituita da una doppia porta, della quale era possibile involarsi alla bisogna (cfr. le dichiarazioni del collaborante Maurizio Pirrone ed i relativi riscontri), cosa che ebbe modo di fare in occasione della perquisizione condotta il 30 aprile 1980 sotto la direzione del dott. Renato Gentile, a capo della sezione “catturandi” istituita dal dirigente della Squadra Mobile dott. Impallomeni, della quale ha riferito il teste Gianfranco Firinu (cfr. pagine 415 e seguenti della sentenza appellata).

Assodato, dunque, che lo stesso Buscetta ben comprese il senso delle assicurazioni del Riccobono con riguardo all’odierno imputato, mette conto rilevare che il tema della effettiva possibilità - per Contrada - di conoscere le notizie concernenti le ricerche del Riccobono in relazione ai propri incarichi istituzionali (pagine 460- 468 della sentenza appellata) o in ragione delle proprie relazioni personali con soggetti inseriti negli apparati investigativi della Questura di Palermo ha dato luogo a vive contestazioni (cfr. pag. 125 del volume 3 dei motivi nuovi di appello).

I difensori appellanti, cioè, lamentano che il riconosciuto carisma dall’imputato sia stato utilizzato come riscontro alle propalazioni dei collaboranti e denunciano, in sostanza, l’arbitrarietà del trapasso tra la proposizione “Contrada sapeva o poteva sapere" e quella "Contrada avvertiva".



Ora, ad avviso di questa Corte, la conoscenza di notizie di interesse per l’organizzazione mafiosa, o la possibilità di conoscerle:

  • è, in generale, un criterio preliminare di verifica delle accuse dei propalanti, che non avrebbero costrutto alcuno nel caso di comprovata non conoscenza o impossibilità di conoscere quelle notizie da parte del funzionario di Polizia;

  • è stata valorizzata dal Tribunale in risposta alle obiezioni formali di volta in volta mosse, riguardanti gli incarichi istituzionali dell’imputato e le relative competenze (segnatamente, in risposta al rilievo che il dott. Contrada aveva diretto la Squadra Mobile, 1° Settembre del 1973 al 20 Ottobre del 1976, e, in via interinale, tra il 24 Luglio 1979 al il 1° Febbraio 1980, laddove il Centro Interprovinciale Criminalpol della Sicilia Occidentale, da lui retto dal 21 ottobre 1976 fino al Gennaio 1982, svolgeva soltanto i compiti di Polizia Giudiziaria affidati caso per caso e non quelli di ricerca dei latitanti e l’Alto Commissario non aveva attribuzioni di Polizia Giudiziaria);

  • costituisce un riscontro di natura logica, e non una prova indiretta autonoma, dell’accusa di avere trasmesso notizie di interesse (il principio della atipicità dei riscontri e della loro validità in difetto di argomenti di segno contrario è stato ribadito, in altro contesto, a pag. 266 della sentenza di annullamento con rinvio).

Alla stregua, dunque, delle considerazioni sin qui svolte, devono essere integralmente condivise le conclusioni del Tribunale (pag. 808-810) in ordine alla attendibilità intrinseca, estrinseca, ed alla valutazione del contributo di Tommaso Buscetta. Un contributo limitato alla esistenza ed allo sfondo collusivo dei contatti tra l’odierno imputato e Rosario Riccobono, ma che deriva la sua pregnanza dal fatto che le notizie apprese dai collaboranti all'interno della organizzazione mafiosa di cui hanno fatto parte <<non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e le attività di un sodalizio criminoso, dei quali il dichiarante sia venuto a conoscenza nella sua qualità di aderente al medesimo sodalizio, soprattutto se in posizione di vertice, trattandosi, in tal caso, di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di informazioni dello stesso genere di quello che si produce, di regola, in ogni organismo associativo, relativamente ai fatti di interesse comune. Pertanto, anche tali dichiarazioni possono assumere rilievo probatorio, a condizione che siano supportate da validi elementi di verifica in ordine al fatto che la notizia riferita costituisca, davvero, oggetto di patrimonio conoscitivo comune, derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei collaboratori di giustizia>> (cfr. pagine 253 e 254 della sentenza di annullamento con rinvio, e la giurisprudenza di legittimità ivi citata).

Persuasivamente, quindi, le dichiarazioni di Buscetta sono state accreditate dal Tribunale come uno “straordinario riscontro ex ante” - in un’epoca in cui non avrebbe potuto lontanamente ipotizzarsi un complotto ai danni dell’imputato - delle indicazioni accusatorie di altri collaboranti relative a fatti storici specificamente accertati ed idonei ad agevolare il rafforzamento di “Cosa Nostra” , nell’ambito di un quadro probatorio formato anche da plurime fonti testimoniali e documentali.

CAPITOLO VII
Le censure concernenti le dichiarazioni di Giuseppe Marchese. Cenni alle dichiarazioni rispettivamente rese nel primo dibattimento di appello e nel presente giudizio di rinvio dai collaboranti Giovanni Brusca ed Antonino Giuffrè.

Cognato di Leoluca Bagarella, a sua volta cognato di Salvatore Riina, ed appartenente ad una famiglia mafiosa di importanza "storica" nell'ambito di "Cosa Nostra", da generazioni affiliata alla potente cosca di “Corso dei Mille" (facente parte del "mandamento" di Ciaculli) Giuseppe Marchese, collaboratore di giustizia sin dal settembre del 1992, ha offerto un contributo considerato dal Tribunale di eccezionale rilevanza, essendo da sempre stato vicino a Salvatore Riina, capo indiscusso dei “corleonesi”, del quale aveva sempre goduto piena fiducia ancor prima di essere affiliato, nel 1980, per decisione personale dello stesso Riina (pag. 996 della sentenza appellata).

Egli, cioè, (pag. 1018, ibidem) è stato <>.

I tre episodi dei quali il Marchese aveva parlato in sede di esame, tutti cronologicamente collocati nel corso dell'anno 1981 e quindi in epoca successiva alla sua formale iniziazione (pag. 999), concernevano altrettante “soffiate” provenienti dall’imputato.

Premettendo che la tenuta della "Favarella" di Michele Greco (“il Papa”) era uno dei luoghi in cui si recava spesso perchè frequentato da molti "uomini d'onore" e da personaggi di rilievo che vi si riunivano, il collaboratore aveva riferito che, proprio in tale luogo, un giorno agli inizi del 1981 lo zio Filippo Marchese - uscendo da un magazzino dove aveva avuto un breve abboccamento con lo stesso Michele Greco, Pino Greco e Salvatore Greco detto "il senatore" - si era appartato con lui comunicandogli riservatamente di andare ad avvisare lo "zio Totuccio", cioè Salvatore Riina, perchè il “dottore Contrada” aveva fatto sapere che le Forze di Polizia avevano individuato la località dove egli si era rifugiato: “nelle mattinate”, quindi, avrebbe potuto esserci qualche perquisizione nella zona (il Riina, all'epoca trascorreva la propria latitanza in una villa in località Borgo Molara, conosciuta solo da pochi intimi che mantenevano contatti diretti con lui).

Il Marchese si era, quindi, recato dal Riina e gli aveva riferito quanto comunicatogli dallo zio Filippo, specificando che Contrada era la fonte delle informazioni su possibili, imminenti perquisizioni. Il Riina, per nulla sorpreso e senza chiedere alcuna spiegazione, aveva deciso di abbandonare immediatamente l'abitazione per andare a San Giuseppe Jato, nella villa di campagna di tale "Totò Lazio", insieme alla moglie, ai figli ed alla cognata Manuela. Lungo il tragitto, esso collaborante gli aveva fatto da "staffetta" andando avanti con la propria automobile (una FIAT 500 che guidava pur non avendo patente) mentre il Riina lo aveva seguito a bordo di una autovettura “Mercedes” insieme ai suoi familiari.

Il secondo episodio narrato dal collaborante veniva riassunto nei seguenti termini.

Lo zio ( Filippo Marchese), nell’ottobre 1981, lo aveva avvertito di fare allontanare il padre (Vincenzo Marchese), che si trovava in stato di latitanza in un appartamento sito in una palazzina all'inizio del paese di Villabate, perchè. Contrada aveva fatto sapere che in quella zona sarebbero state eseguite perquisizioni domiciliari.

Giuseppe Marchese aveva, quindi, fatto trasferire suo padre, per un periodo di circa una settimana, nell'abitazione di alcuni parenti a Cefalà Diana. Successivamente erano ritornati insieme nella casa di Villabate, dove, nel frattempo, era rimasto il resto della famiglia e dove, comunque, non erano state eseguite perquisizioni.

Con riferimento al terzo episodio, il Marchese aveva dichiarato che lo zio Filippo, all'epoca latitante come il padre, lo aveva informato della necessità di spostarsi, per precauzione, dalla casa dei Bagnasco in via Fichidindia (dove tutti e tre, in quel periodo, alloggiavano temporaneamente), perchè Contrada aveva fatto sapere, sempre tramite Michele Greco e Salvatore Greco "il senatore", che era pervenuta in Questura una telefonata anonima con la quale si indicavano in Filippo Marchese, "Pinuzzu" Calamia e Carmelo Zanca gli autori dell'omicidio in pregiudizio di Gioacchino Tagliavia, detto "Ginetto".

Giuseppe Marchese aveva confessato la propria diretta partecipazione, unitamente ad altri soggetti, a tale omicidio, collocandolo cronologicamente verso la fine (Ottobre- Novembre) del 1981. Pertanto, ritenuta affidabile la notizia fatta pervenire da Contrada, sia lui che il padre si erano trasferiti a Casteldaccia in un villino di Gregorio Marchese, cognato di Filippo Marchese,

Avevano appreso, successivamente, facendo la spola tra Casteldaccia e Palermo, dove avevano continuato a trattare con altri appartenenti alla "famiglia" i propri affari, che alcune perquisizioni erano state effettivamente eseguite dalle Forze dell'Ordine, e, per quanto riguardava la loro famiglia, soltanto nell'abitazione dello zio Filippo Marchese.

Tanto premesso, il Tribunale rilevava che la attendibilità intrinseca del Marchese era stata positivamente verificata in numerose pronunce giurisdizionali (alcune delle quali acquisite in atti), e che la sua appartenenza con un ruolo di primo piano, nonostante la giovane età, all’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, era stata accertata nell’ambito del c.d. primo maxi processo.

Sottolineava l’importanza delle motivazioni addotte in merito alla scelta di dissociarsi ed il fatto che il Marchese non aveva esitato a coinvolgere se stesso ed i suoi familiari in gravissimi fatti delittuosi, dando luogo ad una delle più ampie confessioni in ordine ai numerosi crimini commessi per conto di “Cosa Nostra”.

Rilevava, ancora, in ordine alla tempistica delle propalazioni concernenti l’imputato, che la collaborazione dello stesso Marchese con gli organi inquirenti era iniziata il primo Settembre 1992, e che le prime notizie riferite sul conto del dott. Contrada risalivano al 4 Novembre 1992; circostanza, questa, tale da non rendere sostenibili censure relative ad asseriti ritardi nelle propalazioni stesse (pag. 1017 della sentenza appellata).

Escludeva, inoltre, l’ipotesi di millanteria da parte dei referenti del Marchese, la cui fonte era stata essenzialmente lo zio Filippo, essendo illogico che questi avesse detto il falso ad uno dei suoi più fidati adepti, peraltro suo stretto consanguineo. Inoltre, secondo quanto dichiarato dallo stesso collaborante, Filippo Marchese non aveva rivendicato come un merito proprio il mantenimento del rapporto con Contrada, ma aveva indicato nei Greco gli intermediari privilegiati tra il funzionario di Polizia e lo schieramento corleonese. Senza dire che il comportamento del Riina, nel momento in cui gli era stata riferita la notizia la cui fonte era stata indicata nell’imputato, denotava come questi fosse perfettamente a conoscenza del ruolo svolto dal funzionario per conto di “Cosa Nostra”, circostanza di valore decisivo per escludere qualsiasi ipotesi di millanteria (ibidem, pag. 1054).

Il Tribunale, ancora, reputava infondata qualsiasi ipotesi di calunnia per vendetta, sia diretta (perché l'imputato non aveva avuto modo di occuparsi nel corso della propria carriera di Giuseppe Marchese, ancora ragazzino quando svolgeva funzioni di Polizia Giudiziaria a Palermo), sia “trasversale” (per vendicare i propri parenti denunciati con rapporto del 7 febbraio 1981 a firma di Contrada): a seguito della propria collaborazione, infatti, il Marchese aveva accusato i suoi parenti, e anche il fratello, di gravissimi crimini ed aveva reso dichiarazioni accusatorie anche nei confronti di altri appartenenti alla polizia (pag. 1055).

*****

Le censure concernenti le dichiarazioni di Giuseppe Marchese, articolate nel volume II dell’Atto di impugnazione (pag. 131 e segg.) si appuntano - con specifico riferimento all’episodio della fuga di Salvatore Riina dalla villa di Borgo Molara - su due aspetti.

I difensori appellanti ravvisano, in primo luogo, un “mutamento di versione”, in ordine alle ragioni ed al contesto dell’allontanamento del Riina, nel trapasso tra quanto dichiarato dal collaborante al Pubblico Ministero in occasione dell’interrogatorio del 2 ottobre 1992 e le dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio del 4 novembre 1992, sostanzialmente corrispondenti a quelle rese in sede di esame all’udienza del 22 aprile 1994.

Deducono, in secondo luogo, che, sino al 1984, nessun organo di polizia (P.S. e CC.) aveva localizzato o individuato la villa sita in via Cartiera Grande n. 33, località Borgo Molara, indicata e descritta nei particolari dal Marchese, quale rifugio di Salvatore Riina e che, pertanto, nessuna perquisizione era stata mai effettuata in quella villa, né agli inizi del 1981, né in epoca successiva.

Quanto al primo aspetto, osserva questa Corte che la trascrizione relativa all’udienza del 22 aprile 1994, pag. 25, nella forma riportata a pag. 133 del volume II dell’Atto di impugnazione, , recita “...Mio zio Filippo mi tirò da parte e mi disse di andare ad avvisare, dice, u zu Totuccio e ci dici: <>. Sono andato là a trovarlo, in questa villa e gli dissi: <una perquisizione...>>”.

Lo stesso collaborante, richiesto dal Pubblico Ministero di precisare l’epoca di questo episodio, l’aveva individuata nello <<inizio '81>> (trascrizione udienza, pagg. 29 e 54 trascrizione udienza 22 aprile 1994).

I verbali degli interrogatori del Marchese in data 2 ottobre 1992 e 4 novembre 1992 sono stati acquisiti sull’accordo delle parti, nel corso di questo dibattimento, all’udienza del 9 giugno 2005.

Il Tribunale, infatti, non aveva ritenuto che le dichiarazioni rese dal collaborante al Pubblico Ministero potessero consentire di formulare contestazioni, riferendosi il primo interrogatorio all’allontanamento definitivo di Totò Riina agli inizi della cd. seconda guerra di mafia, e cioè nell’imminenza dell’uccisione di Stefano Bontate (soppresso il 23 aprile 1981) - allontanamento motivato dal timore del capomafia di essere rintracciato dai suoi oppositori - ed il secondo interrogatorio ad un allontanamento provvisorio, intervenuto agli inizi del 1981 a seguito della segnalazione che l’odierno imputato avrebbe fatto a Michele Greco, trasmessa a Filippo Marchese e girata, tramite Giuseppe Marchese, al Riina.

Benché, dunque, il testo dei due verbali non acquisiti al dibattimento sia stato riportato irritualmente nei motivi di appello, se ne rende, oggi, necessaria e possibile la valutazione, che induce ad escludere l’asserita contraddizione nelle dichiarazioni del Marchese, già esclusa dal Tribunale ai fini delle contestazioni.

Il verbale di interrogatorio del 4 novembre 1992 è – per la parte qui d’interesse – così trascritto alle pagine 131 e 132 del volume II dei motivi d’appello: “"...Posso innanzi tutto riferire alcuni episodi riguardanti un funzionario di polizia, a nome Contrada, che molti anni fa prestava servizio a Palermo. La prima volta che sentii fare il nome di Contrada risale agli inizi del 1981. Io mi trovavo insieme a mio zio Marchese Filippo alla Favarella, ove mio zio si era appartato con Greco Michele, Greco Salvatore "il senatore " e Greco Giuseppe "scarpa ".



Ritornando dal colloquio coi predetti, mio zio Filippo mi disse di andare subito da Riina Salvatore, poiché il dott. Contrada aveva fatto sapere che la Polizia aveva individuato il luogo dove il Riina allora abitava e, nella mattina seguente, vi sarebbe stata una perquisizione.

lo mi recai, quindi, immediatamente dal Riina e precisamente nella villa (sita nei pressi della circonvallazione di Palermo) di cui ho già parlato in altro interrogatorio [pag 61, 2/10/1992] " (pag. 100, interr. cit.)…

"Come ho già detto, in tale villa Riina abitava insieme alla moglie ed ai suoi figli, allora due maschi e una femmina...”

Orbene, come puntualmente rilevato dal Procuratore Generale a pag. 53 della memoria depositata il 14 novembre 2005, le dichiarazioni appena riportate (“"...Posso innanzi tutto riferire alcuni episodi riguardanti un funzionario di polizia, a nome Contrada, che molti anni fa...) - precedute nei motivi di appello dai puntini di sospensione - scaturiscono dalla domanda: <<L’Ufficio, a questo punto, per esigenze investigative, chiede al MARCHESE di riferire tutto quanto sia a sua conoscenza circa eventuali rapporti tra Cosa Nostra ed appartenenti alla Pubblica Amministrazione>>.

Il Marchese, dunque, parlò di Contrada il 4 novembre 1992 perché solo allora, e non prima, gli fu chiesto di parlare dei rapporti collusivi con Cosa Nostra di appartenenti alla Pubblica Amministrazione.

Ed infatti, nel corpo del verbale del 2 ottobre 1992, il collaborante, rispondendo alle domande del Pubblico Ministero, aveva affrontato un argomento diverso.

I temi trattati, infatti, erano stati la strage di piazza Scaffa e l’inizio della guerra di mafia con gli omicidi di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, ed in questo contesto si inserisce lo stralcio riportato a pag. 134 del volume II dei motivi di appello (pag. 61 del verbale): "...Poco prima dell'inizio della guerra di mafia, per motivi di sicurezza, il Riina si era infatti trasferito in territorio di San Giuseppe. Prima, invece, egli aveva abitato in una bella villa di recente costruzione... " .

Frutto di una palese forzatura, dunque, è il costrutto difensivo secondo cui :



  • gli <>(pag. 135 vol. II dei motivi di appello);

  • il Marchese avrebbe cambiato la versione dei fatti dal 2 ottobre al 4 novembre successivo, essendo stato indotto a farlo perché, nel corso dell’interrogatorio del 23 ottobre 1992, il pentito Gaspare Mutolo aveva enunciato accuse a carico di Contrada;

  • Mutolo, in particolare, aveva affermato che questi, dopo gli iniziali rapporti con Bontate e Riccobono, era entrato in relazione con altri esponenti mafiosi di spicco, citando Salvatore Riina e Michele Greco tra i soggetti che avevano ricevuto favori da lui;

  • poiché, però, nell’interrogatorio reso il 26 ottobre 1992, così come in sede di esame dibattimentale, Gaspare Mutolo non aveva dato alcuna specifica indicazione sui presunti favori elargiti dall’imputato a Riina e Michele Greco, a tale lacuna aveva posto rimedio <> (pagine 138 e 139 vol. II dell’Atto di impugnazione);

  • ulteriore conferma del mutamento di versione del collaborante erano state le dichiarazioni rese da altro pentito, e cioè Baldassare Di Maggio, che nel corso dell’interrogatorio (acquisito al fascicolo del dibattimento, per la parte di interesse, all’udienza del 3 febbraio 1995) reso al P.M. il 26 maggio 1993 e riprodotto a pag. 140 del volume II dei motivi di appello;

  • il Di Maggio, invero, non aveva accennato né a Contrada (nei cui riguardi, peraltro, non aveva mai rivolto accuse di sorta) né ad altro motivo dell’allontanamento del Riina dalla villa di Borgo Molara se non quello del timore di vendette mafiose;

  • in perfetta sintonia, infatti, con quanto riferito dal Marchese nel suo interrogatorio del 2 ottobre 1992, lo stesso Di Maggio aveva dichiarato di essersi recato con Giovanni Brusca, nel periodo immediatamente successivo alla morte di Salvatore Inzerillo (ucciso l’undici maggio 1981) presso un villino già abitato, secondo quanto dettogli dallo stesso Brusca, dal Riina, per caricare su un furgone e trasportare nelle case di contrada Dammusi (quelle dei Brusca, dove la famiglia Riina si era trasferita) alcune masserizie, dato che quel rifugio non era, ormai, ritenuto sicuro perché conosciuto anche a qualcuno del gruppo Inzerillo.
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