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Lo svolgimento del processo


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(pag. 21, ud. 28 luglio 1995)>>;

  • a quella data Contrada era in servizio a Palermo e ricopriva gli incarichi di Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta contro la mafia e di Coordinatore Centri S.I.S.DE della Sicilia, e dunque, se fosse stata vera l’Accusa de relato del Pirrone, lo avrebbe preavvertito;

  • l’imputato, in sede di esame, all’udienza del 13 ottobre 1995 (pagine 92-98 vol. III cit.) non aveva escluso che gli fossero stati portati dei biglietti di invito nel periodo riferito dal Pirrone, né di avere, in quella circostanza, assistito allo spettacolo, rientrando tali evenienze in un’ottica di normalità delle relazioni intrattenute dai titolari di pubblici esercizi con pubbliche autorità;

  • l’annotazione“ ore 22,30 Madison”, contenuta nella sua agenda alla data del 12 Novembre 1976 poteva bensì confermare la sua presenza allo spettacolo, ma non costituire …<”>> (pag. 99 Vol. III dell’Atto di impugnazione, pagine 29 e seguenti Vol. VIII Motivi nuovi).

    Per quanto attiene alle testimonianze della Pirrello, della Ruisi, della Davì e della Riccobono i difensori appellanti hanno dedotto che:

    1. Giuseppina Riccobono, nel corso del proprio esame, aveva negato di avere manifestato all’esterno della propria cerchia familiare il suo risentimento nei riguardi di Contrada (pagine 105 -107 Vol. III dell’Atto di impugnazione, pagine 45 e segg. Vol. VIII dei Motivi Nuovi);

    2. la sua testimonianza doveva considerarsi genuina e veritiera, dal momento che, pochi giorni prima, e cioè il 23 giugno 1995, in sede di dichiarazioni spontanee il dr. Contrada aveva, ancora una volta, definito il Riccobono "criminale, mafioso, capomafia, sanguinario, omicida" e quindi la teste avrebbe avuto tutte le ragioni di vendicarsi o sfogare il suo rancore verso l’imputato, se questi davvero avesse “tradito” suo padre;

    3. per converso, rendendo le menzionate dichiarazioni spontanee del 23 giugno 1995, quando Giuseppina Riccobono era già stata citata come teste, Contrada aveva dimostrato di non avere ragione di temere il rancore della Riccobono, rancore che sarebbe stato maggiormente comprensibile nella ipotesi del tradimento (pagine 38-41 volume VIII dei Motivi Nuovi);

    4. la testimonianza della Davì, la quale aveva confermato che mai la Riccobono, in sua presenza, si era abbandonata ad esternazioni relative a suo padre ed al processo Contrada, doveva considerarsi credibile perché totalmente disinteressata (pagine 55- 56 volume VIII dei Motivi nuovi);

    5. la tesi del Tribunale, secondo cui la Riccobono avrebbe mentito perché condizionata da spirito omertoso, in quanto appartenente a famiglia mafiosa, non si attagliava alla Davi;

    6. se davvero fosse stata condizionata da spirito omertoso, la Riccobono non si sarebbe abbandonata allo sfogo sul tradimento di Contrada in presenza della parrucchiera Ruisi, con la quale aveva, e soltanto da poco tempo, un rapporto di vicinato e non certo di stretta amicizia;

    7. la teste Ruisi aveva escluso - ed aveva escluso di avere detto alla Pirrello - che quello sfogo avesse riguardato Contrada (pagine 50-54 volume VIII dei Motivi Nuovi).

    I difensori appellanti, inoltre, hanno dedotto (pagine 59-60 Vol. VIII motivi nuovi): <

      • appare, invero, molto improbabile che la Pirrello si sia recata quel giorno di Maggio del 1995 occasionalmente nel salone di parruccheria di Ruisi Angela, ove mai era andata in precedenza; tutto fa propendere per l'ipotesi che si sia ivi recata, più che per l'acconciatura dei capelli, per avere la possibilità di un colloquio con la Ruisi;

      • non sussiste dubbio alcuno che lo spunto, l'iniziativa e l'incentivo alla conversazione con la parrucchiera siano stati opera della Pirrello così come dalla stessa dichiarato e confermato peraltro dalla Ruisi; l'avvio alla conversazione su fatti di giustizia e di mafia,sulla tragica morte del Dr. Borsellino, sui pericoli dei Magistrati impegnati sul fronte dell'antimafia, le considerazioni sugli "innocenti in carcere"e i "colpevoli in libertà", sulla opportunità di dire ciò di cui si era a conoscenza e così via, è stato dato dalla Pirrello con il chiaro intento di portare la parrucchiera sul terreno discorsivo avente per oggetto il Dr. Contrada con particolare riferimento alle presunte confidenze ricevute dalla Riccobono Giuseppina;

      • che quanto sopra abbia notevole margine di fondatezza si rileva, oltre che dal comportamento posto in essere dalla Pirrello, sia nella parte della vicenda riguardante l'approccio nella parruccheria che in seguito, specie nel lungo colloquio intercorso tra le due donne nell'anticamera degli uffici della Procura, dal fatto che le stimolazioni e le sollecitazioni della Pirrello rivolte alla Ruisi sono apparse in modo evidente proprie e peculiari di chi, già a conoscenza di un fatto, intenda che tale fatto sia narrato dall'interlocutore onde possa, a sua volta, riferirlo ad altri;

      • da tutto il contesto della vicenda, portata in sede processuale, in specie dalla analisi delle dichiarazioni rese dalla Pirrello e dalla comparazione di esse con quelle della Ruisi, in relazione a notizie concernenti il processo diffuse dai mezzi di comunicazione(es. le espressioni del Dr. Contrada sul mafioso Riccobono Rosario), si ricava l'inquietante sospetto, non dissipato nonostante gli sforzi esperiti e dal P.M. e dalla Difesa, che la Pirrello abbia agito nei rapporti avuti con la Ruisi in veste quasi di "agente provocatore"43;

      • (…..) sussistono tutti i motivi per ritenere ragionevolmente che la Pirrello quando per la prima e unica volta è entrata nella parruccheria della Ruisi, con il pretesto della acconciatura, era a conoscenza dei rapporti di vicinato intercorsi nel passato tra la parrucchiera e la Riccobono Giuseppina,del presunto sfogo di quest'ultima contro non individuate persone o contro il Dr. Contrada specificamente e che, pertanto, abbia tentato di indurre la Ruisi ad una conferma delle notizie in suo possesso anzi
        delle notizie ricevute "aliunde">>.

    Ulteriore sintomo del mendacio della Pirrello sarebbe l’affermazione, assolutamente indimostrata - attribuita alla parrucchiera Ruisi, e da questa smentita - di avere visto in una circostanza, sempre a casa della Riccobono, un album contenente una foto di Bruno Contrada con il “boss” di Partanna, ma di non avere più trovato quella foto in una successiva occasione in cui aveva avuto modo di prendere nuovamente visione di quell’album (pagine 62-65 vol. VIII dei Motivi Nuovi). La Pirrello, infatti, aveva dichiarato che nulla di specifico la Ruisi le aveva riferito su quell'album fotografico (dove lo avesse visionato, a chi apparteneva, in quale occasione era stata scattata quella foto, chi era “il boss di Partanna” ritratto nella foto con Contrada, come sapeva che proprio quello era “il boss di Partanna”) .

    A fronte di tali, lacunose indicazioni, il Tribunale si era limitato la Ruisi e ad accennare al confronto effettuato negli uffici della Procura tra la Pirrello e la Ruisi, avendo quest'ultima negato la circostanza>>, senza esprimere <>, quasi a volere stendere <> (pag. 72, vol. VIII dei Motivi Nuovi).

    I difensori appellanti, poi, riportandosi alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato all’udienza del 28 luglio 1995, hanno tacciato di mendacio la Pirrello sotto un altro profilo.

    Hanno dedotto,cioè, che la stessa avrebbe falsamente dichiarato di non conoscere il dr. Contrada, che invece aveva conosciuto nel novembre 1985, ed in particolare nei giorni immediatamente successivi ad un incidente stradale provocato da una autovettura della scorta del giudice Borsellino che aveva investito degli studenti davanti al Liceo “Meli” di Palermo. Due ragazzi, tra cui Giuditta Micella, figlia di un funzionario di Polizia amico dell’imputato, erano morti, ed altri, tra cui tale Pierluigi Lo Monaco, figlio della teste (il cui cognome da sposata è, appunto, Lo Monaco), erano rimasti feriti.



    Orbene, l’imputato ha dichiarato che, sebbene le condizioni della figlia del dr. Micella fossero disperate, aveva fatto venire a Palermo, con un aereo del S.I.S.DE, un luminare della neurochirugia, il prof. Guidetti, motivando la sua iniziativa, alla presenza dei parenti dei ragazzi feriti, con l’utilità che egli visitasse “anche”, ma non soltanto la ragazza, cosa che poteva avere indisposto la Pirrello (pag. 115-117 Vol. III capitolo V, paragrafo V.1 dei motivi di appello : << E in quei giorni ebbi occasione di avere rapporti con la signora Pirrello Lo Monaco e con altri familiari, tra cui il padre di questo ragazzo che si chiama PierLuigi, se ben ricordo, e che era ferito gravemente in fin di vita e ricoverato al reparto rianimazione, là dove c’era anche Maria Giuditta. Mentre per la Maria Giuditta il Professore Vanadia disse subito o poco dopo il suo ricovero che ormai non c’era più nulla da fare perché l’elettroencefalogramma era piatto, il cervello era devastato per cui la ragazza viveva di vita vegetativa, invece qualche speranza c’era per il ragazzo che era ricoverato, il figlio della signora che è venuta qui poco fa. Io sapevo che a Roma c’era un famoso neurochirurgo della cattedra di neurochirurgia della Università la Sapienza, il prof. Guidetti, lo seppi tramite un altro mio amico che è a Roma. E quindi, mi interessai perché il professor Guidetti venisse giù a Palermo. Mi interessai nel senso che riuscii a convincere il direttore del S.I.S.De, che era allora il Prefetto Parisi a mettere a disposizione l’aereo del servizio per rilevare a Roma il Prof. Guidetti e condurlo qui a Palermo. E nello stesso tempo interessai l’Alto Commissario per questa vicenda, che era il Prefetto Boccia. In sostanza l’interessamento era sul piano morale per la figlia del mio collega, non per la figlia, per i genitori, per darci un po' di speranza, perché sapevo bene che non c’era più nulla da fare, ma era per il figliolo di questa signora. Già nei giorni precedenti avevo avuto varie discussioni con questa signora perché in maniera piuttosto eclatante e poco adeguata inveiva, lei credo e anche altri parenti, contro i magistrati di Palermo, perché li riteneva responsabili di ciò che era accaduto al figlio. E io le dicevo che non era opportuno, pur comprendendo il suo stato d’animo, la sua condizione umana di madre che sapeva che il figlio stava morendo là dentro, ma era opportuno che si calmasse e che stesse tranquilla, che non si lasciasse andare a queste manifestazioni poco adeguate. Comunque, la questione che mi lasciò più amareggiato fu che mi investì quando arrivai col prof. Guidetti, perché forse fu un errore mio a dire, sbagliai a dire che il professore Guidetti era venuto anche per il figlio, era venuto quasi esclusivamente per il figlio, perché lei vedendomi lì e non sapendo dei miei rapporti con il padre e la madre di questa ragazza, pensava che io stessi lì nella mia veste istituzionale, e che quindi tutte le cure erano per la figlia del Questore, mentre per il figliolo non c’era nulla. Invece, non era così. Ecco, ho voluto precisare questo perché la signora ha detto che non mi conosce e che non mi ha mai conosciuto. Invece, non è così. La signora mi conosce bene e ha ritenuto opportuno, dopo dieci anni, dopo dieci anni esattamente, di ricambiare in questo modo, raccontando le cose che ha raccontato, su cui io non esprimo alcun giudizio e non ho, credo, il diritto di esprimerlo. Anche se da funzionario di polizia, con circa 35, 36 anni di carriera, ho le mie perplessità, e da imputato ho le mie inquietudini su certi moduli operativi e investigativi. Ma sono soltanto perplessità>>.

    Infine, secondo i difensori appellanti, anche ad ammettere che la Ruisi avesse detto il vero nel riferire della presunta esternazione di Giuseppina Riccobono sui “traditori”, fatta a casa Davì, il senso delle espressioni usate sarebbe stato comunque diverso: la Riccobono, infatti, si sarebbe riferita a coloro che avevano tradito il padre determinandone la soppressione, ed in nessun modo al dr. Contrada (cfr. pagine 80-81 Vol. VIII dei Motivi nuovi : << Se Riccobono Giuseppina ha usato il termine tradimento nello sfogo avuto con la parrucchiera Ruisi (la Pirrello più volte ha ripetuto tale termine come quello riferitole dalla Ruisi) non poteva non riferirsi a coloro che effettivamente avevano tradito il padre e non soltanto il padre ma anche il marito, il suocero. Non si deve dimenticare, infatti, che in un unico contesto, sia fattuale che temporale, di cruenti contrasti intestini mafiosi erano stati uccisi o fatti scomparire, oltre il padre della donna, Riccobono Rosario, anche il marito Lauricella Salvatore e il suocero Lauricella Giuseppe. Tra questi "traditori" del padre e degli altri congiunti, attirati in agguati e uccisi o fatti scomparire, non poteva di certo la Giuseppina Riccobono includere il Dr. Contrada>>



    *****

    I rilievi che precedono non sono fondati.

    Rinviando alla accusata disamina operata dal Tribunale a sostegno della positiva verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca di Maurizio Pirrone, mette conto rilevare che le osservazioni qui riassunte alle lettere a) e b) forzano il senso della motivazione del primo giudice.

    Si deduce, cioè, che le accuse del collaborante sarebbero talmente generiche da non essere verificabili, e che non avrebbero alcuna specifica attinenza con Rosario Riccobono o con persone legate ai Bontate.

    Osserva questa Corte che il contributo del Pirrone - in questi termini valorizzato dal Tribunale - è consistito nel fornire molteplici elementi di riscontro al narrato di altri collaboranti:


    • circa l’entourage di Rosario Riccobono (ad esempio, il rapporto di lavoro fittizio tra la Farsura ed “Enzuccio Sutera”, del quale aveva parlato Gaspare Mutolo);

    • circa le cautele usate nonostante le coperture alla sua latitanza (segnatamente, la via di fuga dall’attico di via Jung. 1, la presenza soltanto fugace al ricevimento di nozze della figlia Margherita);

    • circa l’esistenza di tali coperture (il preannuncio della “retata” al bar Singapore, le confidenze delle figlie del Riccobono alla presenza della madre44).

    Il Tribunale, in altri termini, ha inteso sottolineare che lo stesso Pirrone, pur non riferendo episodi specifici caratterizzati dall’intervento dell’imputato - in sentenza, infatti, si parla di “tipologie” di condotte - ha contribuito a colorare di attendibilità le dichiarazioni di altri collaboranti su fatti specifici ed a rafforzare un quadro probatorio costituito, nel suo insieme, da fonti eterogenee che quel giudice ha compendiato in una visione unitaria.

    Tutt’altro che arbitraria, poi, è l’inferenza secondo cui gli elementi riferiti da Pirrone contribuiscono a rafforzare il quadro accusatorio a carico dell’imputato in ordine ad esponenti dell’organizzazione mafiosa legati alla “famiglia” Bontate:



    • dal fatto che una delle fonti indicate dal Pirrone in ordine al ruolo dell’imputato è Vincenzo Sorce, appartenente, come già detto, alla “famiglia” di S. Maria di Gesu’;

    • dagli elementi di riscontro alle sue dichiarazioni in ordine alla posizione dei Conti rispetto a quella “famiglia” mafiosa ed alla stessa “Cosa Nostra”.

    A quest’ultimo riguardo, non colgono nel segno le osservazioni difensive riassunte sub c), d),e ) f,),g), relative alla pretesa assurdità del fatto che i Conti , esercenti una attività lecita ed estranei al sodalizio mafioso, avessero cognizione di attività agevolatrici del dr. Contrada di pertinenza del sodalizio stesso.

    Ed invero, il Pirrone ha riferito che, per quanto appreso da soggetti che ha specificamente indicato nei già menzionati Bronzini e Salerno45, Cosimo Conti detto “il cane” - padre di Pietro Conti e nonno del Cosimo Conti che era stato accompagnato da lui a portare i biglietti di invito a Contrada - era stato un personaggio di spicco della mafia di “Brancaccio” negli anni ’50. Il figlio Pietro, già affiliato a “Cosa Nostra” , era stato “posato” a seguito di alcune divergenze insorte nella trattazione degli affari illeciti (soprattutto nel settore del contrabbando di sigarette), divergenze culminate in un attentato ai suoi danni con colpi d’arma da fuoco, posto in atto mentre egli stava per uscire dal portone della propria abitazione sita in una traversa di via Libertà (via Vincenzo Di Marco o via De Amicis). Per quanto appreso dal Pirrone, Pietro Conti era riuscito a sfuggire miracolosamente all’agguato, che aveva causato la rottura della vetrata del portone di ingresso, fatta immediatamente sostituire dalla stessa vittima per evitare di far trapelare all’esterno la notizia dell’attentato che, naturalmente, egli si era guardato bene dal denunciare alle Forze dell’Ordine.

    Il Pirrone ha collocato l’attentato al Conti in epoca antecedente al 1975, perché, quando lo aveva conosciuto, non abitava più in quella via dove si era verificato l’attentato ai suoi danni, bensì nella via Libertà (pagine 818-819 della sentenza appellata).

    Le propalazioni del Pirrone circa la considerazione di cui Pietro Conti ed il figlio Cosimo avrebbero goduto in ambienti mafiosi hanno trovato significativi riscontri nelle convergenti ed autonome dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino (pagine 843-844 della sentenza appellata), e nella comprovata esistenza di rapporti tra Pietro Conti e Francesco Paolo Bontate, padre di Stefano (ibidem, pagine 845-846).

    Gioacchino Pennino, in particolare, ha riferito di essere stato formalmente affiliato a “Cosa Nostra” soltanto a partire dal 1977 nell’ambito della famiglia mafiosa di Brancaccio, compresa nel mandamento di Ciaculli, all’epoca capeggiato da Michele Greco, ed ha soggiunto che il suo omonimo nonno paterno era stato rappresentante della medesima “famiglia” di Brancaccio, carica nella quale gli erano subentrati prima il genero Felice Di Caccamo e successivamente un altro suo cugino, parimenti suo omonimo, cioè Gioacchino Pennino.

    Lo stesso collaborante aveva altresì riferito di avere appreso, dopo la sua formale affiliazione, dal proprio capo famiglia Giuseppe Di Maggio e dal cugino Gioacchino Di Caccamo, che Pietro Conti, già molto amico di suo zio, l’omonimo Gioacchino Pennino, era a sua volta “uomo d’onore” con il ruolo di rappresentante della “famiglia” di via Giafar (pagine 34 e ss trascrizione udienza 19 giugno 1995) e che però, dopo aver subito un agguato da parte di certo Buffa, si era allontanato dal sodalizio e la sua famiglia era stata assorbita in quella di Ciaculli (cfr. pagine 1122 e 1123 della sentenza appellata).

    La dichiarazioni del Pirrone e del Pennino convergono sul nucleo essenziale della pregressa militanza mafiosa di Pietro Conti, pur divergendo su un aspetto, e cioè sull’essersi lo stesso Conti defilato rispetto ad un ruolo di partecipazione attiva (Pennino), e non “posato” (Pirrone), cioè estromesso dal sodalizio mafioso.

    Le indicazioni del Pennino, comunque, sono apparse ben più precise di quelle - del tutto autonome quanto alle fonti ed al contesto del loro apprendimento- di Maurizio Pirrone. Il Pennino, infatti, è apparso ben più informato delle vicende personali di Pietro Conti per lo stretto rapporto tra questi ed il suo omonimo zio e per la comune estrazione territoriale (Brancaccio e Via Giafar, comprese nel mandamento di Ciaculli).

    D’altra parte, ad escludere che Pietro Conti fosse stato “posato”, come percepito dal Pirrone, milita la circostanza che il “Madison” fosse frequentato da esponenti mafiosi come Vincenzo Sorce, appartenente a “Cosa Nostra” ed alla famiglia mafiosa del Riccobono, laddove, secondo il codice etico di Cosa Nostra46, l'uomo d'onore “posato” non può intrattenere rapporti con altri membri del sodalizio, che addirittura sono tenuti a non rivolgergli la parola.

    Né vale a smentire le convergenti dichiarazioni del Pirrone e del Pennino la circostanza, riferita dal teste Bruno, che Cosimo Conti ed il padre Pietro, destinatari nel 1985, <> (pagina 49 trascrizione udienza 19 settembre 1995) fossero stati assolti all’esito del dibattimento.

    Questa Corte, infatti, è chiamata a valutare non già la responsabilità dei Conti per il delitto di partecipazione in associazione mafiosa - cosa che, comunque, non potrebbe essere fatta stante la preclusione del giudicato - bensì se sia plausibile che, come è implicito nelle dichiarazioni del Pirrone, gli stessi potessero essere messi a conoscenza di favori elargiti dall’imputato al sodalizio “Cosa Nostra”.

    La giustificazione di un tale stato di fatto è stata persuasivamente sintetizzata dal Pirrone nel concetto di “discendenza”, oltre che nella stessa caratura criminale di alcuni clienti del “Madison”, e tra questi i già menzionati Sorce e D’Accardi, (<<...Ma insomma era... dopo un po' era per me scontato che loro non solo frequentassero un determinato ambiente, ma lo avevano frequentato in passato, addirittura avevano la discendenza>> cfr. pag. 100 trascrizione udienza 11 luglio 1995), e cioè in un senso di appartenenza e di comunanza di interessi, che l’espulsione decretata dalla organizzazione mafiosa nei riguardi di Pietro Conti (“posato”, espulsione della quale, comunque, non ha parlato Gioacchino Pennino) non era valsa a cancellare in via definitiva.

    E’ riscontrato, in altri termini, come indicatore di credibilità del Pirrone, che i Conti avessero mantenuto quantomeno una posizione border-line rispetto al sodalizio mafioso, e che, quindi avessero titolo per ricevere notizie su prove concrete della disponibilità dell’imputato, consegnate al “notorio ristretto” dei fatti di interesse per il sodalizio stesso.

    Non a caso del resto, a pag. 288 della sentenza di annullamento con rinvio, la Suprema Corte di Cassazione ha censurato l’affermazione del Giudice di appello <> ritenendola << (..)del tutto svincolata dalle suddette risultanze processuali, in quanto da esse non emerge che i Conti avessero riferito al Pirrone di avere avuto esperienza diretta della "benevolenza" di Contrada, ma soltanto che tale notizia circolava nell'ambiente mafioso (il Conti aveva fatto espresso riferimento "ai loro amici": pag. 854 della sentenza di primo grado)>> .

    Perfettamente coerente con tale costruzione, del resto, è l’uso del dativo etico (o di vantaggio) attraverso il pronome “ci”, riferito dal Pirrone de relato di Cosimo Conti, volto ad evocare una comunanza di interessi dei Conti con il sodalizio e non la fruizione diretta di favori da parte dell’imputato (<<“Sai, è una persona che ci è utile, perché sappiamo che si presta a fare qualche favore, ci dà delle notizie, in particolare ci dà notizie su eventuali mandati di cattura, eventuali perquisizioni, operazioni di questo genere” (pag. 56 trascrizione udienza 11.7.1995).

    Altrettanto plausibile, poi - considerata la coincidenza temporale tra le frequentazioni mafiose del Pirrone (seppure rimasto un trafficante di droga non inserito in “Cosa Nostra”) ed il periodo della società di fatto con i Conti - che il collaborante ricevesse, sia pur in modo generico, confidenze sulla natura collusiva delle condotte di Contrada.

    Né è decisiva la circostanza, riferita da Cosimo Conti, che egli stesso e suo padre Pietro non avessero potuto sottrarsi all’arresto del 15 giugno 1985, data in cui l’imputato era in servizio a Palermo e ricopriva gli incarichi di Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta contro la mafia e di Coordinatore Centri S.I.S.DE della Sicilia. Non può, infatti, pretendersi e presumersi che Contrada, per quanto in possesso di un rilevante flusso di informazioni, fosse nelle condizioni di avvertire, volta per volta, tutti i loro destinatari di arresti in procinto di esecuzione, né, comunque, è dimostrato che egli avesse instaurato un rapporto di protezione con i Conti.

    Peraltro, non può non rimarcarsi come l’imputato abbia dimostrato di volere ridimensionare la sua conoscenza con i Conti.

    Egli, infatti, nel corso dell’ esame reso all’udienza del 13 ottobre 1995 ha dichiarato di avere un vaghissimo ed incerto ricordo di Cosimo Conti, e però di avere riconosciuto Pietro Conti, in udienza, tra il pubblico, in occasione della testimonianza del figlio Cosimo, in quanto presentatogli in epoca antecedente al 1973, e cioè oltre vent’anni prima (<< E quindi credo di essere stato anche al Madison. Sicuramente una volta, perché ho un ricordo ben preciso, che fui invitato dal dr. Zocca, che allora dirigeva la Criminalpol e dal dr. Mendolia, che allora era il capo della Squadra Mobile, e, quindi, dev’essere un periodo precedente al 1973, perché fino al 1973 questi due funzionari hanno ricoperto questi incarichi, e ricordo che fui invitato da loro a mangiare qualcosa in questo locale. Lo ricordo bene. Come ricordo anche che si avvicinò al tavolo un signore che già allora aveva una certa età e che mi fu presentato come il proprietario del locale, ed era il signor Pietro Conti. E me ne sono ricordato poi perché in occasione della testimonianza del figlio, l’ho visto tra il pubblico e l’ho riconosciuto>>).

    Infine, quanto alle osservazioni qui riassunte sub i) e j), va rilevato che l’annotazione“ ore 22,30 Madison”, contenuta nella agenda del dr. Contrada alla data del 12 Novembre 1976, è stata valorizzata dal Tribunale non già come prova esclusiva o unico riscontro alle propalazioni del Pirrone sulla tipologia delle condotte agevolatrici attribuite all’imputato, bensì, essenzialmente, come uno degli elementi addotti a sostegno della sua generale credibilità.

    *******
    Venendo alle censure riguardanti le testimonianze della Pirrello, della Ruisi, della Davì e della Riccobono, non possono condividersi le osservazioni qui riassunte alle lettere da k) a q), volte ad affermare l’attendibilità della Davì e della Riccobono (testi, peraltro, in contrasto tra loro).

    La stessa Riccobono, invero, nel corso del suo esame ha affermato di essere stata sempre tenuta dal padre del tutto al di fuori dei suoi affari e delle sue frequentazioni (<<AVV. SBACCHI:ecco, perfetto signora, volevo capire questo. Lei ha mai detto, signora, che il dott. Contrada era prima amico di suo padre, che si prendeva i soldi.

    RICCOBONO G.:assolutamente non ho detto mai questo, perchè poi mio padre, senta, mi ha tenuto sempre fuori da tutte cose, non...

    AVV. SBACCHI:ho capito. Quindi lei della vita di suo padre sapeva poco, se ho capito bene.

    RICCOBONO G.:certo>>).

    Tale affermazione è smentita dalle confidenze delle quali il Pirrone ha dichiarato di essere stato messo a parte dalle sorelle Riccobono, alla presenza della loro madre, circa le coperture godute e la possibilità, in ogni caso, di una via di fuga dall’appartamento di via Jung n. 1 costituita da una doppia porta con scala posteriore; confidenze ampiamente riscontrate dalle indagini di Polizia Giudiziaria sia in ordine alla porta, sia in ordine alla familiarità del Pirrone con le Riccobono ed i rispettivi fidanzati (Salvatore Lauricella, sposatosi in Giuseppina, e Michele Micalizzi, sposatosi con Margherita).

    Non convince, poi l’osservazione difensiva secondo cui Giuseppina Riccobono avrebbe avuto tutte le ragioni per manifestare, a caldo, il suo risentimento nei confronti dell’imputato qualora questi avesse davvero “tradito” suo padre, che pochi giorni prima della sua deposizione aveva definito un criminale.

    L’imputato, infatti, nel corso del processo ha sempre tacciato Rosario Riccobono di essere un criminale, ed ha sempre negato di avere avuto con lui rapporti di sorta, anche di natura confidenziale, sicchè non è sostenibile che la teste avrebbe dovuto essere motivata in modo incoercibile, da una offesa recente, a muovere esplicite accuse nei suoi confronti.

    Per contro, è plausibile che, in una sede non ufficiale ed in modo del tutto estemporaneo, cioè a casa dell’amica Davì, Giuseppina Riccobono non fosse riuscita a nascondere il suo rancore, abbandonandosi allo sfogo cui la teste Ruisi ha riferito di avere solo casualmente assistito.

    La Ruisi, infatti, ha riferito di avere percepito lo sfogo della Riccobono in un frangente del tutto inatteso: lei stessa, infatti, era appena entrata a casa della Davì, sua dirimpettaia (<<P.M.:Ma di chi stava parlando? RUISI A.:No, di nessuno. Io sono entrata e lei era molto arrabbiata. Allora io ho detto: "Ma che c'hai, che è successo Pina?". E lei disse questa frase, basta non disse altro. A chi si riferisse non lo so, perchè se lo sapessi lo direi, ma non lo so>>).

    Per contro, la Davì e la Riccobono hanno ammesso la loro stretta amicizia, sia pure con qualche precisazione gratuita, ed addirittura contraddittoria (cfr. esame Davì :<<sì, un'amicizia reciproca, ci rispettiamo, ci vogliamo bene come due sorelle, ma nient'altro, tutto qua>>; cfr. esame Riccobono:<< Si', abbiamo rapporti di amicizia, ma io veramente con tutti, perche' essendo sempre sola con un bambino, non lo so, mi hanno sempre aiutato, e cose varie>>,); amicizia cementata da una conoscenza risalente ad otto anni addietro.

    E’ ben spiegabile, pertanto, l’esigenza della prima di non smentire la seconda.

    Concludendo, la disposizione personale e familiare all’omertà costituisce una adeguata causale della reticenza della Riccobono. Non a caso, del resto, nel corso del suo esame, la stessa ha tenuto a precisare di non essere solita parlare di vicende familiari al cospetto di estranei.

    Piuttosto, lo sfogo della stessa Riccobono, per la sua intensità, non avrebbe avuto una plausibile giustificazione, sopratutto in un periodo di forte impatto mediatico del processo Contrada, se, come affermato dalla teste Ruisi, fosse stato puramente generico e senza alcuna attinenza con la persona dell’imputato. E’ significativo, anzi, che la Ruisi abbia manifestato una costante propensione al contenimento della portata delle sue dichiarazioni, ben lontana dall’anelito alla legalità mostrato dalla Pirrello.

    Tale condizione di timore e di disagio, lungi dal costituire una insondabile percezione del Tribunale, si coglie a piene mani dallo stesso tenore della testimonianza della stessa Ruisi.

    Molto confusamente, infatti, la teste ha dichiarato che i discorsi fatti con la Pirello durante l’acconciatura erano chiacchiere da negozio, paragonabili a quelle che si fanno sulla onestà pubblica degli uomini politici, salvo poi a riconoscere lo sfogo avvenuto tra le mura domestiche di casa Davì (<< RUISI A.:Di nulla, era solo arrabbiata, tanto che io dissi: "Mah!", e di questo poi, siccome lei sa benissimo che nei negozi, in tutti i negozi si chiacchiera di questo, di quello, si parla di Berlusconi che è onesto, si parla di Berlusconi che non è onesto, ognuno dice la sua. Si parla di Tizio, si parla di Caio.....



    P.M.:Signora, lei sta parlando di negozi lei? Perchè avvenne nel negozio questo colloquio?

    RUISI A.:Io le sto dicendo come si sono svolti i fatti.

    P.M.:E avvenne nel negozio? Lei sta dicendo che è avvenuto nel negozio?

    RUISI A.:No, mai è venuta al negozio.

    P.M.:E allora perchè parla di negozio?

    RUISI A.:Io sto dicendo.... Perchè dico questo, perchè io mi trovo qui.... Perchè io mi trovo qui? Me lo dica lei perchè mi trovo qui>>.

    In sostanza, come ritenuto dal Tribunale, smentendosi a vicenda la Riccobono e la Ruisi avevano detto una parte della verità: la prima, ammettendo di avere manifestato - ma soltanto nell’ambito della propria cerchia familiare - il proprio risentimento per le offese rivolte al padre, anche da Contrada; la seconda, affermando di avere sì assistito ad uno sfogo della Riccobono, ma in incertam personam.

    Il parziale mendacio dell’una e dell’altra suggella la attendibilità della teste Pirrello.

    A quest’ultima, del resto, assai poco persuasivamente i difensori appellanti hanno attribuito la veste di “agente provocatore”, ma soprattutto il possesso di virtù investigative e soprattutto divinatorie che avrebbero dovuto metterla nelle condizioni di:


    • appurare che la parrucchiera Ruisi aveva abitato nel medesimo stabile della signora Lauricella (alias, Giuseppina Riccobono);

    • prevedere che la stessa Ruisi, da lei vista per la prima volta, fornisse notizie sui rapporti tra l’odierno imputato e Rosario Riccobono.

    Oltretutto, se la Pirrello si fosse recata dalla Ruisi nell’ambito di una sua personale attività di agente provocatore, non avrebbe avuto ragione di attendere il mese di maggio 1995, a processo inoltrato, per crearsi l’occasione di una acconciatura che avrebbe comunque potuto farsi fare in un momento precedente rispetto alla prima comunione del figlio.

    Né è possibile, peraltro, bollare come agente provocatore la Pirrello per il colloquio con la Ruisi nell'anticamera degli Uffici della Procura della Repubblica di Palermo prima che le due donne fossero sentite e venissero messe a confronto.

    Del contenuto di tale colloquio, infatti - registrato a mezzo di apparecchiature di intercettazione ambientale - nulla è dato sapere, avendo la Difesa eccepito l’inutilizzabilità della intercettazione, eccezione accolta dal Tribunale con ordinanza del 24 luglio 1995.

    Quanto alla parte del racconto della Pirrello relativo alla scoperta - riferita dalla Ruisi - di una foto di Contrada con il “boss” di Partanna in un album a casa Riccobono, la stessa Pirrello ha dissipato qualsiasi ambiguità, precisato che, nel corso del loro colloquio in Procura, avvenuto il 7 giugno 1995, la sua interlocutrice aveva chiarito che quel “boss” era il Riccobono.

    Né si può pretendere, ammesso che la Ruisi non si fosse sbagliata nel riconoscimento dell’imputato, che il contesto del rinvenimento della fotografia venisse descritto, in sede di esame, in modo più circostanziato di quanto non fosse accaduto durante la conversazione che accompagnò l’acconciatura in parruccheria.

    La valutazione di tale circostanza, in altri termini, non intacca il giudizio di attendibilità della teste Pirrello, ma incide, semmai - date la scarsa precisione e la povertà dei dettagli offerti - su questo specifico aspetto della testimonianza della Ruisi.

    Ed ancora, non può trovare cittadinanza l’ipotesi, avanzata dai difensori appellanti, che, stando al narrato della Ruisi, la Riccobono si sarebbe riferita a coloro che avevano tradito il padre, il marito ed il suocero, determinandone la soppressione, e non, dunque,all’imputato.

    Anche nella versione della stessa Ruisi, infatti, depurata dal nome di Contrada, l’indicazione dei traditori è univocamente riferita a soggetti collusi, a percettori di “mazzette”, cioè a figure estranee al sodalizio; non dunque, a tradimenti interni ad esso (<>).

    Davvero arzigogolata, poi, è l’ipotesi, avanzata dall’imputato, che la Pirrello avesse nutrito risentimento nei suoi confronti e lo avesse accusato falsamente sol perché egli, dieci anni prima, alla presenza di lei aveva detto di avere fatto venire a Palermo il neurochirurgo prof. Guidetti anche - e non, piuttosto, soltanto - per il di lei figlio, coinvolto nell’incidente stradale davanti al Liceo classico “Meli”,che aveva provocato il coma irreversibile e poi la morte di Giuditta Milella, figlia del funzionario di Polizia Carlo Milella.

    Non è nemmeno esatta l’affermazione dell’imputato secondo cui la Pirrello avrebbe negato di averlo mai conosciuto ( Contrada ha riferito di avere <>).

    La stessa Pirrello, infatti ha ricordato di avere, a seguito dell’incidente che aveva visto coinvolto il figlio, iniziato una battaglia <<per l'abuso e la folle corsa delle autoscorte>>;di avere avuto a che fare con diversi “funzionari di Polizia”; di ricordare i nomi dell'ispettore Renato Azzinnari e del dott. Accordino, ma non di altri (<<No, non credo, magari li conosco di vista, ci salutiamo, buongiorno, buonasera e basta>>).

    Non sorprende, pertanto, che la teste non abbia nominato l’imputato come uno dei suoi interlocutori, o uno di coloro che avevano assistito alle sue esternazioni.

    Devono, in conclusione, essere pienamente condivise le valutazioni del Tribunale in ordine alla attendibilità intrinseca, alla attendibilità estrinseca ed al contributo del collaboratore di giustizia Maurizio Pirrone, così come a proposito della attendibilità della teste Pirrello.

    CAPITOLO X

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