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Le censure riguardanti le propalazioni di Gaetano Costa

Gaetano Costa, ricordava il Tribunale, aveva iniziato a collaborare nel febbraio del 1994, inizialmente con l’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria e successivamente con quelle di Messina e Palermo. Aveva dichiarato di essere stato affiliato alla “Ndrangheta” sin dai primi anni ’70 del novecento, e di avere partecipato, all’interno di tale organizzazione criminale, all’esecuzione di molteplici omicidi (una decina come mandante ed uno anche come esecutore materiale) nonchè a rapine e ad altri reati, molti dei quali spontaneamente confessati al momento della sua collaborazione.

Il Costa aveva riferito di non avere mai avuto occasione di conoscere l’imputato, né di sentirne parlare. Tuttavia, intorno alla fine del 1992, mentre si trovava detenuto all’interno del carcere dell’Asinara, ristretto nella medesima cella con tre “uomini d’onore”, e cioè Cosimo Vernengo, Pietro Scarpisi e Vincenzo Spadaro, intento a guardare alla televisione un servizio giornalistico riguardante il suo arresto, aveva notato lo Spadaro che, “come se avessero arrestato qualcuno che gli interessava“ si era portato le mani ai capelli, accompagnando tale gesto, dal collaborante interpretato di sorpresa e sgomento, con la frase dialettale “nnu consumaru!“ (letteralmente traducibile nella frase “ce lo hanno consumato”).

Il Tribunale, quindi, descriveva la caratura mafiosa di Vincenzo Spadaro, già condannato per associazione mafiosa nell’ambito del primo maxi processo e strettamente collegato all’interno di “Cosa Nostra” al più famoso fratello Tommaso, capo della famiglia mafiosa della Kalsa.

Nel rassegnare gli elementi a sostegno della attendibilità intrinseca ed estrinseca del Costa - e nel disattendere la negazione del fatto operata in sede di esame dai suoi codetenuti Spadaro, Scarpisi e Vernengo, esaminati ai sensi degli artt. 210 e 195 c.p.p., il Tribunale osservava, tra l’altro, che il collaborante si era limitato a riferire un episodio di portata limitata, cui aveva avuto modo di assistere del tutto casualmente, che, costituendo quasi uno sfogo spontaneo da parte dello Spadaro, si rivelava del tutto inattaccabile rispetto alla linea difensiva della millanteria.

Egli non era stato, cioè, depositario di alcuna confidenza espressamente rivoltagli da altri e non aveva in alcun modo cercato di attribuire alle parole che aveva sentito pronunziare dallo Spadaro, nell’occasione descritta, significati ulteriori rispetto a quelli emergenti dal loro stesso tenore letterale.

Il comportamento dello Spadaro, secondo il Tribunale, denotava sgomento, disperazione ed ira al tempo stesso; stati d’animo giustificabili solo con la consapevolezza di un grave danno subito dall’organizzazione mafiosa a seguito dell’individuazione di un suo prezioso referente all’interno dei vertici istituzionali dello Stato.

******


Sebbene la motivazione della sentenza impugnata esaurisca il materiale logico riversato nelle pagine 13-23 del volume III capitolo V, paragrafo V.1 dell’atto di impugnazione, giova, comunque, rilevare che i difensori appellanti hanno prospettato l’attendibilità delle smentite offerte in sede di esame, all’udienza dell’undici luglio 1995:

  • da Vincenzo Spadaro (<< ....Io non ho motivo di avere detto queste parole, di dire: 'Nnu consumaru' perché non ho avuto mai rapporti e non conosco.....non ho avuto questi rapporti e non conosco il dottore......questo dottore Contrada, quindi non ho motivo di dire questo...>> (pag. 11 della trascrizione);

  • da Cosimo Vernengo (<<".....Ma quando mai? Mai. Non è vero..." Domanda: "..Lei, il dott. Contrada l'ha mai conosciuto?..." Risposta :"...Mai. L'ho conosciuto adesso in televisione.....>> ( ibidem pagg. 15-16-17) ;

  • da Pietro Scarpisi, che aveva negato il fatto sostenendo che nessun commento si faceva in cella su faccende mafiose, per il timore di intercettazioni ambientali (<<...quando sono stato all'Asinara, lì non si parlava di nulla perché li si pensava che c'erano dentro le celle microspie e cose varie, quindi nessuno faceva nessun commento e nessuno di niente. Qualsiasi cosa succedeva in televisione, si ascoltava solamente.....le ripeto che non si commentava nessuna notizia...>>( pagine 5 e 6 della trascrizione).

Osserva questa Corte che - essendo il thema decidendum costituito dall’accertamento di condotte di pertinenza del sodalizio mafioso nel suo complesso - è del tutto irrilevante che Contrada potesse non conoscere personalmente Vincenzo Spadaro o Cosimo Vernengo, seppure mafiosi di spessore, mentre è assai significativo che lo stesso Spadaro avesse usato l’espressione dialettale “nnu”, cioè il dativo etico “a noi”.

Quanto, poi, al timore, addotto dallo Scarpisi, che le conversazioni in cella venissero captate, va rimarcata la piena logicità del racconto di Gaetano Costa, il quale non solo ha precisato che quello di Vincenzo Spadaro era stato una reazione del tutto estemporanea, ma ha soggiunto che né lo Scarpisi, né il Vernengo si erano lasciati andare a commenti di sorta (cfr. pag. 1099 della sentenza appellata :<< Il Costa ha affermato che gli altri due detenuti, pur essendosi mostrati incuriositi a quella notizia ed alla reazione dello Spadaro, non avevano fatto alcun commento>>); condotta, questa, spiegabile proprio con l’esigenza di oscurare un fatto riservato.

I difensori appellanti, infine (pag. 21, volume III dell’Atto di impugnazione) hanno enunciato dubbi sulla genuinità del racconto del Costa, dubbi legati alla circostanza che egli aveva raccontato, per la prima volta, l’episodio riguardante Contrada nell’ambito di altro procedimento penale, quando il Pubblico Ministero gli aveva chiesto se egli fosse a conoscenza di fatti riguardanti l’imputato.

La risposta dello stesso Costa è stata convincente, e tale da fare escludere l’ipotesi di stimolazioni artificiose: <<COSTA G.: ...guardi, a me è stata fatta la domanda ben precisa e specifica: se sapevo, vista la qualità della nuova veste di collaboratore e visto che organicamente la Procura conosceva il mio inserimento nell'organizzazione criminale, se ero a conoscenza di fatti ben precisi del dottor Contrada. Io ricordavo questo episodio che ho vissuto e questo ho detto, altro però non sapevo>> pag. 69 trascrizione udienza primo giugno 1995).

Né, del resto, sorprende che in un diverso procedimento il Pubblico Ministero avesse ritenuto di sondare il collaborante anche sulla posizione di Contrada, atteso che lo stesso Costa aveva avuto, come ricordato alle pagine 1097 e 1098 della sentenza appellata, rapporti con noti esponenti di “Cosa Nostra” nei diversi istituti di pena in cui era stato ristretto e dunque poteva avere avuto sentore di notizie di interesse.

In conclusione, le valutazioni del Tribunale in ordine alla credibilità intrinseca ed estrinseca di Gaetano Costa appaiono pienamente condivisibili, pur dovendosi rilevare che, di per sé, l’esternazione cui il collaborante ha riferito di avere assistito non enuncia specifiche condotte di agevolazione del sodalizio mafioso da parte dell’imputato e non consente di attualizzare con certezza alla fine del 1992 (epoca del commento ““nnu consumaru!“) un rapporto collusivo che pure Vincenzo Spadaro aveva mostrato di considerare come acquisito al notorio ristretto di Cosa Nostra.

CAPITOLO XI

Le censure riguardanti le propalazioni di Gioacchino Pennino
Gioacchino Pennino, la cui collaborazione con la giustizia è iniziata il 30 Agosto 1994, aveva riferito di avere esercitato la professione di medico a Palermo sia presso laboratori di analisi di sua proprietà, sia con incarichi di rilievo all’interno di strutture pubbliche, mettendo al servizio di “Cosa Nostra” e dei suoi uomini, dopo la sua formale, ma riservata affiliazione all’interno della famiglia mafiosa di “Brancaccio”, avvenuta alla fine del 1977, la sua attività professionale di medico.

Le sue dichiarazioni, come precisato dal Tribunale, non concernevano direttamente l’imputato, bensì soggetti a lui collegati a vario titolo secondo quanto emerso da altre risultanze dibattimentali e precisamente il funzionario di Polizia dott. Pietro Purpi, Stefano Bontate, Pietro Conti ed il magistrato dott. Domenico Signorino.

Esse, inoltre, avevano offerto significativi elementi di giudizio circa l’esistenza di logge massoniche “coperte”, a Palermo.

Il Pennino aveva riferito di avere conosciuto Contrada soltanto in occasione di un colloquio investigativo, effettuato nell’ambito delle indagini sull’omicidio di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, partito nel quale egli stesso aveva militato.

Nel valutare la intrinseca attendibilità del Pennino, il Tribunale osservava che la genuinità delle notizie fornite si ricollegava al loro essere - spesso - frutto di conoscenze dirette o di confidenze casuali da parte di alcuni “uomini d’onore” a lui particolarmente vicini: in sostanza, la riservatezza della affiliazione del Pennino rivelava i limiti, ma, al contempo, l’alto indice di affidabilità delle informazioni, riscontrate dalle convergenti dichiarazioni rese sul conto di Purpi, di Signorino, di Pietro Conti, ed anche sulla Massoneria, dai collaboratori di giustizia Mutolo, Marino Mannoia, Spatola e Pirrone, e quindi idonee a rafforzare il complesso delle risultanze a carico dell’imputato.

*****


Le censure riguardanti le propalazioni di Gioacchino Pennino, sviluppate nel volume III, capitolo V, paragrafo V.1 dell’Atto di Impugnazione (pagine 2-12) si compendiano nelle seguenti, essenziali, proposizioni:

  1. il Pennino non ha reso alcuna dichiarazione accusatoria nei confronti dell’imputato non perché la sua era stata una affiliazione riservata, e, quindi, le sue conoscenze in ordine alle vicende interne della organizzazione mafiosa era limitate, bensì perché non aveva nulla da dire;

  2. è impensabile, infatti, che egli, affiliato ad una delle più potenti “famiglie di mafia” quale quella di Brancaccio (compresa nel mandamento del “papa” Michele Greco), della quale l’omonimo nonno e poi l’omonimo zio, imputato nel processo dei “114”, erano stati rappresentanti, che sin dalla giovane età aveva vissuto in ambienti di mafia ed a contatto di mafiosi di rilievo, quali Michele Greco e Stefano Bontate, non fosse a conoscenza, né per cognizione diretta, né “de relato”, del fatto - ove fosse stato vero - che il Contrada era “nelle mani” di Cosa Nostra;

  3. tale notizia avrebbe dovuto necessariamente pervenirgli, se, come riferito dal collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi all’udienza del 28 aprile 1994, <<in Cosa Nostra era come quando si dice “pane e pasta” che il dr. Contrada era nelle mani di Rosario Riccobono e di Stefano Bontate e di Gaetano Badalamenti...>>(pag. 742 della sentenza appellata);

  4. lo stesso Pennino non ha voluto ripetere o avallare le accuse di altri pentiti, di cui il 19 giugno 1995 (data dell’udienza in cui ha testimoniato) non poteva non essere a conoscenza, verosimilmente per non esporsi a censure di pedissequo adeguamento ad esse ovvero ad un addebito di calunnia per vendetta (il padre era stato arrestato nell’ambito delle indagini sull’ippodromo di Palermo personalmente condotte da Contrada);

  5. in tal modo, egli aveva anche inteso raggiungere lo scopo di fare apparire più credibili le sue accuse nei riguardi del funzionario di Polizia Purpi e del magistrato Signorino, di Pietro Conti, così come le sue indicazioni sulla esistenza di logge massoniche coperte a Palermo;

  6. egli, quindi, aveva perseguito in modo subdolo la finalità di porgere al Tribunale elementi per considerare avvalorate o non smentite altre propalazioni, come quelle di Rosario Spatola sui rapporti di Contrada con la massoneria;

  7. le propalazioni di Pennino sul magistrato Signorino e sul funzionario di polizia Purpi (entrambi deceduti) non potevano in alcun modo essere ritenute idonee a rafforzare “il complesso delle risultanze a carico dell’imputato”, così come asserito a pag. 1133 della sentenza;

  8. segnatamente, per quanto riguarda Purpi - che il Pennino aveva dichiarato di avere visto scambiarsi calorosamente il saluto con Stefano Bontate ed al contempo dire <<“ non lo conosce ? - guardi è Stefano Bontate, un mio grande amico, un grande “uomo d’onore”>> (pagg. 20-21-22-23 trascrizione udienza 19 giugno 1995) - la colleganza o l’amicizia con Contrada non potevano costituire o rafforzare la prova di contatti collusivi tra l’imputato e Stefano Bontate, a meno di volere attribuire proprietà traslative a rapporti personali;

  9. quanto, poi, alla posizione del dr. Domenico Signorino, era totalmente infondata l’affermazione del Pennino - de relato del mafioso Enzo Sutera appartenente alla cosca di Rosario Riccobono, (pagg. 27-28, ud. 19.6.1995) - secondo cui il predetto magistrato si sarebbe talora prestato, accompagnando nella propria autovettura Rosario Riccobono, a proteggerne la condizione di latitante o di ricercato;

  10. il dr. Signorino, infatti, all’epoca Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo, aveva sostenuto la pubblica accusa nel processo definito con sentenza del Tribunale di Palermo n°1092/78 - 160/78 dell’11 aprile 1978, di condanna di Gaspare Mutolo alla pena di anni nove di reclusione per una lunga serie di tentativi di estorsioni e attentati dinamitardi (pena confermata in Appello e in Cassazione), oltre che nel 1° maxi-processo contro Cosa Nostra, nel quale erano stati imputati e condannati individui della “cosca” mafiosa di Rosario Riccobono, tra cui lo stesso Mutolo.

Orbene - premesso che il Tribunale ha dato ampia contezza degli elementi a sostegno della attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaborante - non sono fondate le osservazioni sub a), b) e c), con le quali si vorrebbe fare discendere la infondatezza della contestazione di concorso esterno a carico dell’imputato dalla mancanza di indicazioni accusatorie, nei riguardi di Contrada, da parte dello stesso Gioacchino Pennino.

A questo riguardo, in primo luogo il Tribunale ha persuasivamente argomentato che l’affiliazione riservata del Pennino aveva necessariamente ridotto lo spettro dei contatti e dunque delle informazioni in suo possesso.

In secondo luogo, non sussiste la presunta inconciliabilità tra l’essere la disponibilità dell’imputato un fatto notorio in “Cosa Nostra” e la circostanza che alcuni dei collaboratori di giustizia escussi in questo processo ne fossero rimasti, per un certo tempo, all’oscuro.

Il Tribunale, a proposito delle propalazioni di Tommaso Buscetta (pag. 794 della sentenza appellata) - ma l’osservazione vale anche per il Pennino - ha rilevato:<.D’altra parte l’unico soggetto, per quel che è emerso nell’ambito dell’odierno procedimento, che avrebbe potuto riferire al Buscetta qualche notizia di segno contrario sul conto dell’odierno imputato sarebbe potuto essere il Cancemi, che ha dichiarato di avere appreso prima del proprio arresto quelle generiche notizie sulla “disponibilità” del dott. Contrada, mentre Mutolo, come Buscetta, aveva appreso con analogo stupore solo molto piu’ tardi, quando si era presentata la possibilità e l’occasione nel 1981 di trattare l’argomento in oggetto con Rosario Riccobono, che il dr. Contrada era diventato “uomo a disposizione” di “Cosa Nostra”>>.

Per quanto riguarda le ulteriori osservazioni svolte sub d), e) ,f), h) , i) e j) circa gli scopi, l’attendibilità e la rilevanza nei riguardi dell’imputato delle indicazioni riguardanti Pietro Conti ed il dr. Purpi, vanno richiamate le considerazioni già svolte trattando delle propalazioni di Maurizio Pirrone (quanto a Pietro Conti) e di Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia (quanto al dr. Purpi).

Con riguardo, invece, al dr. Signorino, il Pennino ha indicato la sua fonte in Enzo Sutera, conosciuto verso la fine degli anni ‘70 e divenuto suo cliente nei primi anni ‘80 del novecento, ritualmente presentatogli come “uomo d’onore” forse dallo stesso Michele Greco, suo capomandamento (cfr. pag. 25 trascrizione udienza 19/6/1995). Il Sutera, in particolare, intorno al 1980-1981 avrebbe detto, mentre si trova a pranzare in un ristorante di Palermo con lui e con un certo Palazzotto, che in più occasioni il predetto magistrato aveva accompagnato, con la propria autovettura, Rosario Riccobono, così, di fatto, impedendone l’identificazione.

Orbene, l’oggetto di questo giudizio non è la posizione del dr. Signorino, ma la valutazione dei riscontri alle dichiarazioni del Pennino e del contributo da lui offerto rispetto alla posizione dell’odierno imputato.

Entro tali limiti non ci si può esimere dal rilevare che le considerazioni svolte a proposito della contemporanea frequentazione di via Jung da parte dell’imputato e del Riccobono non possono non sfiorare anche il dr. Signorino, che aveva abitato in quella strada.

Non è arbitraria, dunque, la citazione che il Tribunale ha fatto delle dichiarazioni del Pennino, come riscontro alle dichiarazioni di Rosario Spatola, sull’episodio dell’incontro al ristorante “Al Delfino”, per avvalorare l’affermazione di più collaboranti (e tra questi lo stesso Mutolo) che il Riccobono conduceva una latitanza piuttosto tranquilla e non era alieno dal farsi vedere anche in luoghi pubblici.

Infine Gioacchino Pennino ha narrato di avere ricevuto la proposta di affiliarsi alla loggia segreta “dei trecento” da un uomo d’onore di Bagheria, il dott. Francesco Mineo, componente del Comitato Provinciale della Democrazia Cristiana ed esponente della corrente andreottiana di Salvo Lima,47 così come di avere ricevuto analoga proposta da Stefano Bontate.

Il suo racconto ha trovato riscontro nella sentenza di condanna resa dal Tribunale di Palermo il 9 luglio 1997 nei confronti di Mandalari Giuseppe, imputato del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, prodotta nel primo dibattimento di appello all’udienza del 24 marzo 2000, confermata in grado di appello con sentenza del 15 luglio 1998 e divenuta irrevocabile per il Mandalari a seguito del rigetto del ricorso per Cassazione in data 7 aprile 1999.

In detta sentenza, non solo vengono riconosciute la credibilità del Pennino e la rilevanza delle sue dichiarazioni << soprattutto in ordine ai rapporti tra le associazioni mafiose e quelle massoniche>> (pag. 54), ma si afferma <<effettivamente sussistente un generale interesse dell'associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra” all'infiltrazione in organismi associativi comprendenti personaggi delle istituzioni ….>>, funzionalmente diretta <…..)



In tale contesto appare, pertanto, del tutto evidente che le caratteristiche operative dell'organizzazione mafiosa, la sua segretezza e la sua illiceità abbiano imposto l'utilizzazione di strutture associative dotate dei connotati della riservatezza dei singoli componenti o della totale segretezza degli stessi, poichè solo in tal modo gli esponenti mafiosi possono avere la certezza di entrare in contatto con soggetti professionalmente sfruttabili senza correre il rischio di vedere palesata all'esterno della struttura associativa particolare, e, quindi, anche agli organi investigativi e di polizia in particolare, l'esistenza di tali rapporti.

Inoltre, se la struttura associativa, comprendente esponenti delle istituzioni e imprenditori, appare al contempo caratterizzata dal vincolo solidaristico, che unisce tutti membri e li obbliga a prestarsi reciproca assistenza, la realizzazione degli scopi dell'associazione mafiosa, attraverso la partecipazione alla stessa di uno o più esponenti di rilievo dell'organizzazione criminosa, appare ancor più facilmente raggiung-ibile attraverso lo sfruttamento di regole originariamente costituite con finalità totalmente differenti.

Orbene, in un determinato periodo storico, che appare possibile collocare tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '90, uno degli strumenti utilizzati per facilitare tale attività di infiltrazione all'interno delle istituzioni civili dello Stato e del mondo imprenditoriale ha operato attraverso l'affiliazione di esponenti mafiosi nell'ambito delle c.d. 'Logge coperte" costituite all'interno, o parallelamente, alle singole obbedienze della massoneria ufficiale.

Invero, prima di procedere all'analisi delle caratteristiche peculiari di tali organismi, va subito evidenziato che la particolare riservatezza che caratterizza le attività di tali gruppi associativi, unitamente alla rilevanza dei singoli partecipi o, quantomeno, di alcuni di essi, ben si sposa con le sopra indicate esigenze dell'organizzazione mafiosa, la quale necessita di entrare in contatto con terzi, che, tramite la loro opera, possano garantire, spesso anche inconsapevolmente, la migliore realizzazione degli scopi di arricchimento ed impunità senza correre il rischio di essere facilmente individuati.

L'istruzione probatoria svolta in sede dibattimentale ha consentito di acquisire una mole di elementi dichiarativi dai quali può ritenersi accertato con sufficiente grado di certezza il dato dell'esistenza all'interno della massoneria ufficiale delle predette logge coperte, spesso però identificate con l'utilizzazione di appellativi differenti (segrete, riservate etc.) ma, sempre, comunque sostanzialmente contrapposte alle logge ufficiali caratterizzate dalla pubblicità dei lavori e dalla conoscibilità degli appartenenti>> (pagine 348-350 della sentenza menzionata).

In conclusione, lungi dall’essere il frutto della mirata ed indiretta modulazione di false accuse nei riguardi dell’imputato, il contributo di Gioacchino Pennino è consistito nella utile indicazione di circostanze di contorno, in più parti valorizzate dal Tribunale nel quadro delle complessive emergenze a carico dell’imputato.

CAPITOLO XII
Le censure riguardanti le propalazioni di Pietro Scavuzzo
Pietro Scavuzzo aveva confessato di aver fatto parte di “Cosa Nostra” quale componente della “famiglia” di Vita, compresa nella provincia di Trapani, essendovi stato formalmente affiliato nel 1982.

Con riguardo alla posizione dell’imputato, aveva narrato il seguente episodio.

Intorno alla fine del 1989 Salvatore Tamburello - “reggente” della famiglia mafiosa di Mazara Del Vallo e, successivamente, subentrato a Mariano Agate nel periodo della sua detenzione anche nella qualità di capo dell’omonimo mandamento - aveva rappresentato la necessità di rintracciare in Svizzera, dove esso collaborante si recava spesso per la gestione dei propri traffici illeciti, un tecnico esperto in archeologia per la valutazione di un’anfora antica nella disponibilità di Francesco Messina Denaro, capo del mandamento di Castelvetrano, uno dei tre “rappresentanti” della “provincia” mafiosa di Trapani.

Nel 1990, quindi, nuovamente sollecitato dal Tamburello, egli si era adoperato,con l’ausilio di un non meglio identificato consulente finanziario di nome “Ludwig”, operante a Zurigo, per individuare un esperto che avrebbe potuto procedere in Sicilia all’operazione di stima dell’anfora.

L’esperto, di nazionalità svizzera, di cui non era stato in grado di ricordare il nome, tra la fine di gennaio ed i primi di febbraio del 1991 era giunto all’aeroporto di Palermo, accolto da Pietro Mazara, uomo di fiducia di esso collaborante, anche se non formalmente affiliato a “Cosa Nostra”, precedentemente inviato in Svizzera per definire i dettagli dell’operazione.

Egli, invece, aveva ricevuto l’incarico di prelevare l’anfora presso la casa del Tamburello la mattina dell’arrivo dell’esperto svizzero, e di trasportarla in autovettura insieme a Calogero Musso, suo capofamiglia, a Palermo ove, presso il “Motel Agip” sulla circonvallazione, si sarebbe incontrato verso mezzogiorno con il Mazara ed il tecnico svizzero.

Il Tamburello non gli aveva comunicato nè i particolari relativi alla necessità di quella trasferta a Palermo nè il luogo di destinazione dell’anfora, noti, invece, al suo capo-famiglia Calogero Musso, la cui presenza era pertanto necessaria, essendo, questi, l’unico a conoscere il posto in cui si doveva andare.

Non aveva posto domande, nè obiettato alcunchè a seguito delle istruzioni ricevute, così come è, peraltro, consuetudine all’interno di “Cosa Nostra” quando si ricevono ordini da un capo.

Giunti sul luogo dell’appuntamento a bordo dell’autovettura di proprietà del Musso, avevano invitato il Mazara, che aveva prelevato in aeroporto il tecnico svizzero, a seguirli con la sua automobile.

Il collaborante aveva, quindi, descritto nelle grandi linee il percorso seguito a Palermo, il palazzo e l'appartamento in cui erano entrati, ricevuti da una donna sopra i cinquant’anni, vestita in modo dimesso, che li aveva invitati ad attendere in un salotto.

Era, quindi, giunto un uomo, che egli non aveva mai visto prima e che solo successivamente aveva appreso identificarsi nell'imputato. Questi aveva scambiato il saluto con Calogero Musso (con cui mostrava di avere un pregresso rapporto di conoscenza), che, a sua volta, gli aveva presentato i soggetti arrivati con lui.

Poco dopo, i due si erano appartati per discutere in un angolo in fondo al salone, mentre il tecnico aveva proceduto ad un accurato esame dell’anfora, protrattosi per circa un’ora, riservandosi ulteriori accertamenti e comunque pervenendo, già allora, alla conclusione che si trattava di un pezzo antico, autentico, di notevole valore.

Subito dopo l’operazione di stima, lo Scavuzzo aveva corrisposto al tecnico la cifra pattuita di cinque milioni di lire oltre le spese del viaggio, consegnatagli dal Tamburello la mattina prima della partenza; quindi, tutti si erano salutati.

Dopo un mese e mezzo circa, egli era tornato in Svizzera, dove aveva ricevuto ulteriore conferma dal tecnico, a seguito degli esami esperiti, che l’anfora era di notevole valore.

Rientrato in Sicilia, aveva riferito al proprio capo-mandamento l’esito del viaggio, manifestandogli il proprio stupore per l’interesse verso quell’anfora e per le notevoli spese sostenute per la sua valutazione.

A questo punto, il Tamburello gli aveva rivelato che l’anfora non era più in possesso del Messina Denaro, che l’aveva regalata al dr. Messineo, vice- Questore di Trapani, messo a conoscenza della sua esistenza dal suo amico, e cioè quel signore che a Palermo aveva assistito all’operazione di stima e che si identificava in Bruno Contrada.

Dal Tamburello - il quale gli aveva riferito che il dr. Messineo era “a disposizione“ di “Cosa Nostra” - aveva appreso che l’odierno imputato era “un uomo dello Stato”.

Solo in epoca successiva a tali fatti, mentre si trovava detenuto, lo Scavuzzo, avendo rivisto in televisione l’immagine di Contrada, aveva verificato che effettivamente si trattava dello stesso uomo da lui conosciuto nella circostanza descritta.

Il Tribunale formulava un positivo giudizio circa la generale credibilità dello Scavuzzo.

Riconosceva, per altro verso, che le indagini eseguite non avevano consentito di acquisire riscontri nè in ordine ai soggetti contattati in Svizzera dal collaborante (il finanziere - faccendiere Ludwig e lo stimatore), nè in ordine all’individuazione dell’appartamento dove sarebbe stata eseguita l’operazione di stima dell’anfora. Né, comunque, era emerso con chiarezza il ruolo dell’imputato nella vicenda in esame.

Quel giudice, tuttavia, disattendeva sia l’assunto secondo cui la mancata individuazione dell’appartamento avrebbe costituito una smentita alle dichiarazioni dello Scavuzzo, sia l’ipotesi di manipolazione del pentito, avanzata dalla Difesa anche in relazione al fatto che l’immobile che sembrava questi avesse riconosciuto era la sede del centro S.I.S.DE.

Rilevava, per contro, che dalla istruzione dibattimentale erano emersi elementi di conferma alle dichiarazioni in questione, e cioè i comprovati rapporti di conoscenza tra il funzionario Messineo e l’imputato; la presenza di Contrada a Palermo in un periodo compatibile con la collocazione cronologica dell’episodio; l’essere risultata la “materia” delle anfore antiche non del tutto estranea allo stesso Contrada, detentore di un’anfora antica, verosimilmente di epoca romana, denunciata alla Sovrintendenza alle Antichità per le province di Palermo e Trapani (cfr. documentazione acquisita all’udienza dell’11/11/1994) ed amico del prof. Vincenzo Tusa, massone iscritto alla P2, già sovrintendente ai beni archeologici per la provincia di Palermo.

In conclusione, pur con le riserve dianzi accennate, il Tribunale esprimeva il convincimento che:<<… che oltre agli elementi di verifica già evidenziati, le dichiarazioni di Pietro Scavuzzo convergono con le accuse formulate nei confronti dell’imputato da altri collaboratori di giustizia, di cui già si è detto>> (pag. 1095 della sentenza appellata).

*****


Il narrato di Pietro Scavuzzo, ad avviso di questa Corte, non è immune da buona parte di quelle lacune ed incongruenze denunciate nel corpo del volume III, capitolo V, paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione (pagine 24-79).

In estrema sintesi, i difensori appellanti hanno dedotto che:



  1. l’anfora di cui aveva parlato il collaborante non era stata rinvenuta né a casa Messineo, né altrove;

  2. non era stato localizzato l’appartamento in cui sarebbe avvenuto l’incontro per la perizia dell’anfora;

  3. non era stato identificato il “Ludwig”, commercialista e cittadino svizzero,” che avrebbe fatto da tramite tra il perito archeologo e Pietro Scavuzzo, né quest’ultimo aveva detto o fatto qualcosa perché venisse identificato, per dare forza alle sue accuse, ove fossero state vere;

  4. parimenti, non era stato identificato il perito archeologo, cittadino svizzero, né Scavuzzo aveva fatto qualcosa perché venisse identificato;

  5. non era stata identificata la “donna di circa cinquanta -cinquantacinque anni” che avrebbe ricevuto i partecipanti all’incontro per la perizia sull’anfora;

  6. non era stato accertato o individuato alcun rapporto tra Contrada e Scavuzzo, Musso, Mazzara, Tamburello, Francesco Messina Denaro;

  7. non era stato individuato o indicato il motivo per cui Contrada si sarebbe adoperato per la stima dell’anfora e perché la stessa venisse data al dr. Messineo.

*****

Osserva questa Corte che le perquisizioni condotte nelle abitazioni del dr. Messineo, della madre e della sorella48 non hanno avvalorato l’affermazione dello Scavuzzo di avere appreso dal suo capo mandamento Salvatore Tamburello che l’anfora faceva “bella mostra” nel salotto del funzionario di Polizia (cfr. pag. 137 udienza 26 maggio 1994).

La considerazione sub a), dunque, per quanto non decisiva, è sicuramente pertinente.

Parimenti persuasive appaiono le ulteriori affermazioni riassunte sub b), c) e d).

Lo Scavuzzo, infatti, ha dichiarato di avere ripercorso, con il brigadiere dei Carabinieri Giacomo Trapani, l’itinerario da lui descritto ai Pubblici Ministeri che lo avevano interrogato; di essere giunto in un’area che egli ricordava fosse una piazza, nella quale le automobili condotte dal Mazara e dal Musso erano state posteggiate; di avere constatato, tuttavia, che si trattava di una strada nella quale si parcheggiava su due lati, anche in seconda fila (pag. 21 trascrizione udienza 26 maggio 1994).

Il brigadiere dei Carabinieri Giacomo Trapani, sentito il 28 marzo 1995, aveva riferito che il collaborante - nel corso della ispezione condotta con lui e con il carabiniere Luigi Pellino il 12 gennaio 1994 al fine di individuare i luoghi indicati dallo Scavuzzo - aveva riconosciuto quel luogo nella via Francesco Guardione, traversa della via Roma.

Ora, premesso che <<Un fatto può essere qualificato come notorio qualora, seppure non faccia parte delle cognizioni dell'intera collettività, rientri - come i particolari geografici o topografici di una città - nelle circostanze conosciute e comunemente note nel luogo in cui abitano il giudice e le parti in causa>> (Cassazione civile, sez. III, 21 dicembre 2001, n. 16165), non è vano ricordare che la Via Guardione ha una sede stradale alquanto ristretta e non è, quindi, facilmente confondibile con una piazza.

Peraltro, la stessa individuazione della via Guardione non è apparsa del tutto certa.

Ed invero, successivamente al suo esame, lo Scavuzzo è stato accompagnato per ben due giorni, il 16 ed il 17 giugno 1994, in una ulteriore e più approfondita ispezione della zona indicata, dal capitano di Carabinieri Luigi Bruno, che ne ha riferito all’udienza del 21 ottobre 1994, dichiarando :“Quindi lui disse:<>(….) E poi rispetto alla posizione da lui indicata, come quella del quasi certo parcheggio, lui ha detto:<< Una strada come questa, larga come questa...>>; però l'ha indicata nella via Guardione, ha anche aggiunto di non essere particolarmente sicuro o perfettamente sicuro di quella via (pag. 20 della trascrizione).

Né elementi di maggiore certezza sono emersi nel prosieguo del narrato del collaborante relativo alla prima ispezione, quella condotta con i Carabinieri Trapani e Pellino.

Lo Scavezzo, infatti, dopo un fallito tentativo di individuazione del primo stabile visitato, aveva ritenuto di riconoscere il palazzo accanto, sito al civico 457 della via Roma, dagli scalini e dall’entrata, e però aveva constatato che la guardiola del portiere si trovava sulla sinistra e le scale sulla destra, cioè in una posizione invertita a quella che ricordava, così come <<l’ascensore era… tutto all’opposto di come pensavo io>> (pag. 22 trascrizione udienza 26 maggio 1994).

Quindi, al fine di operare la ricognizione dai piani alti verso i piani bassi, era salito in ascensore con il Brigadiere Trapani ed il Carabiniere Pellino sino all’ultimo piano (cioè il nono), a proposito del quale aveva osservato : <<Come impostazione di piano è questa, però manca quel videocitofono che io mi ricordo>> (ibidem, pag. 22).

Aveva riconosciuto, invece, il videocitofono (pur trattandosi di un prodotto del tutto seriale) all’ottavo piano (<<Brigadiere per me l’entrata cui io sono entrato è questa qua>>). Ciò, peraltro, era avvenuto nel brevissimo lasso di tempo consentito dal fatto che, alla richiesta di spiegazioni sulla loro presenza, fatta da alcune persone che si erano affacciate sul ballatoio, egli stesso ed suoi accompagnatori si erano dileguati in tutta fretta (ibidem, pag. 23).

Tale presunto riconoscimento, fugace e dissonante con il riscontro mnemonico delle scale, dell’ascensore e della guardiola del portiere, è stato ulteriormente indebolito dal fatto che il collaborante si è costantemente richiamato alle sue prime dichiarazioni, nel contesto delle quali aveva riferito di essere salito - reggendo unitamente al Musso l’anfora, confezionata in una scatola di cartone - al massimo per due o tre piani, e non certo per otto (cfr. pagine 19, 43,53 57,58 125 e 127 della trascrizione).

Né è sostenibile che, nel misurare i piani allorquando trasportava l’anfora, lo Scavuzzo potesse essersi sbagliato.

Egli, infatti, ha riferito di essere entrato in quel palazzo in uno stato di estrema tensione perché, a parte la sua condizione di latitante, paventava un agguato ai propri danni, diffidando del Musso - cui doveva obbedienza solo per ragioni di disciplina mafiosa - per pregresse vicende riguardanti conflitti tra i rispettivi ascendenti. Non a caso, del resto, aveva chiesto al Mazzara, suo uomo di fiducia, di accompagnarlo armato di pistola, ed aveva voluto trasportare l’anfora con Musso per una sorta di tacita intesa con lui, in modo che nessuno dei due si esponesse prendendola da solo (cfr. pagine 15 e 57 della trascrizione).

Successivamente alla sua deposizione, anche in relazione ai dubbi alimentati dalle dichiarazioni dell’imputato e di alcuni testi della Difesa circa l’impossibilità, per gli estranei, di accedere al Centro S.I.S.DE, a maggior ragione con le modalità indicate dallo Scavuzzo49 sono state svolte le ulteriori, già menzionate investigazioni del capitano Bruno.

Esse, tuttavia, non hanno prodotto dato alcun utile risultato.

Lo stesso capitano Bruno, nel corso del suo esame, ha dato piena contezza delle esitazioni mostrate dallo Scavuzzo nell’ambito del sopralluogo condotto il 16 ed il 17 luglio 1994 sulla scorta delle dichiarazioni da questi rese al Pubblico Ministero: alla iniziale indicazione del palazzo di via Roma 457, aveva fatto seguito quella di un altro palazzo, sito in via Stabile n. 218/B, su cui le ricerche dello stesso teste Bruno non avevano dato alcun esito: (cfr. pagine 20-25 trascrizione udienza 21 ottobre 1994: BRUNO L.: Lui ecco, dunque, lui si dichiarava, si dichiara certo che lo stabile di via Roma, lui dice:<>. Allora dicemmo allo Scavuzzo di continuare nell'attività di ricerca osservando altri particolari. (….)

Le caratteristiche generali indicate a suo tempo erano: un grosso androne, ampio; delle scale in marmo o, comunque, che potevano sembrare di marmo; quattro o cinque scalini all'ingresso; poi, la garitta o, comunque, il vano del portiere sulla destra; di fronte, per chi accede, una scala che sale; a sinistra, per chi accede, l'ascensore; e a destra invece, per chi accede, un' altra scala che, comunque, arriva ... che passa dietro la garitta del portiere, che gira dietro la garitta del portiere. Questa è l'immagine fotografica che si poteva trarre dalla descrizione dello Scavuzzo .Ecco perchè, ad un certo punto, girando siamo andati a finire nella via Stabile 218/B. In questo palazzo abbiamo constatato che le caratteristiche generali corrispondevano alla descrizione a suoi tempo fatta dallo Scavuzzo.

(….) Si. Ecco. Io prima stavo accennando al particolare della vetusta della tromba delle scale, perchè ad un certo punto, lui, rimase colpito sia in questo palazzo, sia in un altro palazzo nel quale entrammo perchè percorremmo anche altre strade, dalla vetusta della tromba delle scale. E disse:<>. E, successivamente, noi facemmo degli accertamenti su questo palazzo di via Stabile n. 218/B>>.

Sotto altro profilo, non è appagante la spiegazione, offerta dallo Scavuzzo, di non potere fornire alcuna specifica indicazione sulla persona e sul luogo di lavoro di “Ludwig”, al di fuori del fatto che si trattava di un intermediario cui, a Zurigo, egli soleva consegnare, unitamente a tale Peppe Lazzarino, il denaro necessario all’acquisto di droga di provenienza turca (pag. 107 trascrizione udienza 26 maggio 1994).

Il collaborante, infatti, in sede di controesame ha dichiarato che, pur essendo stato più volte negli uffici di “Ludwig”,vi era stato sempre condotto da questo personaggio, che lo andava a prendere <<A Zurigo all’uscita dell’autostrada>> (ibidem, pag. 108).

Ora, pur non potendosi pretendere che lo Scavuzzo conoscesse, anche per grandi linee, la rete viaria di Zurigo (mentre ha mostrato di conoscere quella di Palermo, città dove ha spiegato di avere trascorso circa un anno della sua latitanza, ibidem, pag. 63), lascia perplessi il fatto che egli non abbia saputo fornire nemmeno una pur minima coordinata da ricollegare alla persona o agli uffici di “Ludwig”, come l’indicazione di una piazza, un monumento, una qualche informazione sullo stesso aspetto del palazzo o della zona in si trovavano quegli uffici, qualunque altra cosa avesse colpito la sua attenzione.

Perplessità non dissimili, del resto, suscita la totale mancanza di riferimenti ai fini della identificazione del tecnico svizzero, che il collaborante ha dichiarato di avere avuto modo di osservare per tutto il tempo in cui si sarebbe protratto l’esame dell’anfora, e cioè per circa un’ora.

Lo Scavuzzo, infatti, pur descrivendo, anche se in modo non proprio nitido, la forma ed i colori dell’anfora (o “vaso antico, non so io come si chiamano”, cfr. pagine 10, 70,71, 78 della trascrizione ) e, in modo più preciso le modalità della sua analisi, condotta con una sorta di ventosa ed un piccolo monitor nelle parti contenenti le figurazioni (ibidem pag. 68), nulla ha saputo dire sulle fattezze del tecnico, se non che questi era di statura media e non era biondo.

Allo stesso modo, a proposito della donna di circa cinquanta -cinquantacinque anni che avrebbe aperto la porta e successivamente portato il caffè, lo Scavuzzo non ha saputo dare nessuna più precisa indicazione, se non il fatto che la stessa non mostrava una particolare ricercatezza nel trucco o nell’abbigliamento (“non era allicchittata”, pag. 138 della trascrizione), ma appariva di aspetto dimesso.

Non del tutto chiaro, del resto, è il racconto dello Scavuzzo in ordine al ruolo ricoperto da Contrada nel contesto dell’episodio da lui narrato.

L’imputato avrebbe informato il suo collega Messineo del fatto che Francesco Messina Denaro era in possesso di un’anfora antica. Poiché l’analisi dell’esperto non avrebbe avuto alcuna ragione d’essere se il Messina Denaro avesse voluto tenere il reperto per sé, se ne trae la conclusione che Contrada si sarebbe prestato ad una consapevole agevolazione di un fatto corruttivo riguardante il mafioso Messina Denaro ed il funzionario di Polizia Messineo.

Se, dunque, le posizioni dei due funzionari di Polizia non erano così distanti tra loro, non è affatto persuasiva la spiegazione, di tenore umanitario- garantista, data dal collaborante sul perché, interrogato una prima volta il 14 dicembre 1993, egli avesse accusato il solo Messineo riservandosi, però, di fare il nome di Contrada (cfr. pag. 120 trascrizione udienza 26 maggio 1994: <<SCAVUZZO P.:No,onestamente io in prima istanza ero no restio a farlo, perché in buona sostanza ero….non volevo farlo signor Presidente,perché a me quest’uomo io non posso dire che è un uomo d’onore perché non mi è mai stato presentato, che ha fatto dei favori a Cosa Nostra non lo so perché non mi risulta, quindi non volevo, sentivo che c’erano chiacchiere e storie, non volevo uscire questo nome, mi sembrava di aggravare la posizione di un uomo che io in verità visto una volta lì, altre cose a me non mi risultavano niente e quindi quando ho fatto la descrizione di sta anfora che è andata a finire a Messineo e che l’avevano fatta verificare, chi c’era presente, ho detto la verità perché ho detto sempre la verità, ho detto c’era un altro uomo presente che mi riservo di fare il nome>>.

D’altra parte, anche a volere superare la barriera del giudizio di attendibilità intrinseca nonostante l’imprecisione delle dichiarazioni accusatorie dello Scavuzzo, il processo non ha offerto quei riscontri ad esse che, invece, il Tribunale ha ritenuto di rinvenire.

Nessun elemento, in particolare, è emerso a conferma delle accuse di collusione rivolte al funzionario di Polizia Messineo, né è dato trarne dal decreto di archiviazione reso nei suoi confronti e prodotto in questo giudizio di rinvio all’udienza del 30 gennaio 2004.

Di fronte a tale carenza, le due annotazioni sulle agende di Bruno Contrada, relative ad altrettanti contatti con Messineo - una relativa ad una visita alla Questura di Trapani in data 4 febbraio 1991 (nel corso della quale l’imputato e Messineo hanno ammesso di essersi visti di sfuggita), ed una concernente una telefonata che l’imputato ha ammesso di avere fatto per raccomandare uno studente - hanno infatti, trovato plausibili spiegazioni, a differenza di tante altre annotazioni che, in altri contesti, sono state valorizzate dal Tribunale.

La circostanza, poi, che Contrada, in servizio a Roma dal 1986, fosse stato presente in alcune occasioni a Palermo nel periodo in cui si sarebbe svolto l’episodio riferito dallo Scavuzzo (segnatamente, durante le vacanze natalizie dal primo al 6 febbraio 1991, e poi dal primo al 10 marzo 1991), è sostanzialmente neutra, se non altro perché a Palermo è sempre rimasta la sua famiglia.

Infine, la non estraneità dell’imputato alla materia delle anfore antiche è un elemento davvero troppo labile per costituire conferma alla affermazione della ingerenza di Contrada nella vicenda in esame.

Per altro verso, come persuasivamente ritenuto dal Tribunale (pag. 1090 della sentenza appellata) la mancata individuazione dell’appartamento nel quale sarebbe avvenuta l’analisi dell’anfora - in una alle perplessità mostrate nel riconoscimento dello stabile - priva di sostegno l’ipotesi della manipolazione dello Scavuzzo, avanzata dai difensori appellanti come indizio rivelatore del più volte paventato complotto ai danni dell’imputato; complotto, che, in questo caso, appare del tutto inverosimile anche per la evidente grossolanità che lo avrebbe caratterizzato.

Per questa stessa ragione, non ha ricadute di sorta l’ulteriore circostanza, evidenziata a pag. 51 del volume III capitolo V, paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione, che il brigadiere Giacomo Trapani si fosse detto consapevole, alla data del 12 gennaio 1994, giorno del sopralluogo in via Roma n°457, che a quel civico erano ubicati gli uffici del Centro S.I.S.DE di Palermo e che Contrada fosse un funzionario del S.I.S.DE.

Lo stesso Scavuzzo, infatti, ha affermato che il brigadiere Trapani gli aveva proposto di accedere in un primo palazzo, da lui non riconosciuto, sollecitandolo a fare un giro di perlustrazione per maggior sicurezza (cfr. ff. 22- 60 - 166- 167 trascrizione udienza 26 maggio 1994). Ha precisato di essere stato, invece, autonomamente attratto da alcune analogie che rispetto al suo ricordo, presentava lo stabile con ingresso al n° 457 (ibidem, pagg. 22 - 60- 128 e ss. - 168 ud. cit.), salvo, poi, rilevare le già menzionate differenze.

Tale ricostruzione è del tutto coerente con la testimonianza dello stesso brigadiere Trapani, che dunque non ebbe ad influenzare, né per un suo personale eccesso di zelo, né come braccio operativo degli artefici del paventato complotto, le incerte e contraddittorie indicazioni di Pietro Scavuzzo.

In conclusione, non può essere condivisa la già menzionata valutazione finale del Tribunale (<<… oltre agli elementi di verifica già evidenziati, le dichiarazioni di Pietro Scavuzzo convergono con le accuse formulate nei confronti dell’imputato da altri collaboratori di giustizia, di cui già si è detto>>), dovendosi prendere atto che non vi è prova che la condotta di sistematica agevolazione, ascritta all’imputato, si sia protratta sino ai primi mesi del 1991, epoca in cui il collaborante ha collocato l’episodio da lui riferito, né, tanto meno, in epoca successiva.

CAPITOLO XIII
Le doglianze relative alla possibilità di incontri tra collaboratori di giustizia e le relative richieste di rinnovazione della istruzione dibattimentale. Le esternazioni di Giuseppe Giuga e Giovanni Mutolo.
Esaurita la disamina delle censure riguardanti le propalazioni dei collaboratori di giustizia escussi in primo grado, mette conto rilevare che i difensori appellanti, nel volume “A” dei Motivi nuovi (pagine 3 -10), muovendo dalla pacifica premessa che il criterio della “convergenza del molteplice” non può operare se il riscontro vicendevole delle dichiarazioni di più pentiti è artificiosamente creato, hanno dedotto che:


  • <<..assume il carattere di quasi notorietà all’esito di recenti acquisizioni processuali, che taluni c.d. collaboratori di giustizia erano soliti incontrarsi e convenire dichiarazioni se non programmare falsi pentimenti, false incolpazioni e strategie accusatorie (v. si ad es. Di Matteo Mario Santo, La Barbera Gioacchino, Brusca Giovanni, Brusca Enzo Salvatore)>>;

  • <>;

  • <>.

Su queste premesse, rifacendosi alle doglianze svolte nell’Atto di Impugnazione ed anticipando quelle articolate nei successivi volumi dei “Motivi Nuovi”, i medesimi difensori hanno ritenuto di <>, elementi riassunti nei seguenti termini:

<< a) il collaboratore Buscetta Tommaso ha immutato radicalmente nella fase delle indagini preliminari e nel corso del dibattimento le originarie
propalazioni del 1984.

Di indiscutibile significato appare inoltre il fatto che tale atteggiamento sia stato assunto dopo oltre otto anni (novembre 1992);

b) il collaboratore Marino Mannoia ha prestato attività di sostegno alle propalazioni del Mutolo dell'autunno '92.

Il predetto ha formulato le sue accuse soltanto dopo oltre quattro anni dall'asserito pentimento ( 1989 ) .

E ciò in un contesto che ingenera gravi sospetti ove si tenga nel debito conto che, in ben due occasioni (2 e 3 aprile 1993), ebbe a rappresentare alle Autorità Giudiziarie di Caltanissetta e di Palermo di non essere a conoscenza di alcunché sulla persona del Dott. Contrada nonostante le esplicite domande sul punto;

c) Spatola Rosario, per quanto è dato conoscere, ha avuto revocato il programma di protezione.

Anch'egli ha fatto propalazioni dopo oltre tre anni dall'asserto pentimento e di poi, nel corso del dibattimento, ha immutato le originarie accuse fornendo risibili giustificazioni, correggendo particolari non di secondaria importanza per adeguare il contenuto delle propalazioni alla realtà fattuale (v.si descrizione dei locali del ristorante "II Delfino", ove asseritamente avrebbe avuto luogo l'incontro tra il dott. Contrada ed il mafioso Riccobono Rosario).

Non può, d'altro canto, sottacersi del tentativo di coinvolgimento del Dott. Contrada nella c.d. operazione "Hotel Costa Verde " di Cefalù, tentativo tanto maldestro da essere abbandonato dalla stessa accusa;

d) il collaborante Mutolo Gaspare, accreditato malgrado talune palesi menzogne ("donazione"al Dott. Contrada della somma di £. 15.000.000 per l'acquisto di un'autovettura, intervento del mafioso Graziano Angelo per assicurare al Dott. Contrada la disponibilità di un appartamento nella via Jung, inverosimili "garantite" protezioni al gruppo mafioso Riccobono, episodio Siracusa) ha citato tra le sue fonti pressocchè esclusivamente persone decedute e non in grado, pertanto, di
obiettare alcunché (n.d.r.: il ricorso a fonti costituite da persone decedute accomuna la posizione di Buscetta, Marino Mannoia ed altri);

e) il collaborante Cancemi Salvatore, pure egli elemento di supporto su presunte protezioni accordate a mafiosi dal Dott. Contrada, è stato ritenuto inattendibile dalla Autorità Giudiziaria (v.si all.to 2: sentenza del Tribunale di Palermo, Sezione I Penale, del 6 giugno 97, procedimento penale n.650/95 R.G. G. T. a carico di Oliveri + altri ) ;

f) i collaboratori Costa Gaetano (ambiguo e generico), Pirrone Maurizio (spacciatore, non uomo d'onore), Scavuzzo Pietro (ineffabile bugiardo, narratore di storie inverosimili), costituiscono fonti sospette ed inquinate.

Analoghe osservazioni meritano Marchese Giuseppe, che risulta smentito da Di Maggio Baldassare, nonché la teste Pirrello Carmela, agente provocatore, neppure capace di riuscire nell'intento, e per sua ammissione ostile al dott. Contrada.

Va detto, a questo punto, che quanto sin qui rappresentato, costituisce esemplificazione non esaustiva delle problematiche probatorie scaturenti dalle propalazioni dei c.d. "pentiti".

Siffatte esemplificazioni, in uno alle dichiarazioni Cirillo ed agli eventi giudiziari maturati recentemente, rendono indispensabile, al fine del decidere, accertare:

1) se il Mutolo ha fruito del regime di detenzione extra carcerario, se durante tale periodo ha avuto modo di incontrare funzionari di Polizia, soggetti estranei e le ragioni che determinarono quegli incontri;

2) se il predetto, a far data dall'ammissione del regime degli arresti domiciliari, ha fruito di permessi o gli è stato consentito di prestare attività lavorativa. E comunque se, a far data dalla dimissione dal carcere, ha incontrato altri collaboratori di giustizia e in particolare Buscetta Tommaso, Marino Mannoia, Spatola Rosario, Scavuzzo Pietro, Cancemi Salvatore, Pirrone Maurizio, Costa Gaetano, Marchese Giuseppe e chiunque altro, in qualsiasi luogo od anche nei locali del Servizio Protezione, presso la D.I.A., presso qualsivoglia struttura pubblica o privata.

Se organi di Polizia, Carabinieri o Guardia di Finanza abbiano redatto relazioni di servizio o note concernenti il Mutolo e suoi eventuali incontri con altre persone.

Se, prima degli interrogatori resi sia nella fase delle indagini preliminari che in prossimità del dibattimento, costui abbia incontrato (e per quali ragioni) pubblici ufficiali.

Del pari indispensabile si appalesa l'acquisizione del programma di protezione elaborato per il Mutolo (eliminando dallo stesso ogni indicazione afferente il luogo di residenza, il cambiamento di nome e quant'altro possa nuocere alla di lui incolumità), nonché informazioni sui compensi in denaro dallo stesso percepiti, specificando il titolo e le date dell'erogazioni. Si formulano le stesse richieste per i collaboranti Buscetta Tommaso, Marino Mannoia Francesco, Marchese Giuseppe, Spatola Rosario, Cancemi Salvatore, Scavuzzo Pietro, Pirrone Maurizio, Costa Gaetano.

Per quanto concerne Buscetta Tommaso e Marino Mannoia si chiede di accertare se funzionari di Polizia, militari dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o chiunque altro, si siano recati negli Stati Uniti per incontrare i predetti, specificando le relative ragioni e comunque le date di tali incontri.

Ed ancora, se, ed in quali date, questi ultimi siano venuti in Italia, le ragioni della loro presenza nel Paese, eventuali incontri, date di essi, nominativi dei soggetti con i quali hanno intrattenuto rapporti e relative motivazioni.

Vorrà la Corte accertare se tutti i propalatori menzionati ( e comunque gli accusatori del dott. Contrada) fruiscano ancora di programmi di protezione o se sia intervenuta revoca e per quali motivi

Si fa istanza perché la Corte voglia acquisire le dichiarazioni rese da Marino Mannoia negli Stati Uniti nella forma della rogatoria internazionale in data 2.4.1993 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caitanissetta al fine di far risultare che anche nella prefata data, il suddetto, malgrado esplicite domande, nulla ebbe a riferire sul Dott. Contrada, se non che trattavasi di funzionario di Polizia impegnato in attività di istituto e non di sostegno al mafioso>>.

I difensori appellanti, quindi, hanno chiesto, previa acquisizione delle dichiarazioni rese dal dott. Francesco Cirillo alla Commissione Giustizia del Senato il 26 novembre 1997, ammettersi l’esame del predetto sulla circostanza dell’intervenuto accertamento di incontri (oltre 600) tra vari collaboratori di giustizia malgrado il divieto di legge, sulla indicazione dei nomi dei predetti collaboratori, delle date di detti incontri, delle ragioni di essi, delle autorità cui sono stati segnalati, dei provvedimenti eventualmente adottati, delle eventuali indagini esperite e del loro esito.

In parziale accoglimento di dette istanze, con ordinanza resa il 4 dicembre 1998 nel corso del primo dibattimento di appello, sono stati disposti l’acquisizione delle dichiarazioni rese il 2 aprile 1993 da Francesco Marino Mannoia (poi escusso dalla Corte all’udienza del 20 maggio 1999), nonché il nuovo esame del collaboratore di giustizia Rosario Spatola, ritenendosi <<doverosa la verifica delle dichiarazioni>> da questi rese in primo grado, <<al cospetto della dedotta ritrattazione da costui operata, seppure in funzione di notizie fornite da organi di stampa>>.

Sono state, per contro, rigettate <<tutte le altre istanze, sul rilievo della esclusiva pertinenza di esse a circostanze fattuali già considerate nel giudizio di primo grado ovvero in manifesta direzione di sostegno per lo sviluppo dialettico di argomentazioni difensive, piuttosto che alla indicazione di nuove emergenze probatorie>>.

Infine, con ordinanza resa in questo dibattimento di rinvio all’udienza del 15 gennaio 2004 è stato acquisito, per quanto qui rileva << non constando un provvedimento formale a questo fine nell’ambito del primo giudizio di appello, il resoconto delle dichiarazioni del dr. Francesco Cirillo alla Commissione Giustizia del Senato in data 26 novembre 1997>>, e sono state richiamate, per il resto, le precedenti determinazioni assunte nel primo giudizio di Appello.

*****


Tanto premesso, osserva questa Corte che la <<quasi notorietà>>, del fatto che taluni c.d. collaboratori di giustizia fossero <<soliti incontrarsi e convenire dichiarazioni se non programmare falsi pentimenti, false incolpazioni e strategie accusatorie>> - ricollegata dai difensori appellanti all’esito di recenti acquisizioni di non meglio individuati procedimenti penali - non può equivalere a scienza processuale di tali deviazioni.

Queste ultime, comunque, vengono ricondotte a vicende e figure di collaboranti le cui dichiarazioni non sono state assunte o utilizzate in questo processo (Di Matteo Mario Santo, La Barbera Gioacchino, Brusca Enzo Salvatore), ovvero sono state successivamente valorizzate dalla Difesa per tentare di contrastare il costrutto accusatorio (è il caso delle dichiarazioni rese da Giovanni Brusca sull’allontanamento di Salvatore Riina dal rifugio di Borgo Molara).

Per ciò che concerne le situazioni additate come sintomatiche di reciproci, pedissequi, adeguamenti delle propalazioni dei collaboranti escussi in primo grado, o addirittura di manipolazioni, devono intendersi integralmente richiamate le osservazioni svolte nei precedenti capitoli in ordine alla infondatezza di qualsiasi ipotesi di inquinamento probatorio.

Per mere ragioni di comodità espositiva, giova, comunque, ricordare, secondo il medesimo ordine seguito dai difensori:



  1. la sostanziale coerenza tra le dichiarazioni di Tommaso Buscetta del 18 settembre 1984 (epoca in cui non avrebbe potuto lontanamente ipotizzarsi un complotto ai danni dell’imputato) e quelle rese in sede di indagini preliminari ed in dibattimento;

  2. la plausibilità delle giustificazioni addotte da Francesco Marino Mannoia per spiegare come mai egli non avesse rivolto accuse a Contrada in occasione degli interrogatori rispettivamente resi il 2 e 3 aprile 1993 alle Autorità Giudiziarie di Caltanissetta e di Palermo e, per altro verso, l’originalità delle sue dichiarazioni e la loro attendibilità estrinseca (anche per il Mannoia è stata motivatamente esclusa l’ipotesi di inquinamento probatorio, avanzata dai difensori con riferimento a possibili suggeritori occulti, esplicitamente individuati dall’imputato nella alla D.I.A. e nel dott. Gianni De Gennaro);

  3. la non decisività, in punto di attendibilità intrinseca, delle ragioni della non proroga - erroneamente indicata dai difensori appellanti come revoca - del programma di protezione di Rosario Spatola, la mancanza di momenti di contraddizione nelle sue dichiarazioni (ad esempio, nella descrizione dei locali del ristorante "II Delfino"), l’inesistenza di un tentativo del collaborante di coinvolgere Contrada nella c.d. operazione "Hotel Costa Verde " (in ordine alla quale lo stesso Spatola ha, sin dall’inizio, chiarito i limiti delle sue conoscenze);

  4. la scindibilità delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo circa il conteggio della somma asseritamente anticipata per l'acquisto di un'autovettura da destinare ad una donna di Contrada (lire 15.000.000), l’impossibilità di apprezzare come accusa la vaga indicazione di un interessamento del mafioso Angelo Graziano per procurare all’imputato la disponibilità di un appartamento nella via Guido Jung, la prova positiva delle protezioni “garantite” al Riccobono, la intrinseca logicità della narrazione, per di più riscontrata, della vicenda Siragusa;

  5. la circostanza che alcune delle dichiarazioni del Mutolo sono frutto di percezioni dirette e non tutte hanno il loro referente nel Riccobono (per non dire che la soppressione dei referenti di un collaboratore di giustizia che narra fatti di mafia è una evenienza possibile, un “rischio professionale” pesantemente avveratosi nella realtà della seconda guerra di mafia, esplosa a Palermo nel 1981);

  6. la originalità e la credibilità delle dichiarazioni rese in questo processo da Salvatore Cancemi (peraltro non risulta ritualmente prodotta, né, tanto meno, passata in giudicato, la sentenza resa dal Tribunale di Palermo, Sezione I Penale, il 6 giugno 1997, nel procedimento penale n. 650/95 R.G. G. T. a carico di Oliveri + altri );

  7. la genuinità del contributo - pur se di marginale importanza - del collaboratore di giustizia Gaetano Costa (che ha descritto in modo puntuale e specifico la reazione estemporanea del suo compagno di cella Vincenzo Spadaro alla notizia televisiva dell’arresto di Contrada);

  8. la valenza delle dichiarazioni rese da Maurizio Pirrone in ragione della sua riscontrata familiarità con l’entourage di Rosario Riccobono;

  9. la non influenza, nella complessiva economia della valutazione della prova formatasi in primo grado, delle propalazioni di Pietro Scavuzzo (si è rilevato come la mancata individuazione dell’appartamento nel quale sarebbe avvenuta l’analisi dell’anfora - in una alle perplessità mostrate nel riconoscimento dello stabile - privi di sostegno l’ipotesi della manipolazione del collaborante, se non altro per la grossolanità che, altrimenti, avrebbe caratterizzato una manipolazione siffatta);

  10. la coerenza tra le dichiarazioni di Giuseppe Marchese e di Baldassare Di Maggio, riferite a due distinti allontanamenti di Salvatore Riina dalla villa di Borgo Molara, uno agli inizi del 1981 e l’altro nell’imminenza dello scoppio della seconda guerra di mafia, e la piena attendibilità della testimonianza di Carmela Pirrello.

In sostanza, le esemplificazioni che dovrebbero dare corpo all’ipotesi di inquinamento probatorio, che i difensori appellanti vorrebbero correlare alle dichiarazioni rese il 26 novembre 1997 dal dott. Francesco Cirillo avanti alla Commissione Giustizia del Senato ed ai “quasi notori” <<eventi giudiziari maturati recentemente>>, non hanno, a ben guardare, la solidità necessaria a farne uno dei pilastri dell’impianto difensivo.

A questa stregua, avuto riguardo alla coralità delle accuse che hanno trovato ingresso nella sede dibattimentale, non è seriamente sostenibile l’ipotesi di un accordo globale - o di una sommatoria di accordi o di adeguamenti spontanei - tra tutti i collaboratori di giustizia che hanno formulato indicazioni intrinsecamente attendibili nei riguardi di Contrada.

Sono stati prospettati, ad esempio:


  • un accordo tra Giuseppe Marchese e Gaspare Mutolo, in forza del quale il Marchese avrebbe “aggiustato” nell’interrogatorio del 4 novembre 1992, coinvolgendovi Contrada, la versione dell’episodio della fuga di Salvatore Riina da Borgo Molara, precedentemente offerta con l’interrogatorio del 2 ottobre 1992 (si sarebbe, cioè, voluto dare concretezza all’accusa, mossa genericamente dal Mutolo nell’interrogatorio del 23 ottobre 1992, secondo cui, dopo gli iniziali rapporti con Bontate e Riccobono, l’imputato era stato irretito da altri esponenti mafiosi di spicco quali lo stesso Riina e Michele Greco);

  • un accordo di Rosario Spatola con Gaspare Mutolo (interrogato il 23 ottobre 1992), Giuseppe Marchese (interrogato il 4 novembre 1992) e Tommaso Buscetta (interrogato il 25 novembre 1992), o anche un adeguamento spontaneo dello Spatola ai predetti, onde concretizzare la "convergenza molteplice" delle accuse, ampliare l’ambito territoriale delle “soffiate” dell’imputato e dare concretezza, con un narrato de visu, alla tesi del rapporto personale Contrada - Riccobono;

  • un accordo di Francesco Marino Mannoia (sotto programma di protezione negli Stati Uniti d’America) con tutti i pentiti che prima di lui, avevano parlato di Contrada, ed in particolare con Gaspare Mutolo (quanto ai rapporti Contrada - Bontate, resi possibili dall’imprenditore Arturo Cassina e dal funzionario di Polizia Pietro Purpi) e Salvatore Cancemi (quanto all’interessamento per il rilascio della patente di guida a Stefano Bontate), ovvero un adeguamento spontaneo ai predetti.

Premesso, infatti, che è del tutto normale la convergenza delle dichiarazioni accusatorie di più collaboranti che si pentano in tempi diversi e siano portatori del medesimo bagaglio di conoscenze, maturato nel medesimo ambiente criminale, l’unica ipotesi di inquinamento probatorio astrattamente sostenibile è quella - non a caso più volte adombrata o addirittura esplicitata dall’imputato o dai suoi difensori e però non dichiaratamente sposata perché carente di prova - di un complotto ordito da chi ha avuto le leve della gestione dei collaboranti, e cioè, tertium non datur, la D.I.A. - di concerto con i Carabinieri del R.O.S. per il pentito Calvatore Cancemi - ovvero la Procura della Repubblica di Palermo50; un crimine di Stato che, in un processo non esclusivamente basato sul contributo dei pentiti, sarebbe stato perpetrato con il consapevole apporto di testimoni totalmente indifferenti e di elevatissima attendibilità, come i magistrati Carla del Ponte e Giuseppe Ajala, i funzionari di Polizia elvetici Gioia e Mazzacchi, ovvero le vedove Parisi e Cassarà, dei quali si dirà a proposito dei singoli episodi su cui hanno deposto.

In questa cornice non possono trovare cittadinanza, perché marcatamente esplorative e di stampo universalistico, le istanze di rinnovazione della istruzione dibattimentale con cui è stata chiesta, per tutti i collaboranti escussi in primo grado, l’acquisizione di informazioni relative ai periodi di detenzione extracarceraria, ad eventuali colloqui investigativi, ad incontri con altri collaboratori di giustizia, ad eventuali compensi percepiti, al contenuto dei rispettivi programmi di protezione.

I difensori, infatti, anche traendo spunto da eventuali, specifici elementi di contraddizione emersi dall’esame e dal controesame di ciascun collaborante , avevano l’onere di allegare che, in concreto, il pentito “A” si fosse incontrato con il pentito “B” nel periodo in cui l’uno, l’altro o entrambi stavano rendendo le loro dichiarazioni al Pubblico Ministero in ordine al presente procedimento; ovvero che vi fossero stati incontri successivi, all’origine della narrazione dibattimentale di fatti non riferiti nel corso delle indagini preliminari, fatti esposti senza una plausibile spiegazione del ritardo nella loro rievocazione.

Tali evenienze non risultano essersi avverate, ed in alcuni casi non avrebbero materialmente potuto avverarsi, dato lo strettissimo intervallo tra gli inizi di alcune delle collaborazioni più significative (segnatamente, quelle di Mutolo, Marchese e Cancemi) e le prime dichiarazioni accusatorie nei riguardi di Contrada : senza dire che, comunque, anche quando la forbice tra i due momenti è risultata più ampia (è il caso di Rosario Spatola e Francesco Marino Mannoia) il silenzio dei collaboranti ha trovato una congrua giustificazione.

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Lo stesso Spatola, nuovamente escusso nel primo dibattimento di appello all’udienza del 3 dicembre 1998, ha smentito le voci, diffuse da organi di stampa, di una ritrattazione delle dichiarazioni rese in primo grado nei riguardi di Contrada ed ha escluso di avere subito approcci riguardanti il presente processo (: <<Io non sono stato istigato a dire la verità o la falsità, anche perché quello quanto riferito sul dott. Contrada, è verità>>, pag. 76 della trascrizione).



Ha dichiarato di essersi rivolto ai presidenti della Commissione Giustizia della Camera e del Senato (rispettivamente Tiziana Parenti ed Ottaviano Del Turco) per denunziare i frequenti incontri tra collaboranti, anche nei locali del Servizio Centrale di protezione, a Roma (dove era consentito agli stessi di recarsi per telefonare) a fronte del provvedimento, adottato nei propri confronti e da lui ritenuto ingiusto, di non proroga del programma di protezione (pagine 1 – 7 della sentenza di primo grado).

Ha citato specifici, recenti tentativi di inquinamento probatorio, posti in atto <>51: un accordo tra il pentito Pennino ed il pentito Cannella per accusare il magistrato dr. Luigi Croce; la richiesta, avanzatagli da Gaspare Mutolo, di accusare l’avvocato Ugo Colonna, della quale egli aveva prontamente informato il funzionario dr. Manganelli (pagine 8-9); la estrema serietà, per contro, dimostrata da Giuseppe Marchese, da lui incontrato per caso, a Roma, prima del Natale del '94 e presentatogli dal pentito Marco Favaloro (pagine 18-26); l’invito, rivoltogli dal pentito Gioacchino Pennino, ad accusare il senatore Giulio Andreotti (pag. 47).

Ha dichiarato di avere conosciuto il collaboratore di giustizia Gaetano Costa nell’unica occasione in cui lo aveva incontrato, limitata ad una reciproca presentazione (pag. 73); di non conoscere i pentiti Onorato, Ferrante, e Di Carlo, escussi nel primo dibattimento di appello.

Rosario Spatola, comunque, si è essenzialmente riferito ad incontri tra collaboranti liberi; condizione che non riguarda i pentiti escussi in primo grado, a maggior ragione all’epoca degli interrogatori resi nel corso delle indagini preliminari.

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