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Lo svolgimento del processo


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Quest’ultima osservazione prelude - nell’ottica di un complotto tradottosi in una regia delle accuse dei collaboranti - a quella secondo cui (pag. 38, ibidem) <>.

Le superiori deduzioni sono, all’evidenza, infondate.

Va considerato, infatti, che la comparsa del dott. D’Antone nella stanza del dott. De Luca (pag. 916 ad finem della sentenza appellata) coincise con la fase del primo e preliminare contatto tra lo Spatola - sino a quel momento “gestito” della Procura della Repubblica di Marsala - e l’Ufficio dell’Alto Commissario, allorquando la famiglia del collaborante non era stata ancora trasferita dalla Sicilia (pag. 918, ibidem).

In tale frangente, il carattere ambientale della sfiducia nutrita dallo stesso Spatola, il suo timore di bruciarsi accusando degli “intoccabili”, la sua diffidenza nei riguardi del sistema in cui era stato inserito - ben diverso dall’ambiente nel quale la sua collaborazione aveva avuto inizio, percepito come protettivo anche in forza del rapporto di fiducia con il Procuratore Paolo Borsellino - ben spiegano il suo silenzio sull’imputato ("Ma pensai bene che il silenzio in quel caso era d'oro... ma sa su mille persone per bene ne basta una per farti paura... ", pag. 62, ud. 27.4.1994).

E’ del tutto plausibile, cioè, che lo Spatola, consapevole che la sua veste di collaborante avrebbe comportato il suo affidamento all’Ufficio dell’Alto Commissario, avesse ritenuto più prudente tacere a prescindere dalla eventualità di probabili, ulteriori colloqui con il Procuratore Borsellino. Parimenti plausibile, a questa stregua, è il fatto che egli non si sentisse in grado di distinguere tra funzionari affidabili ed inaffidabili, e quindi non avesse cercato, ad esempio, come suoi referenti l'Alto Commissario Sica o i magistrati Di Maggio e Misiani.

Né può convenirsi sull’osservazione secondo cui, quand’anche <>, lo Spatola avrebbe ben potuto <>>.

Egli, infatti, aveva rivolto, nei riguardi dei due funzionari, accuse di collusione di tenore analogo ed attinte dai medesimi referenti (i fratelli Caro), e quindi non è pensabile che si esponesse nei confronti dell’uno tacendo sull’altro.

Ed ancora, il metus ambientale, il timore dei riguardi del sistema, l’intervenuta diffidenza nei confronti delle Istituzioni valgono a fugare le perplessità difensive su quali <>> avrebbe potuto paventare lo Spatola laddove << nel 1989 o 1990 o 1991 o 1992 (sino al 16 dicembre) avesse enunciato accuse a carico di Contrada e D'Antone>>.

Che, poi, lo Spatola non avesse detto nulla dell’odierno imputato nei primi due mesi della sua collaborazione, e cioè durante la sua permanenza a Marsala, trova una evidente spiegazione nel fatto che le notizie di immediato interesse per la Procura marsalese, tali da costituire lo spunto per eventuali domande, riguardavano fatti di reato di competenza di quel circondario.

I difensori hanno ulteriormente dedotto che per lo Spatola sarebbe stato più rischioso tacere che parlare ove fosse stato davvero <>> di Contrada e D'Antone, sul rilievo che <<se questi veramente fossero stati collusi, avrebbero agito in linea preventiva non soltanto contro Spatola ma contro tutti i mafiosi pentiti che non li avevano ancora accusati, ma che avrebbero potuto farlo e contro tutti i mafiosi predisposti al pentimento....>>.

A tale provocazione dialettica è agevole opporre che il silenzio avrebbe garantito tranquillità e credibilità allo stesso Spatola senza esporre ad ulteriori rischi i predetti funzionari (nei cui riguardi, peraltro, nessuno ha mai ipotizzato il proposito di fare sopprimere fisicamente i loro potenziali accusatori, ammesso e non concesso che tutti costoro fossero a priori individuabili).

Chiarite, dunque, le ragioni della “chiusura” di Rosario Spatola, va rilevato come il collaborante abbia dato adeguata contezza del motivo per cui, soltanto in occasione dell’interrogatorio del 16 dicembre 1992, il timore di non essere creduto avesse ceduto il passo al proposito di esternare i suoi primi ricordi su fatti riguardanti l’imputato.

Premesso, infatti, che - come chiarito dallo Spatola - cioè il primo successivo alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, tenuto del settembre 1992, aveva riguardato tutt’altro argomento, e cioè quanto, a sua conoscenza, di interesse per l’omicidio Lima, appare accettabile la giustificazione di avere voluto onorare la memoria dei giudici Falcone e Borsellino, vittime delle stragi del 23 maggio e del 19 luglio 1992.

Essa, infatti, al di là della sua valenza morale, della quale la Difesa dubita in relazione alla personalità dello Spatola, trae consistenza anche da uno specifico episodio da lui riferito, e cioè l’arresto del latitante Pier Maurizio Cecchini, che giova lumeggiare - al fine di comprenderne i nessi e l’attualità rispetto alle indicazioni riguardanti Contrada - più di quanto non abbia fatto il Tribunale.

Secondo la ricostruzione contenuta nella sentenza appellata (pag. 904-905, 915- 916, 929), lo Spatola aveva segnalato ad una “volante” della Polizia la presenza, nei pressi della sua abitazione, a Roma, del latitante Pier Maurizio Cecchini, colpito da ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. di Marsala a seguito delle sue accuse.

Tale evento, tempestivamente comunicato per le vie brevi al Procuratore Borsellino - che si era precipitato a Roma per interrogare il Cecchini, sperando che potesse svelare il motivo per cui si trovava in quel luogo, a così breve distanza dall'abitazione del collaborante - aveva determinato il cambiamento della sistemazione logistica dello stesso Spatola.

Quest’ultimo, dunque, nel corso dell’interrogatorio del 16/12/1992 aveva ritenuto di riferire quanto a sua conoscenza sull’odierno imputato prendendo spunto dall’episodio di quel temuto attentato alla sua vita, memore del particolare vincolo di riconoscenza nutrito nei confronti del dott. Borsellino.

Ora, l’esame del 10 ottobre 1994 offre, ad avviso di questa Corte, uno spunto ulteriore.

Lo Spatola, a proposito del modo in cui poteva essere stata localizzata la sua abitazione, adombra il sospetto che qualcuno, all’interno degli Uffici dell’Alto Commissario, avesse voluto esporlo ad una azione ritorsiva o intimidativa del Cecchini.

Egli, infatti, riferisce (pagine 62 e 63 della trascrizione) che <<dopo questo fatto praticamente qualcuno, anche una funzionaria disse "sa le possono avere intercettato una telefonata tra lei e la Filippello32, qualcuno... dice non bisogna fidarsi"... al che io li lasciavo parlare e lasciavo credere che,sì poteva essere stata questa telefonata della Filippello... perché qualcuno... perché si era arrivati a me in questo modo, cioè lasciavo credere quello che loro così insinuavano, parlavano... non dicevo di avere, come dire, sospetti verso l'Alto Commissariato, verso nessuno, e tutt'oggi non posso dire, fare alcuna accusa verso queste persone. Lasciavo credere che fosse potuto succedere in questo modo, tramite la Filippello, poi quando fui interrogato dissi che... ed è verbalizzato, io non sospetto, non avevo mai sospettato e non sospetto tutt'oggi della Filippello, però lo lasciavo credere, mi faceva comodo così>>.

Il collaborante ha soggiunto che, la sera stessa dell’arresto del Cecchini, era pervenuta a casa della sorella una telefonata di una persona che, esprimendosi con un accento palermitano così marcato da apparire artificioso, aveva detto <<stu cornuto di sbirro per questa volta l'ha fatta franca>>. In tale circostanza, egli aveva pensato all’avv. Antonio Messina, aduso ad ostentare quell’accento, sospettando che fosse stato al corrente della presenza del Cecchini

A questa stregua, il senso di gratitudine verso il dott. Borsellino, alla base dell’impulso dello Spatola di aprirsi, appare derivato dall’idea dell’antitesi tra un uomo delle istituzioni che lo aveva protetto (già a Marsala, da due attentati) e qualcuno che, all’interno delle istituzioni stesse, lo aveva tradito, rivelando il suo domicilio ad esponenti mafiosi.

Infine, l’ipotesi, prospettata dai difensori appellanti, secondo cui lo Spatola si sarebbe determinato a parlare di Contrada e di D'Antone <> ripropone la teoria del complotto.

Gli stessi difensori assumono, infatti, che occorreva - come tassello della costruzione dell’accusa - una collaborazione che:


  • ampliasse l’ambito territoriale delle “soffiate dell’imputato” (nella specie riguardanti, secondo il narrato di Spatola, operazioni di Polizia nel Trapanese);

  • desse consistenza, al contempo, con un narrato de visu, alla tesi del rapporto diretto Contrada - Riccobono, sino a quel momento oggetto di propalazioni de relato (come avvenuto, nel caso di specie, con l’episodio del pranzo al ristorante “Il Delfino”).

Al riguardo, è’ appena il caso di ribadire che la convergenza di più collaborazioni non denota una loro preordinazione o regia (che necessariamente dovrebbe essere estesa all’intero compendio dei contributi), ma può, al contrario - salva la doverosa verifica della originalità ed autonomia di ciascuna collaborazione, che il primo giudice ha compiuto in modo esaustivo anche con riguardo a Rosario Spatola - formare o rafforzare il quadro accusatorio.

L’affidabilità, e quindi la credibilità intrinseca di Rosario Spatola, sono state messe in discussione dalla Difesa anche a seguito del diniego di proroga del programma di protezione del collaborante, diniego sopravvenuto al giudizio di primo grado.

Il provvedimento, recante la data del 27 giugno 1997 e prodotto all’udienza dell’undici marzo 1999 nell’ambito del primo dibattimento di appello, non incide, ad avviso di questa Corte, sul positivo giudizio di attendibilità intrinseca formulato dal Tribunale.

Lo Spatola, infatti, all’udienza del 3 dicembre 1998 ha integralmente confermato le dichiarazioni rese in primo grado nei riguardi di Contrada pur non essendo, ormai, sottoposto a programma di protezione, e cioè pur non godendo più benefici ad esso correlati ed essendo esposto ai rischi connessi alla sua mancata proroga.

Altro indicatore di genuinità è il fatto, rilevabile dallo stesso tenore del provvedimento, che le violazioni all’origine del diniego di proroga sono successive alle deposizioni dibattimentali del 1994 (si fa riferimento alle note del servizio centrale di protezione in data 12 aprile 1996, 25 maggio 1996, 17 settembre 1996, 20 novembre 1996, 3 gennaio 1997, 24 gennaio 1997, 17 febbraio 1997, 19 marzo 1997 e 22 marzo 1997).

Esse, inoltre, involgono essenzialmente l’incapacità dello Spatola di tutelare se stesso, non, dunque, la constatazione di possibili subornazioni o accordi fraudolenti (recita il provvedimento <<sono stati denunciati in particolare, la sistematica violazione degli obblighi di riservatezza; l’intrattenimento di rapporti con altri collaboratori di giustizia;l’intestazione di una propria autovettura alla moglie di un altro collaboratore di giustizia; la mancata produzione della documentazione relativa ad acquisti, per i quali aveva ottenuto a sua richiesta un contributo economico “una tantum”; il rilascio di interviste non autorizzate; il disvelamento della località protetta e del relativo recapito telefonico; la ripetuta formulazione di istanze spropositate e non accoglibili; la rinuncia alla scorta per recarsi a rendere dichiarazioni dinanzi all’Autorità Giudiziaria; il rifiuto di accettare il cambiamento del domicilio protetto presso il quale aveva denunciato di avere ricevuto minacce; ed i numerosi problemi generati al Servizio Centrale di protezione, nei confronti del quale non esercitava la dovuta collaborazione affinchè potessero essere adottate adeguate misure di tutela>>).

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La verifica della attendibilità intrinseca di Rosario Spatola intercetta anche gli argomenti - e le relative censure - della presunta affiliazione massonica dell’imputato e del suo interessamento per fare ottenere i porti d’arma ai fratelli Rosario e Federico Caro.

Del primo argomento (massoneria) si parla diffusamente alle pagine da 19 a 126 del volume V capitolo V dell’Atto di impugnazione, oltre che nell’intero tomo secondo del volume primo dei motivi nuovi.

Il secondo argomento (interessamento nel rilascio dei porti d’arma ai fratelli Caro) è stato sviluppato nelle pagine 117-126 del volume V capitolo V dell’Atto di impugnazione, nonché nelle pagine 191-227 del tomo primo del volume primo dei Motivi nuovi.

Quanto alla presunta qualità di “fratello” attribuita a Contrada, della quale lo Spatola ha riferito di avere appreso dai fratelli Caro, deve essere condivisa l’osservazione del Tribunale secondo cui, pur non avendo le risultanze dibattimentali consentito di acquisire la prova dell’appartenenza dell’imputato alla Massoneria, intesa come regolare iscrizione a logge ufficiali, emergente da risultanze documentali o testimoniali, la credibilità del collaborante non ne risulta infirmata, come non è stata smentita l’attendibilità delle sue fonti.

Ragioni di brevità espositiva impongono, innanzitutto, di rinviare a tutte le considerazioni svolte dal Tribunale al fine di evidenziare come soggetti indicati come massoni da Rosario Spatola, e cioè i Caro, l’armiere Dieli ed il politico Benito Vella (pagine 950-959) abbiano maldestramente minimizzato (i primi) o mendacemente negato (il secondo) o, altrettanto mendacemente, riferito di non ricordare (il terzo) i loro rapporti con il collaborante. Allo stesso modo, va fatto rinvio alle considerazioni poste da quel giudice a sostegno della conclusione che l’avv. Antonio Messina non aveva detto il vero, smentendo le dichiarazioni dello stesso Spatola circa le affermazioni attribuitegli dal collaborante (pagine 965-970).

Dovendosi, dunque, condividere le valutazioni circa la genuinità delle dichiarazioni de relato di Rosario Spatola - e quindi, per quanto qui interessa, circa la veridicità della circostanza che i Caro avessero definito l’odierno imputato“un fratello”- non è affatto irragionevole ritenere che gli stessi Caro, da massoni, nutrissero la plausibile convinzione che si potesse comunque contare su Contrada.

Militano in questa direzione ulteriori emergenze, acquisite nel primo dibattimento di appello.

Segnatamente, come ricordato dal Procuratore Generale nella memoria depositata nel corso di questo giudizio il 14 novembre 2005, con la sentenza resa nei confronti di Michele Sindona + 25 in data 18 marzo 1986, parzialmente riformata dalla Corte di Assise di Appello di Milano con sentenza del 5 marzo 1987, divenuta irrevocabile, prodotta nel primo dibattimento di appello all’udienza del 22 marzo 2000, la Corte di Assise di Milano accertò che il simulato sequestro dello stesso Sindona era stato propiziato e gestito da Cosa Nostra siciliana in collegamento con la mafia siculo-americana, nonché dalla Massoneria33.

Tale conclusione è stata ulteriormente avvalorata dalla già menzionata sentenza di condanna resa dal Tribunale di Palermo il 9 luglio 1997 nei confronti di Mandalari Giuseppe, divenuta irrevocabile, sentenza prodotta nel primo dibattimento di appello all’udienza del 24 marzo 2000 (pagine 401-405).

In essa, inoltre, per quanto qui rileva, nell’ambito del capitolo dedicato al tema “I rapporti tra mafia e massoneria” (pagine 348-405) è stato accertato come <<effettivamente sussistente un generale interesse dell'associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra” all'infiltrazione in organismi associativi comprendenti personaggi delle istituzioni ….>>, funzionalmente diretta <<a consentire la costituzione di rapporti interpersonali degli esponenti dell'associazione mafiosa ed i rappresentanti più illustri della società civile al fine di garantire raggiungimento degli scopi della medesima organizzazione criminosa…>>(pagine 348 e 349).

La sentenza Mandalari riporta le dichiarazioni dello stesso Rosario Spatola su un vertice tenuto nell'estate del 1979 nella casa di Federico Caro, appena ultimata, in contrada Tre Fontane di Campobello di Mazara, cui, tra gli altri, secondo quanto narrato dal collaborante, avevano partecipato Giuseppe Miceli Crimi (medico affiliato alla P2, sempre vicino a Michele Sindona nelle vari fasi del finto sequestro, oltre che autore del suo ferimento ad una gamba, preordinato a renderlo più verosimile), lo stesso Michele Sindona, Stefano Bontade, Ciccio Carollo (cognato di Antonino Pedone, gestore del ristorante “ Il Delfino” di Sferracavallo) ed altri massoni.

Il ricordo di tale evento è stato legato dallo Spatola alla circostanza che il Miceli Crimi aveva donato agli altri fratelli una penna d'oro con su scritto il suo nome ed il grado, penna notata dal collaborante in possesso di Rosario Caro (pag. 375-376).

Orbene, per quanto non ne siano state accertate compiutamente le finalità, la verificazione di detto incontro (già menzionato nella sentenza resa dal Tribunale di Marsala nel procedimento contro Alfano ed altri, cfr. pag. 979 e seguenti della sentenza appellata) rafforza la prova dell’intreccio di rapporti tra mafia e massoneria deviata nella gestione del falso sequestro Sindona ed offre uno spaccato dello spessore di massone (di elevato grado, il 33) del livello delle conoscenze e quindi della attendibilità di Federico Caro, referente di Rosario Spatola.

Nella stessa sentenza Mandalari, del resto, si osserva (pagine 378 e 379) : << Appare, invece, assai rilevante sottolineare la partecipazione alla vita massonica da parte dei fratelli Caro di Campobello, anch'essi uomini d'onore della medesima famiglia mafiosa, che costituivano la fonte principale di assunzione di informazioni da parte dello Spatola anche sull'esistenza dei rapporti tra uomini delle istituzioni ed esponenti mafiosi.

Orbene, escussi all'udienza dibattimentale del 16 aprile 1997 i fratelli Caro Rosario e Caro Federico hanno confermato di avere ritualmente partecipato alla vita massonica quali affiliati alla loggia Triquetra, di Palermo che era solita riunirsi proprio in P.zza Verdi e di avere conosciuto il Mandalari intorno agli anni '70.

Il Federico, poi, ha ammesso anche di avere conosciuto l’avv. Totò Messina di Campobello quale fratello massone ed ha ricordato di essere stato giudicato per il favoreggiamento di Michele Sindona.

Tali dichiarazioni, pertanto, costituiscono un pregnante riscontro alla veridicità delle accuse dello Spatola, che possono, quindi, ritenersi confermate quantomeno con riferimento alla veridicità della fonte essendo stato appurato che sia i Caro che il Messina, indicati dal collaboratore quali abituali suoi informatori, erano soggetti coinvolti nella vita massonica ed al contempo inseriti negli ambienti criminali di Campobello se è vero che il Messina è già stato giudicato definitivamente e condannato in relazione alla sua partecipazione all'associazione mafiosa>>.

Il Tribunale ha definito <> , il comportamento processuale dell’imputato <<…in ordine ai rapporti con molti soggetti risultati iscritti a logge massoniche di cui facevano parte noti mafiosi (v. iscrizione dott. Camillo Albeggiani alla “Camea” di cui facevano parte Vitale, Foderà e Siino) e con altri risultati iscritti alla P2 e coinvolti nel falso sequestro Sindona>> (pagine 992 e 993 della sentenza appellata).

Ritiene questa Corte che non possa negarsi, in linea generale, piena dignità logica alla proposizione difensiva secondo cui i contatti o i rapporti con massoni, o addirittura con iscritti alla loggia P2, non sono, in quanto tali, contatti o rapporti massonici, essendo giustificabili da ragioni di ufficio, di mera conoscenza o amicizia personale.

Deve, tuttavia, convenirsi sulle perplessità manifestate dal Tribunale almeno su uno di tali rapporti, e cioè quello con l’avv. Salvatore Bellassai, capo gruppo della P2 per la Sicilia, perplessità non dissipate dal dato oggettivo del tempo trascorso tra le annotazioni sulle agende dell’imputato ed il momento in cui egli è stato chiamato a difendersi in questo processo, e quindi dalla difficoltà mnemonica di giustificarle.

Sebbene le argomentazioni del primo giudice (pagine 986-992 della sentenza appellata) esauriscano in massima parte le censure svolte alle pagine 105-107 del volume 5 dei motivi di appello, deve rilevarsi che l’affermazione difensiva secondo cui prima del 2 febbraio 1978 (…) non esiste alcuna traccia di rapporti tra l'avv. Bellassai ed il dott. Contrada; ciò perché i due, prima del 1978 non si conoscevano>> non si concilia con le dichiarazioni dello stesso imputato.

Questi, infatti, all’udienza del 29 settembre 1995 ha dichiarato di avere conosciuto l'avvocato Bellassai nell'anticamera del Questore Epifanio 34<< presso il quale l'avvocato stesso si era recato per portare dei biglietti di invito alla Festa del Mandorlo in fiore ad Agrigento, perchè era commissario straordinario dell'Ente Turismo di Agrigento>>.

Ha soggiunto che, successivamente, il Questore lo aveva convocato nel suo ufficio - dove aveva trovato lo stesso Bellassai - e lo aveva incaricato di occuparsi della vicenda relativa ad un presunto attentato ai suoi danni, perpetrato con un colpo di arma da fuoco alla sua Mercedes nei pressi di Lercara Friddi, mentre si stava recando a Ragusa.

Egli, tuttavia, visionando l’autovettura oggetto dell’asserito attentato, si era reso conto che non si era trattato di un colpo di fucile, bensì di una pietra che aveva lievemente incrinato il parabrezza. A causa di tale episodio aveva avuto un paio di contatti telefonici con il Bellassai e non aveva mai saputo che era iscritto alla P2. Aveva affermato, inoltre,di non avere mai avuto con lui rapporti di natura personale se non quelli accennati per ragioni d’ufficio.

Orbene, come evidenziato dal Procuratore Generale nella memoria depositata il 14 novembre 2005, dalla nota del 4\11\98 del Centro Operativo D.I.A. di Palermo, cui è allegata nota del 23\10\98 del Centro di Agrigento – entrambe prodotte nel primo dibattimento d’appello – è risultato che l’avv. Bellassai “ha ricoperto la carica di Commissario Straordinario dell’Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo di Agrigento, con D.A. nr. 160 del 06.12.1968, nonchè la carica di Presidente della predetta Azienda, con D.A. nr.254 del 02.10.1969, verosimilmente fino al gennaio 1975”; epoca, peraltro, antecedente al periodo ( dal 6 dicembre 1976 al 15 dicembre 1979) in cui il dott. Epifanio diresse la Questura di Palermo.

A sua volta, l’avv. Bellassai, escusso all’udienza del 3/10/1995, assumendo di avere conosciuto Contrada in occasione del presunto attentato da lui patito il 22 gennaio 1978 quando ricopriva l’incarico di Commissario di governo degli Ospedali Riuniti di Ragusa, ha precisato di avere rinunciato dopo dieci giorni alla scorta della Criminalpol di Palermo e di essersi dimesso dopo alcuni mesi dal predetto incarico; non giustificandosi, quindi, la causale delle esigenze di sicurezza e del patito attentato che, nei motivi di appello viene attribuita ad annotazioni dell’imputato anche molti mesi successive (ad esempio, quella del 27 maggio 1978).

Per altro verso, lo stesso Bellassai ha categoricamente escluso di avere mai incontrato Contrada ad eccezione dell’unica occasione in cui questi aveva ispezionato il parabrezza della sua autovettura, e di essersi mai recato presso il suo ufficio,: (P.M.: Ma di incontri, invece, personali?

BELLASSAI S.:Esclusi, esclusi nel modo più assoluto.

P.M.:E esclude di essersi mai recato presso l'ufficio del dottore Contrada?

BELLASSAI S.:No.

P.M.:In epoca successiva rispetto all'attentato.

BELLASSAI S.:No, successiva mai.

E però, risulta per tabulas l’annotazione in data 3/9/1979: <<avv. Bellassai - Genna Giovanni - qui ore 10>>, peraltro in concomitanza con il periodo del simulato sequestro di Michele Sindona.

Va ricordato, a questo riguardo, che il predetto Bellassai, , capo gruppo della P2 per la Sicilia, fu colui che presentò a Giuseppe Miceli Crimi (medico e feritore di Sindona durante il finto sequestro) il massone Gaetano Piazza, il quale ospitò lo stesso Sindona a Caltanissetta la notte tra il 15 ed il 16 agosto 1979 e poi lo accompagnò a Palermo35.

Emerge, cioè, uno spettro di elementi che, avuto riguardo all’alto ruolo ricoperto, quale massone, dal Bellassai, avrebbero richiesto quantomeno una indicazione delle possibili causali di quell’incontro, se non una precisa giustificazione del suo contesto e delle sue ragioni.

Del resto, la criticità del periodo in cui ricade questa annotazione non può essere disgiunta dal significato indiziante di alcuni comportamenti dell’imputato, di cui si è occupato analiticamente il Tribunale e dei quali si dirà appresso, e cioè:


  • la subitanea stesura del rapporto del 7 agosto 1979, spontaneamente redatto e da nessuno richiesto, con cui l’imputato stroncò le notizie apparse sulla stampa quello stesso giorno circa un incontro tra il dirigente della Squadra Mobile Boris Giuliano e l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, che avrebbe potuto far collegare i due omicidi tra di loro36 (il Sindona venne dichiarato colpevole quale mandante dell’omicidio Ambrosoli dalla Corte di Assise di Milano con la citata sentenza del 18 marzo 1986);

  • la successiva condotta consistita nel dare alla stampa la notizia della convocazione - di fatto, così vanificata - dell’avv. Melzi e del maresciallo Gotelli, convocazione voluta da parte del magistrato inquirente dott. Vincenzo Geraci a dispetto del predetto rapporto del 7 agosto 1979 per chiarire la fondatezza delle voci relative all’incontro Giuliano-Ambrosoli;

  • la condotta tenuta dall’imputato in occasione dell’allontanamento del mafioso John Gambino, soggetto in costante contatto con il banchiere Michele Sindona durante il suo simulato sequestro.

Infine, non apporta alcun elemento a favore dell’imputato il richiamo, operato dai difensori appellanti, alle risposte date dall’avv. Bellassai alla domanda circa l’affiliazione di Contrada a logge massoniche (pag. 106 vol. 5 dei motivi di appello e pag. 47 vol I tomo II dei motivi nuovi):

<<P.M.:Lei è a conoscenza se il dottore Contrada ha fatto parte della massoneria, è stato massone?

BELLASSAI S.:Assolutamente.”

No, no, io so che il dottor Contrada non è stato massone, non è massone.”

P.M.:E come lo sa?

BELLASSAI S.:Perchè non mi risulta che fosse nelle logge ufficiali di Piazza del Gesù e di Palazzo Giustiniani>>.

L’avv. Bellassai, infatti, al pari dei tanti testi menzionati nei motivi di appello, ha escluso con certezza l’affiliazione dell’imputato a logge ufficiali. Egli, però, dopo avere risposto alla domanda riguardante l’ipotetica appartenenza di Contrada a tronconi irregolari della massoneria, ha, più prudentemente, risposto al condizionale - risposta riportata a pag. 107 del vol. 5 dell’Atto di impugnazione - <<Io, per quello che ne so io e ho 50 anni di massoneria, lo escluderei>>, dimostrando, quantomeno, di non potersi esprimere con certezza sul sommerso massonico.

In definitiva, la credibilità dello Spatola rispetto all’argomento “Massoneria” è rimasta, come ritenuto dal Tribunale, immune da censure.

*****


Considerazioni non dissimili possono farsi in ordine al tema dell’interessamento di Contrada per i porti d’arma ai fratelli Caro, del quale lo Spatola ha riferito di avere avuto notizia da Rosario Caro nella circostanza dell’incontro, nella primavera del 1980, presso il ristorante “il Delfino” :

<<P.M.: Senta, lei ricorda se fece altri riferimenti, il Rosario Caro in relazione a favori che il dott. Contrada aveva già fatto o avrebbe dovuto fargli?

SPATOLA R. A lui personalmente era in attesa di potere avere il porto d’armi. Nei riguardi del fratello Federico, lo aveva già ottenuto sempre tramite il dott. Contrada.

P.M.: Cosa?

SPATOLA R. Il porto d’armi di pistola. Parlo di porto d’armi, cioè, portarla liberamente addosso, non detenzione in casa>>.

Il Tribunale (pagine 959 – 965 della sentenza appellata), ha desunto <<numerosi elementi esterni di conferma alle dichiarazioni rese da Rosario Spatola>> dal compendio documentale in atti disponibile, costituito dai fascicoli cat. 2° (pregiudicati) - 6E (collezioni armi comuni) e 6D (detenzioni armi) relativi a Federico Caro, e dai fascicoli cat. 2°(pregiudicati) e 6D (detenzioni armi) relativi a Rosario Caro.

Ha rilevato, invece, che dei fascicoli cat. 6 G (porto di pistola, intestato a Federico Caro) e cat. 6 F (porto di fucile, intestati a Federico Caro e Rosario Caro), mandati al macero come da regolamento d’archivio e da esplicita autorizzazione ministeriale, era rimasta soltanto una traccia nelle schede d’archivio generale della Questura istituite dopo il 1971.

Quel giudice,quindi, ha, dunque rimarcato la circostanza che, per l’anno 1979-1980, nella scheda del Commissariato competente manca l’annotazione del rinnovo del porto di pistola a Federico Caro. L’ha considerata come un primo elemento di riscontro perché sintomatica di un rinnovo effettuato direttamente in Questura, in un periodo nel quale l’imputato ricopriva il doppio incarico di capo della Squadra Mobile (in via interinale) e della Criminalpol (pagine 961 e 964 della sentenza), e quindi di un interessamento del quale Rosario Caro poteva parlare, riferendosi al fratello, come di un accadimento recente.

Il secondo elemento valorizzato nella sentenza appellata è la circostanza che Rosario Caro ottenne la licenza per il porto di fucile il 28 giugno 1980 (ibidem, pag. 965). Dunque, al contrario del fratello Federico, all’epoca del riferito incontro al ristorante “Il Delfino”, egli non era ancora titolare di alcuna licenza di porto d’armi e ben poteva affermare di attenderne il rilascio.

Ed ancora - ha rilevato il Tribunale - la licenza per collezioni d’armi a firma del Questore Epifanio venne rilasciata a Federico Caro in data 3 aprile 1978, e cioè in un periodo in cui Contrada era dirigente della Criminalpol, mentre la licenza di porto di pistola venne rinnovata negli anni successivi al 1976, quando egli rivestiva il medesimo incarico.



Alle pagine 117-126 del volume V capitolo V dell’Atto di impugnazione si deduce che:

  • mancherebbe qualsiasi riscontro del presunto interessamento di Contrada;

  • emergerebbe, per contro, << in modo chiaro il massimo rigore adottato dalla Questura e dal Commissariato di P.S. nelle procedure di diniego, di rinnovo e di revoca, non appena i titolari delle licenze sono incorsi in pregiudizi penali: Caro Federico, per una denunzia per ricettazione (15/6/1982) e Caro Rosario, per una denunzia per sfruttamento della prostituzione (19/12/1980) si sono viste revocate le licenze precedentemente loro concesse regolarmente>>;

  • negli anni in cui <>, e pertanto <>;

  • i Caro, anche a volere ammettere l’ipotesi di un interessamento nei loro riguardi - peraltro non necessario - non avrebbero avuto ragione di rivolgersi all’imputato, potendo contare sul dott. Francesco Pellegrino, già dirigente del Commissariato “Porta Nuova”, massone per sua stessa ammissione ancorchè iscritto ad altra loggia ed in rapporti di frequentazione prima con Federico, poi con Rosario Caro.

Alle pagine 191-227 del volume primo, tomo primo dei Motivi nuovi di appello si deduce ulteriormente che:

  • nel corso dell'interrogatorio del 16 dicembre 1992, così come nel corso di quello del 25 marzo 1993, lo Spatola non aveva parlato delle licenze di porto d'armi dei fratelli Caro;

  • soltanto, infatti, in occasione dell’interrogatorio del 23 dicembre 1993 aveva riferito di una promessa di “porto d’armi” che Rosario Caro gli avrebbe detto essere stata in suo favore dall’imputato, e soltanto in sede di esame aveva aggiunto di avere appreso dallo stesso Rosario Caro che Contrada aveva già fatto ottenere il porto d'armi di pistola al fratello Federico;

  • tale tempistica sarebbe, ancora una volta, frutto della preordinazione di una artificiosa “convergenza del molteplice” (cioè di una manipolazione sintomatica di un complotto) con le rivelazioni di altri pentiti già interrogati, e segnatamente di Salvatore Cancemi, che nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero il 10 novembre 1993 aveva attribuito all’imputato un intervento nella concessione, al mafioso Stefano Bontate, della patente e del porto d'armi;

  • Rosario Caro non aveva mai avuto il porto di pistola né lo aveva mai chiesto, laddove Rosario Spatola, mentendo, aveva dichiarato che l’imputato si era interessato per fargli ottenere quella specifica licenza;

  • risultava per tabulas che Federico Caro aveva avuto il porto di fucile uso caccia già nel 1966 e ne era certamente titolare nel 1974 ed ancora nel 1981, e però, secondo il costrutto recepito dal Tribunale, sino a tutto il 1975 l’imputato non era ancora un poliziotto colluso con la mafia;

  • nessuna anomalia vi era stata nel rilascio allo stesso Federico Caro, in data 3 aprile 1978, della licenza per collezione di armi da fuoco corte, da lui richiesta perché, avendo il possesso di tre armi di tal fatta (pistole e revolver) regolarmente denunziate al competente Commissariato di P.S., in base alla legge 18.4.1975 n° 110, egli doveva o privarsi di una di esse o chiedere la licenza per tenerla nella sua abitazione come pezzo da collezione, cosa che aveva fatto per la rivoltella Smith e Wesson cal. 38 matr. 592117.

In ordine alla dedotta mancanza di riscontri alle dichiarazioni di Rosario Spatola sui porti d’arma, questa Corte non può esimersi dal ribadire che la nozione di riscontro non si identifica con quella di prova autonoma del fatto oggetto della dichiarazione resa dall’imputato o dall’indagato in reato connesso (cfr. pagine 250 e 251 della sentenza di annullamento con rinvio).

Orbene, tra gli elementi evidenziati dal Tribunale appaiono di sicura pregnanza l’assenza, per l’anno 1979-1980, dell’annotazione del rinnovo del porto di pistola a Federico Caro nella scheda del Commissariato “Porta Nuova”, sintomatico di un rinnovo in Questura, la posizione dell’odierno imputato in seno alla Questura stessa e l’epoca dell’ottenimento del porto di fucile da parte di Rosario caro; elementi tali da rendere plausibile un interessamento dell’imputato a prescindere dalla titolarità di compiti di polizia amministrativa, restando confermata l’attendibilità intrinseca e la credibilità soggettiva dello Spatola.

Né la loro valenza può essere elisa dal comprovato rigore con il quale i porti d’arma vennero revocati o non rinnovati - a Federico Caro a seguito di per una denunzia per ricettazione (15/6/1982) ed a Rosario Caro a seguito di una denunzia per sfruttamento della prostituzione (19/12/1980) - trattandosi di vicende successive ed indipendenti dall’interessamento attribuito a Contrada.

La circostanza,poi, che i fratelli Caro non avessero precedenti penali o di polizia ostativi al rilascio o al rinnovo dei porti d’arma non è logicamente incompatibile - in un contesto nel quale la cultura del favore soverchia quella del diritto o dell’interesse legittimo - con l’ipotesi di un interessamento comunque chiesto ed ottenuto, né ha importanza, in questo giudizio, che ai funzionari che comunque avevano <> possano <>.

Quanto ai rapporti di frequentazione dei fratelli Caro con il funzionario di Polizia Francesco Pellegrino, già dirigente del Commissariato “Porta Nuova”, mette conto ricordare che quest’ultimo, escusso all’udienza del 3 ottobre 1995, ha dichiarato di essersi iscritto alla Massoneria in epoca contestuale a quella in cui aveva conosciuto Federico Caro, e, subito dopo, di avere conosciuto il di lui fratello Rosario.

La sua iscrizione, cui anche Rosario Caro ha collegato la genesi del rapporto con lui, risale all’Aprile del 1980, pertanto è logico che nella primavera dello stesso anno - epoca del pranzo al ristorante al ristorante “Il Delfino” - lo stesso Rosario Caro, parlando al passato prossimo con il pentito Spatola, avesse fatto riferimento non già a Pellegrino, che non conosceva o aveva conosciuto appena, bensì a Contrada.

Coerente con l’epoca della conoscenza del funzionario con i Caro, inoltre, è il fatto che il rinnovo del porto di pistola di Federico Caro per il periodo 1979-1980 venne fatto direttamente in Questura, quando Pellegrino dirigeva ancora il Commissariato Porta Nuova (che resse sino al 1980).

Lo stesso Pellegrino, in effetti, ha riferito che i suoi primi contatti con Federico Caro erano stati dovuti ad una pratica di rinnovo del porto di pistola, ma, avuto riguardo alla tempistica sin qui ricostruita, può plausibilmente ritenersi che egli si fosse interessato del rinnovo per il periodo 1980-1981, del quale vi è traccia agli atti di quel Commissariato.

Infine, non è fondato il rilievo secondo cui, stando al narrato di Rosario Spatola, Rosario Caro sarebbe stato beneficiario dell’interessamento di Contrada per il porto di pistola, licenza da lui mai chiesta.

Il collaborante, infatti - lo ricordano i difensori appellanti - nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero il 23 dicembre 1993 (pagg. 192-193 del volume primo, tomo primo dei Motivi nuovi di appello) aveva menzionato una promessa di “porto d’armi” in favore di Rosario Caro, dicendo: "...E poi mi disse (Caro Rosario) che Contrada era un suo fratello, intendendo dire che erano entrambi massoni e che gli avrebbe fatto avere il porto d'armi".

Del resto, quanto successivamente dichiarato in sede di esame dibattimentale non autorizza a ritenere che lo Spatola si fosse riferito, a proposito di Rosario Caro, ad un porto di pistola; anzi, il collaborante ha usato l’espressione “porto d’armi” in contrapposizione a quella “porto d‘armi di pistola” espressamente riferita a Federico Caro:

<< P.M.: Senta, lei ricorda se fece altri riferimenti, il Rosario Caro in relazione a favori che il dott. Contrada aveva già fatto o avrebbe dovuto fargli?

SPATOLA R.: A lui personalmente era in attesa di potere avere il porto d’armi. Nei riguardi del fratello Federico, lo aveva già ottenuto sempre tramite il dott. Contrada.

P.M.: Cosa?

SPATOLA R.: Il porto d’armi di pistola. Parlo di porto d’armi, cioè, portarla liberamente addosso, non detenzione in casa>>

In ogni caso, il tempo trascorso dai fatti, l’affinità concettuale - anche se non di regime giuridico - tra porto di fucile per uso caccia e porto di pistola e la stessa, modesta scolarizzazione del collaborante (<<Io la quinta ho, devo distinguere quello e quell’altro>>, cfr. pag. 100 trascrizione udienza 27 aprile 1994) fugano del tutto l’ipotesi del mendacio nei termini paventati dalla Difesa.

Per analoghe ragioni, non scandalizza affatto che Rosario Spatola non abbia distinto, riferendosi a Federico Caro e narrando di una circostanza appresa oltre dieci anni prima, tra rilascio e rinnovo del porto di pistola.

Non ha pregio alcuno, infine, l’ipotesi di una sinergia artificiosamente preordinata con le dichiarazioni del pentito Cancemi, relative all’interessamento dell’imputato per il porto d’armi a Stefano Bontate.

Vale la pena ricordare, a questo riguardo, che - nuovamente escusso nel primo dibattimento di appello - pur non peritandosi di riferire dei contatti tra collaboranti e degli approcci nei suoi confronti (non relativi, comunque, al processo Contrada) - Rosario Spatola ha riferito di non conoscere il Cancemi. Né sorprende, tenuto conto dell’importanza tutto sommato marginale dell’interessamento dell’imputato per i porti d’arma dei Caro e del tempo trascorso tra gli eventi riferiti e le dichiarazioni, che il ricordo di tali vicende non fosse immediatamente sovvenuto al collaborante.

*****


Ulteriore fronte di attacco alla attendibilità di Rosario Spatola è, nel corpo del volume I, tomo I dei Motivi nuovi (pagine 228 e seguenti), il senso delle dichiarazioni da lui fatte a proposito della fallita operazione di Polizia all’Hotel Costa Verde di Cefalù, risalente al 1984.

Come riferito in questo processo dal funzionario di Polizia Santi Donato (cfr. ff. 155 e ss. ud. 13/5/1994) e dal magistrato Raimondo Cerami (cfr. ud. 13/5/1994 ff. 107 e ss.) l’operazione di Polizia denominata “ Hotel Costa Verde” - preordinata alla cattura di alcuni latitanti mafiosi di spicco tra cui Salvatore Riina, riunitisi in quell’albergo per un banchetto di nozze - fallì a causa di una direttiva impartita dal dott. D’Antone, all’epoca dirigente della Squadra Mobile di Palermo, che modificò le originarie modalità di intervento programmate dai funzionari Cassarà e Montana.

L’episodio, dunque, non riguarda Bruno Contrada, ma Ignazio D’Antone, ed ha costituito uno dei fondamenti della affermazione della sua responsabilità per concorso esterno in associazione mafiosa (cfr. le già citate sentenze a carico del dott. D’Antone, prodotte in questo dibattimento di appello).

Per quanto qui rileva, nel corso dell’interrogatorio del 16 dicembre 1992, Rosario Spatola dichiarò di avere appreso dall’avv. Antonio Messina che l’irruzione delle Forze dell’Ordine era stata preannunciata, con dieci minuti di anticipo, da una telefonata proveniente dai “Vertici della Questura di Palermo”, che aveva dato ai latitanti la possibilità di darsi alla fuga.

In sede di interrogatorio, così come nel corso dell’esame reso il 27 aprile 1994, lo Spatola ha precisato che non gli era stato fatto il nome del funzionario di Polizia autore della “soffiata”.

Orbene, i difensori appellanti stigmatizzano come sintomatico di una manipolazione del collaborante, nel quadro di una ipotizzata regia complessiva delle collaborazioni, il fatto che l’episodio in parola fosse stato narrato nel contesto delle propalazioni a carico di Contrada, tanto da costituire oggetto, tra l’altro, della richiesta al G.I.P. di emissione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere.

Deducono, in particolare (pagine 232 - 235 volume I, Tomo I dei motivi nuovi) : <

Si deve ancora una volta sottolineare che - secondo il racconto del pentito - a quel ricevimento matrimoniale c'era Totò Rima, oltre tanti altri esponenti di Cosa Nostra, il quale era riuscito a sottrarsi alla cattura per la "provvidenziale" telefonata dai vertici della Questura, e che alla data del 16.12.1992 aveva già reso (precisamente il 5.11.1992) le sue dichiarazioni l'altro pentito Marchese Giuseppe (Pino) che aveva incentrato la sua principale e più grave accusa nei confronti del dott. Contrada sul fatto che questi, all'inizio del 1981, avrebbe fatto fuggire da Borgo Molara proprio Totò Riina.

Le due accuse, provenienti da pentiti diversi, si sarebbero incrociate e rafforzate di valenza probatoria l'una con l'altra.

Non avendo ciò potuto realizzare, per l'errore commesso di indicare una operazione di polizia fallita nel 1984, mettendola in relazione con una telefonata proveniente dai "vertici" della Questura, lo Spatola ha tentato di porre rimedio nel successivo interrogatorio ai PP.MM. del 23 dicembre 1993, data coincidente esattamente con la scadenza del termine di un anno della carcerazione preventiva del dott. Contrada.

Infatti, in tale interrogatorio, ha enunciato l'accusa (per la prima volta) degli "avvisi" che il dott. Contrada avrebbe dato ai mafiosi per neutralizzare o sventare le operazioni di polizia programmate sul territorio; questa volta, il dott. Contrada avrebbe posto in essere l'attività delittuosa non più quale funzionario di P.S., ma quale funzionario del S.I.S.DE e Capo di Gabinetto dell'Alto Commissario (anni 1982-1985). In tal modo, si sarebbe realizzata alla perfezione la "convergenza molteplice" delle accuse, aventi per oggetto la "protezione dei latitanti di mafia" addebitata al dott. Contrada con una valenza notevole sia di ordine temporale, cioè dal 1982 al 1985, sia di ordine spaziale, cioè tutte le Province siciliane, con particolare riguardo a quelle di Palermo e Trapani, sia di ordine soggettivo, cioè gli esponenti di tutte le "famiglie" di mafia>>.

Nel caso di specie, l’ipotesi, avanzata dai difensori appellanti, che l’interrogatorio effettuato dal Procuratore della Repubblica di Termini Imerese abbia indotto la Procura di Palermo, ovvero personale della D.I.A., a rivedere una presunta strategia volta ad incastrare l’odierno imputato, cede di fronte alla constatazione che Rosario Spatola ha, sin dall’inizio, chiarito i limiti delle sue conoscenze sull’operazione “Hotel Costa Verde”.

La circostanza, dunque, che quell’operazione fosse stata menzionata tra gli episodi che avevano formato il compendio indiziario a sostegno dell’adozione della misura della custodia in carcere, non investe il livello della credibilità del collaborante, ma, semmai, la pertinenza delle valutazioni in sede cautelare.

Lo stesso Spatola, del resto, alle contestazioni mosse in dibattimento circa il ritardo nelle sue accuse - non gli è stato specificamente chiesto perché non avesse insistito nelle indicazioni sull’operazione “Hotel Costa Verde” - ha risposto di avere esposto i fatti sovvenutigli nel tempo, ovvero di avere, sul momento, dimenticato quelli che, nello sviluppo degli interrogatori, non erano stati sondati.

Questa giustificazione, in effetti, è stata data quando il Presidente del collegio ha chiesto al collaborante perché non avesse parlato, da subito, dell’episodio dell’incontro al ristorante “Il Delfino” <<Ora (come mai lei parlò dell’incontro al ristorante Delfino non nel primo interrogatorio, ma nel secondo?>>) , ma la sostanza dei concetti è la medesima anche in relazione ai ritardi dei quali non è stato chiesta specifica contezza.

Il collaborante, infatti, ha risposto :<< SPATOLA R: <



PRESIDENTE: Siccome era un episodio molto importante.

SPATOLA R.: No, così, in quel momento non... la memoria... o magari stavo per ricordarmelo, ma mi si chiesero altre cose e allora mi sfuggì di mente (cfr. pagina 133 trascrizione udienza del 27 aprile 1994).>>.

Del resto, come si è già rilevato nell’ambito delle considerazioni introduttive sui criteri di valutazione delle chiamate in correità, la giurisprudenza di legittimità ha sì individuato gli indici cui ancorare il necessario giudizio di attendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia (la loro personalità, le loro condizioni socio-economiche e familiari, il loro stato, i rapporti con i chiamati in correità, la genesi remota e prossima della risoluzione alla collaborazione, la precisione, la coerenza, la costanza, la spontaneità delle dichiarazioni), ma ha anche escluso che il rinvenimento di alcuni parametri negativi possa, di per sé solo, fondare un giudizio di inattendibilità.

Entro certi limiti, cioè, l’imprecisione, l’incoerenza, l’aggiunta o l'eliminazione di segmenti fattuali in momenti successivi possono trovare idonea giustificazione in offuscamenti della memoria (specie con riguardo fatti molto lontani nel tempo), nello stesso fisiologico progredire del ricordo, una volta portato alla luce, o ancora nell'emotività, e persino in limiti di natura culturale nella ricostruzione dei fatti.

Lo stesso legislatore, del resto, nel sanzionare con la inutilizzabilità le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia - e peraltro, come si è detto, non quelle dibattimentali, comunque utilizzabili - oltre il termine di centottanta giorni previsto per la redazione del “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione”37, ha tenuto conto del fatto che i ricordi, specie se di fatti risalenti, sono suscettibili di progredire nel tempo ed essere, di volta in volta, stimolati od obliterati a seconda dell’andamento degli interrogatori.



*****

L’episodio dell’incontro al ristorante “Il Delfino” è stato oggetto di ulteriori censure, specificamente sviluppate nelle pagine da 82 a 133 del Volume I, Tomo I dei “Motivi nuovi”.



Si deduce, in sintesi che:

  • nell'interrogatorio reso il 16 dicembre 1992 (acquisito agli atti del processo), lo Spatola non ne aveva fatto cenno, narrandone nel successivo interrogatorio del 25 marzo 1993, nel corso del quale aveva dichiarato: <>;

  • il Tribunale aveva tenuto in non cale le plausibili smentite di Antonio Pedone, gestore del ristorante, che all’udienza del 7 settembre 1994 aveva negato di avere personalmente conosciuto Rosario Riccobono (pur non escludendo che egli, a sua insaputa, avesse pranzato nel suo locale) ed aveva spiegato che nel 1980 non esisteva la saletta riservata della quale aveva parlato Rosario Spatola, ma c’era un piccolo vano sopraelevato adducente ai servizi igienici, nel quale poteva capitare di sistemare un tavolo di fortuna;

  • Il Pedone aveva altresì affermato che le autorità sanitarie gli avevano successivamente imposto di chiudere con una vetrata quel vano, e che non avrebbe mai sistemato una personalità del rango dell’imputato “vicino ai gabinetti”;

  • nell’ulteriore interrogatorio del 23 dicembre 1993, in luogo delle parole “saletta riservata”, lo Spatola aveva utilizzato le parole “tavolo posto in posizione appartata”, riferendosi ad <<un tavolo sito in fondo al locale,in una parte meno visibile, posta dopo alcuni gradini>>;

  • all’udienza del 27 aprile 1994, nel corso del proprio esame, il collaborante aveva ribadito questa versione, e però, dalla precisazione, fatta di sua iniziativa e non su contestazione della difesa << ...un tavolo un po' più appartato in fondo, non è che sia una saletta riservata...>>, traspariva che gli era stato suggerito che aveva detto qualcosa non rispondente allo stato dei luoghi della tarda primavera del 1980, e quindi non rispondente alla verità;

  • lo Spatola aveva mutato versione con l'interrogatorio del 23 dicembre 1993 perché poco prima, e cioè il 18 novembre 1993,la Difesa aveva richiesto di acquisire la planimetria del locale, così come esso si presentava nella primavera del 1980, per dimostrare che aveva detto cosa non vera;

  • non si spiega (punto, questo, già vagliato) come un fatto di così grande importanza fosse stato riferito da Spatola tre mesi dopo <provare la sua assoluta estraneità all'episodio della operazione di polizia all'Hotel Costa Verde di Cefalù del 1984, perché da oltre due anni aveva lasciato la Questura di Palermo>> (pagine 98 e 99 vol. I, tomo I dei Motivi nuovi);

  • il Tribunale, inoltre, aveva ignorato la portata dell’attività investigativa svolta dall’imputato nei confronti di Rosario Riccobono e degli altri uomini della sua “famiglia” o a lui legati da stretti vincoli criminali, così come la circostanza che, sebbene assolto dai reati di omicidio, tentato omicidio, tentata estorsione, associazione per delinquere contestatigli a seguito della uccisione dell’agente di Polizia Gaetano Cappiello in data 2 luglio 1975, il Riccobono era il mafioso più inviso agli uomini della Squadra Mobile di Palermo (anche questo aspetto dell’impianto difensivo è stato già esaminato trattando delle propalazioni di Gaspare Mutolo, ed è sufficiente fare rinvio alla sentenza di primo grado, pagine 539 e segg.) ;

  • allo stesso modo, il Tribunale aveva dato per vero un incontro conviviale del tutto inverosimile, giacchè negli anni ‘70 ed ‘80 del novecento il ristorante “Il Delfino” era uno dei ristoranti più frequentati a Palermo, non disdegnato nemmeno da appartenenti alle forze dell’ordine e da magistrati, e quindi il rischio di visibilità era altissimo (oltretutto, dal 23 aprile 1980 Rosario Riccobono, già ricercato per la notifica del provvedimento della misura di prevenzione del soggiorno obbligato a Porto Torres, era latitante per effetto dell’ordine di carcerazione emesso per l’espiazione della residua pena di anni 4 e mesi sei di reclusione per estorsione aggravata e continuata);

  • era, cioè, << semplicemente assurdo ritenere che un poliziotto dell'esperienza del dott. Contrada e un mafioso dello spessore criminale di Rosario Riccobono avessero di concerto deciso di incontrarsi in un frequentatissimo esercizio pubblico, a meno che non si ritenga che si siano così comportati per incontrollata arroganza e iattanza o per totale dabbenaggine>>;

  • ad onta di quanto affermato dal Tribunale, lo Spatola non aveva detto che quell'incontro era avvenuto in un giorno feriale, né esisteva alcun elemento per asserire, come da lui fatto, che il ristorante "Al Delfino", a pranzo fosse frequentato in prevalenza da turisti e a cena da palermitani, senza dire che la contestuale presenza di Contrada e Riccobono nel ristorante, come poteva essere notata di sera, poteva parimenti essere notata di giorno.

I difensori appellanti, inoltre, hanno lamentato che erano stati erroneamente considerati alla stregua di riscontri della narrazione di Spatola - ammesso e non concesso che fossero veri - i fatti narrati dal collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino sul conto del funzionario di Polizia dott. Purpi e sul magistrato dott. Domenico Signorino.

In particolare, il Tribunale aveva osservato (pag. 948 e segg. della sentenza appellata): <>.

Più in generale, hanno dedotto i medesimi difensori, <> i fatti e le deduzioni cui il Tribunale aveva attributo valenza di riscontri, e cioè che:


  • il ristorante “Il Delfino” è sito in quello che era il territorio del mandamento mafioso già capeggiato dal Riccobono, che quel territorio frequentava anche da latitante (pag. 932 della sentenza);

  • Gaspare Mutolo aveva riferito di avere avuto modo di constatare nel 1981, tornato a Palermo, che effettivamente, il Riccobono, seppur ancora latitante, era “molto più tranquillo di prima”, risiedeva più stabilmente in alcuni villini di sua proprietà, siti a Mondello, Pallavicino, e a Sferracavallo, nella zona di mare denominata “Barcarello”, nel cui giardino teneva una roulotte ove offriva alloggio a latitanti (pag. 932 della sentenza)38, circolava tranquillamente per la città con la propria autovettura, svolgeva i suoi traffici illeciti e frequentava locali pubblici (cfr. ff 53 e ss ud. 7/6/1994);

  • Il Mutolo aveva dichiarato che Antonio Pedone, gestore del ristorante "II Delfino", era persona "cui si può parlare" citando due episodi, riassunti alle pagine 933 – 935 della sentenza appellata 39;

  • il Pedone non sarebbe credibile in quanto aveva dichiarato di non avere subito estorsioni o tentativi di estorsione per la sua attività di ristoratore a Sferracavallo, borgata che, a suo dire, aveva avuto <<la fortuna di essere esente da questo flagello>> (ibidem, pagine 936-938);

  • lo stesso Pedone è cognato del mafioso Ciccio Carollo (pag. 940 sentenza) e aveva ammesso << dopo alcune iniziali titubanze>> di aver avuto come clienti qualche volta i fratelli Caro (pag. 941 della sentenza).

Alle pagine 133-135 i medesimi difensori appellanti hanno spiegato nei seguenti termini <> il racconto di Spatola:

<Nessuno dei pentiti accusatori ha dichiarato di aver mai visto Contrada e Riccobono insieme. Soltanto Spatola ha affermato di aver visto i due, insieme, nella occasione del pranzo al ristorante.

L'episodio, una volta accertato e dichiarato vero, avrebbe dato la prova decisiva e inattaccabile non soltanto della sussistenza del rapporto tra il poliziotto e il mafioso, ma anche dell'attendibilità di tutti gli altri pentiti propalatori, in un modo o nell'altro, del medesimo fatto>>.

*****

Giova chiarire, innanzitutto, che errano i difensori appellanti nell’affermare che lo Spatola non avrebbe detto che l'incontro al ristorante "Il Delfino" era avvenuto in un giorno feriale. Allo stesso modo, non può convenirsi sull’ulteriore affermazione secondo cui nulla attesterebbe che quel ristorante a pranzo fosse frequentato in prevalenza da turisti ed a cena da palermitani.



Ed invero, lo Spatola ha riferito che, nella circostanza in cui aveva visto Contrada con Riccobono, si era recato con Rosario Caro al ristorante “Il Delfino” durante la pausa pranzo dell’orario di lavoro del Caro, dipendente "Tessilcon" ex " Facup" di Tommaso Natale e che, con lui, aveva sovente pranzato in quel locale (pag. 887 della sentenza appellata).

Orbene, il rapporto di lavoro di Rosario Caro con la "Tessilcon" (l’interessato ha precisato che l’intervallo per il pranzo, secondo il suo orario di lavoro, era tra le h. 13,00 e le 14,30 - cfr. ff. 4 -5 ud. 7.9.94), la sua abitudine di pranzare in quel ristorante, la sua amicizia con Rosario Spatola e la conoscenza del luogo da parte del collaborante (cfr. pag. 941 della sentenza appellata) hanno trovato piena conferma nelle emergenze processuali, e pertanto:



  • è intuitivo che l’intervallo dell’orario di lavoro riguardasse un giorno feriale;

  • lo Spatola aveva sufficienti elementi di conoscenza per descrivere il tipo di clientela del ristorante “Il Delfino” ad ora di pranzo (<<La sala per quello che ricordo io è così, io ci sono stato giornate, giornate, giornate>> pag. 100 trascrizione udienza 24.4.94).

Quanto alle osservazioni sul presunto trapasso dialettico dalle parole “saletta riservata” a quelle “tavolo posto in posizione appartata”, che la Difesa ha considerato sintomatico di una manipolazione del collaborante, il Tribunale se ne è fatto ampiamente carico alle pagine 943-947 della sentenza appellata, cui si rinvia.

Giova ribadire, comunque, che il racconto dello Spatola è logico e ben centrato.

Il collaborante, infatti, ha sempre sostenuto di avere visto quel tavolo entrando nel locale. Ciò conferma che, come da lui riferito, non c’erano porte divisorie, cioè non c’era ancora la porta a vetri collocata anni dopo dal Pedone su disposizione delle autorità sanitarie per isolare - creando una sorta di antibagno - l’area di accesso ai servizi dalla zona dei tavoli.

Risulta, dunque, insostenibile l’ipotesi che un occulto suggeritore abbia indotto lo Spatola a modificare la sua precedente descrizione dello stato dei luoghi, a seguito della iniziativa della Difesa di richiedere la planimetria del locale nelle condizioni in cui si trovava nella primavera del 1980.

Non si ravvisa, in conclusione, una sostanziale variazione nei riferimenti lessicali e spaziali del narrato dello Spatola: una saletta non è necessariamente isolata o soggetta ad esserlo, mentre la zona era sicuramente appartata, e quindi idonea a non essere ascoltati, più di quanto non lo fosse un tavolo contiguo ad altri. Per non dire che la scarsa cultura del collaborante - come osservato dal Tribunale, non consentiva di attribuirgli << la capacità di fare sottili distinzioni di tipo linguistico>>.

Venendo alle ulteriori osservazioni difensive, al fine di lumeggiare l’ambiguità di Antonino Pedone, gestore del ristorante “Il Delfino”, basta soltanto ricordare la sua affermazione che la Borgata di Sferracavallo era, per grazia ricevuta, <<immune dal flagello delle estorsioni>>, ragione per cui egli non aveva mai pagato alcuna somma a titolo di “pizzo”.

Essa è stata smentita dalla instaurazione di un procedimento penale avente ad oggetto numerose estorsioni consumate proprio nella zona di Sferracavallo, definito con sentenza del 16/5/1978 di non doversi procedere contro ignoti, emessa dal Consigliere Istruttore di Palermo, dott. Chinnici, , peraltro in relazione a fatti attribuiti anche al Pedone stesso.

Tale elemento, correlato al comprovato rapporto di affinità con il mafioso Ciccio Carollo, legittima pienamente il convincimento del Tribunale secondo cui Rosario Riccobono ben poteva contare sulla discrezione del gestore del ristorante .

Lo stesso incontro al ristorante “Il Delfino”, del resto, non è collocabile con certezza in epoca successiva al 23 aprile 1980, giorno in cui Rosario Riccobono divenne latitante, e cioè uno di quei soggetti la cui ricerca il dott. Impallomeni, successore dell’odierno imputato dott. Contrada alla guida della Squadra Mobile di Palermo, esaminato all’udienza del 20 maggio 1994, ha riferito di avere sempre considerato un suo “pallino”.

Gli ulteriori elementi evidenziati dal Tribunale e richiamati dai difensori, poi (spavalderia ostentata dai latitanti, presenza del Riccobono nel suo territorio e quindi ampie possibilità di coperture o di segnalazioni di presenze indesiderate), inducono a disattendere la tesi della impossibilità dell’incontro tra Contrada e Riccobono all’interno del ristorante.

Oltretutto, a venire in considerazione non è l’alternativa tra verosimile ed inverosimile, ma quella tra ciò che è provato e ciò che non lo è. Ed fare ritenere provato l’episodio dell’incontro al ristorante “Il Delfino” convergono, oltre ai riscontri rassegnati su questa specifica indicazione accusatoria, tutti i contributi riguardanti l’esistenza di un rapporto personale con il Riccobono, che Contrada ha sempre negato anche nella forma di relazione tra confidente e poliziotto.

Nella stessa sentenza di annullamento con rinvio (pagine 259-260), del resto, si ricorda come sia <

Nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione tutti e ciascuno degli elementi processualmente emersi, non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante, che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la verità del caso concreto.

Viola tale principio il giudice che abbia smembrato gli elementi processualmente emersi (ivi comprese le dichiarazioni dei collaboranti) sottoposti alla sua valutazione, rinvenendo per ciascuno giustificazioni sommarie od apodittiche e omettendo di considerare se nel loro insieme non fossero tali da consentire la configurabilità in concreto del reato contestato.

Ha violato tale principio la sentenza impugnata che (come risulta all'evidenza nelle conclusioni, raffrontate con quelle rassegnate dal giudice di primo grado, e come si evidenzierà con riferimento alle singole parti della sentenza stessa) ha parcellizzato la valenza significativa di ciascuna fonte di prova, analizzandola e valutandola separatamente e in modo atomizzato dall'intero contesto probatorio, in una direzione specifica e preconcetta, astenendosi dalla formulazione di un giudizio logico complessivo dei dati forniti dalle risultanze processuali, che tenga conto non solo del valore intrinseco di ciascun dato, ma anche e soprattutto delle connessioni tra essi esistenti;per di più rispetto ad una tipologia di reato contrassegnato da una condotta finalizzata alla conservazione e al rafforzamento dell'associazione criminosa, desumibile, considerata proprio la struttura della condotta stessa, da una serie di elementi che soltanto attraverso una valutazione complessiva possono, almeno di norma, assumere il carattere della specificità>>.

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Infine, vanno rassegnate le censure, svolte nel volume I tomo I dei Motivi nuovi di appello, riguardanti le dichiarazioni di Rosario Spatola circa le notizie che il collaborante avrebbe ricevuto, tramite l’avv. Antonio Messina, di imminenti operazioni di polizia ad ampio raggio - che lo interessavano in quanto estese anche al comune di Campobello di Mazara - negli anni tra il 1983 ed il 1985.

Il costrutto difensivo è riassunto nelle seguenti, testuali, proposizioni:



  1. <> (pag. 50 volume I tomo I dei Motivi nuovi);

  2. <> (ibidem, pag. 142);

  3. <
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