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Lo svolgimento del processo


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(nessuna accusa a Contrada) o aveva mentito a gennaio - novembre 1994 (accuse a Contrada), derivandone, in ogni caso, quantomeno un negativo giudizio in punto di attendibilità intrinseca, tale da riverberarsi sulla verifica della sua attendibilità estrinseca (ibidem, pag.32);

  • in ogni caso, la risposta del 2 aprile 1993, analoga a quella del 3 aprile, non era stata nè menzionata, nè, a fortiori, giustificata dal collaborante, e pertanto, ammesso che il Marino Mannoia fosse stato incapace di connettere per la stanchezza alla fine dell’interrogatorio del 3 aprile, non si spiegava perchè avesse taciuto anche il giorno precedente (ibidem,pag. 19).

    I difensori appellanti, quindi, hanno ulteriormente svolto le loro doglianze sulla attendibilità intrinseca del Marino Mannoia con specifico riguardo alla cronologia delle sue dichiarazioni rispetto a quelle dei pentiti Mutolo e Cancemi.

    Hanno dedotto che :



    1. erroneamente il Tribunale aveva escluso che le propalazioni del collaborante fossero frutto di pedissequi adeguamenti ad altre risultanze processuali se non, addirittura di adattamento manipolatorio (ibidem, pagine 32 e 33, ove si cita la sentenza appellata);

    2. il Marino Mannoia, infatti, nel corso dell’interrogatorio del 27 gennaio 1994, e poi dell’esame del 29 novembre 1994, aveva detto che, tra il 1974 ed il 1975, Angelo Graziano aveva asserito di avere "procurato" una casa all’imputato, accusa già enunciata dal pentito Gaspare Mutolo il 23 ottobre 1992 in sede di interrogatorio al Pubblico Ministero ed il 7 giugno 1994 in sede di esame (ibidem, pagine 34 - 36);

    3. allo stesso modo, le propalazioni del Marino Mannoia avevano offerto un provvido e non casuale sostegno alla indicazione accusatoria di un rapporto diretto tra l’imputato ed il mafioso Stefano Bontate per il tramite dell’imprenditore Arturo Cassina e del funzionario di Polizia dott. Purpi, dei quali aveva precedentemente parlato Gaspare Mutolo (ibidem, pagina 14 e pagine 44,45 e 47);

    4. analogamente, ancora, il Marino Mannoia non aveva fatto altro che offrire una sponda alle indicazioni accusatorie del pentito Salvatore Cancemi (escusso all’udienza del 28 aprile 1994) dichiarando - soltanto in sede di esame e con la giustificazione di un ricordo tardivo - che l’ultima notizia appresa sul conto dell’imputato era stata quella dell’interessamento di Contrada per la patente di guida di Stefano Bontate (ibidem, pagine 37-40);

    5. in definitiva (cfr. pag. 17 volume 16 dei motivi nuovi) <perché tali rapporti non erano mai esistiti>>.

    A questa stregua, hanno sostenuto i difensori appellanti, le espressioni del tipo " non so altro, non ho approfondito l'argomento, non mi interessava,non mi competeva ,più di questo non so, no questo no lo so, non so per quali motivi ", ricorrenti nel suo narrato, depongono nel senso <: "Va bene. Però non ho nulla da dire sul Dott. Contrada. Posso solo, in un modo qualsiasi, confermare ciò che hanno detto gli altri miei compagni di pentimento. Ciò, se mi assicurate che hanno detto il vero e che le accuse sono state già riscontrate onde non essere smentito".

    Ciò è assurdo: ma solo questa assurdità potrebbe dare una spiegazione logica al comportamento processuale di Francesco Marino Mannoia>>.

    L’ipotesi della manipolazione del pentito - riconducibile a quella di un complotto realizzatosi nel creare artatamente la convergenza di indicazioni accusatorie di una pluralità di collaboratori di giustizia - riemerge nelle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato all’udienza del 20 maggio 1999, subito dopo l’esame, in grado di appello, di Francesco Marino Mannoia (pagine 79-80 della trascrizione): <<…..e solo in quella data i miei avvocati ed io sappiamo che cosa aveva dichiarato Marino Mannoia, però in quella udienza non si dice che il giorno precedente Marino Mannoia aveva fatto accuse a carico di poliziotti, dopo aver detto, subito dopo aver detto, nelle righe successive si legge, “non so nulla del dottor Contrada, non ho mai sentito dire che era colluso o vicini agli ambienti di cosa nostra”, parla di Purpi, parla dell’appuntato Cacciatore, del brigadiere Cacciatore, parla di un altro sottufficiale perché sono le cose che lui sa, che aveva sentito dire, ma lui fino a quella data non aveva sentito dire nulla su Contrada, lui parla di me il 27 gennaio del 1994.

    Molto probabilmente io non ho la possibilità di provarlo, dopo colloqui investigativi (INCOMPRENSIBILE) negli Stati Uniti D’America con funzionari della DIA, i miei rapporti con la DIA sono stati sempre improntati non dico a contrasti, ma ad indifferenza assoluta, a distacco assoluto per l’incompatibilità tra me e il dottor Gianni De Gennaro, vice direttore della DIA, per motivi professionali>>.

    Giova ricordare che l’esame in grado di appello di Francesco Marino Mannoia era stato ammesso <<allo scopo di chiarire i motivi per cui egli aveva taciuto prima ai P.M. di Caltanissetta (2 aprile 1993) e poi a quelli palermitani (3 aprile 1993) le circostanze sul conto del dott. Contrada riferite al Tribunale di Palermo il 20 novembre 1994>>, come si legge a pag. 53 della sentenza di appello annullata, resa il 4 maggio 2001.

    Con la predetta sentenza, la Corte di Appello di Palermo, sezione II penale, ha osservato:<

    In tal caso, infatti, sarebbe stato sufficiente a rendere evidente la delusione del collaborante per l’atteggiamento degli inquirenti la iniziativa di fornire delle esternazioni evasive, laddove risulta invece che egli escluse categoricamente di avere mai saputo che il dott. Bruno Contrada fosse persona legata o comunque vicina a “cosa nostra”, dichiarando di averlo conosciuto solo come appartenente alla polizia (verb. 2 aprile 1993), così esponendosi al rischio di compromettere la sua reputazione di collaborante leale.

    Si deve aggiungere che non sembra accettabile la spiegazione offerta dal Marino Mannoia circa la casualità di tale atteggiamento, dato che egli nella medesima seduta non esitò a fornire agli investigatori italiani indicazioni assai dettagliate in merito alla strage di Capaci.

    Deve pertanto ritenersi che i riferimenti forniti dal personaggio in questione sulla condotta dell’imputato non siano connotati dalle necessarie garanzie di attendibilità>>.

    Osserva questo collegio che la stessa, dichiarata esigenza della precedente Corte di chiarire i motivi per cui, negli interrogatori del 1993, il collaborante <<aveva taciuto>> le circostanze riguardanti Contrada, lascia trasparire il convincimento che Marino Mannoia avesse intenzionalmente omesso di riferire tali circostanze; convincimento reso evidente dalla successiva affermazione della stessa Corte <>.

    In realtà il 2 ed il 3 aprile 1993, il collaborante si limitò a dire di non avere ricordi specifici, senza attribuire una patente di onestà professionale all’imputato.

    Analoghe considerazioni possono farsi a proposito del senso attribuito dalla precedente Corte alla giustificazione offerta da Marino Mannoia del perché il 2 aprile 1993 avesse parlato diffusamente dei prodromi della strage di Capaci (la condanna a morte di Giovanni Falcone, comminata da “Cosa Nostra” già anni prima), e cioè di una vicenda nella quale non era coinvolto e sulla quale non si era preparato a rispondere, mentre nulla aveva saputo dire sul conto dell’odierno imputato, con cui - parimenti - non aveva avuto a che fare e sul quale non era mentalmente predisposto a rispondere.

    Il collaborante, infatti, ha risposto che ciò era avvenuto per un fatto casuale.

    Osserva questo collegio che tale “casualità”, è stata riferita dal pentito non già al proprio atteggiamento (che, altrimenti, sarebbe ictu oculi uterino, supponente, irrazionale, e quindi tale da mettere in dubbio la serietà stessa del proposito di collaborare) ma allo sviluppo in sé dell’atto istruttorio, e cioè al fatto che questo aveva avuto tra i suoi principali temi i prodromi della strage di Capaci, sui quali il Marino Mannoia conservava dei ricordi ampi ed organici, trattandosi di vicende e situazioni cui aveva personalmente assistito.

    In sostanza, ha detto il collaborante, gli era capitato di poter parlare di fatti dei quali conservava memoria, ma non era capitato di poterlo fare per Contrada, del quale non ricordava nulla.

    Questo, e non altro, è il senso del brano “incriminato” della trascrizione (pag. 41) che si riporta testualmente: <
    15 cioè non ha detto niente di Contrada, mentre per la vicenda Capaci, tanto per attenermi all’esempio che ho fatto io, si è dilungato, ha dato un sacco di spiegazioni, di cose, ha parlato diffusamente.

    Perché questa differenza, dice l’avvocato.

    FRANCESCO MARINO MANNOIA: innanzitutto volevo dire questo, se ci sono state arrabbiatine questo e quell’altro, certamente questi illustri magistrati non avevano ammazzato a nessuno a me, erano li per farsi il loro lavoro, il loro dovere.

    Se è capitato che mi sono soffermato diffusamente su altre situazioni e non sul dottore Contrada poteva succedere viceversa prolungarmi sul dottor Contrada e non soffermarmi sulla strage di Capaci.

    È assolutamente casuale>>.

    Lo stesso collaborante, invero, ha riferito di non ricordare <<fatti particolari a carico del dottor Contrada>>, soggiungendo << Non è che io dico che non volevo parlare del dottor Contrada, per l’amor di Dio, perché se i ricordi vengono allora vengono, se non vengono non vengono, io aspettavo i signori Procuratori della Repubblica, in particolare il dottore Caselli e la sua équipe, poiché avevo fatto sapere dal mio legale che avevo intenzione di dire a loro le mie responsabilità personali degli omicidi che avevo commesso, cosa che in Italia non avevo parlato prima.



    Poiché l’avevo già confessato al Governo degli Stati Uniti, ai procuratori degli Stati Uniti di New York, allora mi faceva dovere informare la procura che venisse a interrogarmi su questi fatti.

    Al che il 2 e il 3 aprile, il 2 aprile mi vedo presentare dinanzi a me, una flotta di persone, tra cui il dottor Di Nebra 16il dottor Caselli, vi erano parecchie e parecchie persone, fra cui i miei legali ed altre persone (pagine 11 e 12 trascrizione udienza 20 maggio 1999)>>.

    Né vale ad infirmare la credibilità del Marino Mannoia il fatto che questi, nel corso del suo esame, non avesse detto che anche il 2 aprile 1993 gli era stato chiesto cosa sapesse sul conto dell’odierno imputato: non sorprende, cioè, che egli non si ricordasse di avere risposto su un tema del quale aveva dichiarato di non ricordare nulla, se non la veste di funzionario di Polizia dell’imputato.

    E’ assolutamente plausibile, per contro, che la figura di Contrada fosse stata da lui mentalmente associata allo specifico frangente in cui - opponendo di non essere più in grado di scavare nei propri ricordi - egli aveva cercato di porre fine al lunghissimo interrogatorio del 3 aprile 1993.

    Oltretutto, è la stessa frammentarietà di tali ricordi che spiega il perché della loro progressiva emersione: nell’interrogatorio del 27 gennaio 1994 i dati sovvenuti al dichiarante sono l’esistenza di un rapporto personale tra l’imputato e Rosario Riccobono, additato a sospetto, come si dirà, dal mafioso Stefano Giaconia; la crisi, intervenuta e personalmente constatata negli anni 1979-1980, tra lo stesso Bontate e Rosario Riccobono; la diffidenza del primo nei confronti del secondo, sospettato di essere autore di delazioni.

    In dibattimento, invece, vengono delineati altri fatti di più difficoltosa messa a fuoco, e segnatamente la conversazione tra Stefano Bontate ed il suo sottocapo Giovanni Teresi, dipendente di Arturo Cassina, vertente su un appuntamento da fissare per il tramite di Cassina con Contrada, e gli episodi delle patenti ottenute dallo stesso Bontate e da “Pinè Greco” mercè l’interessamento dell’imputato.

    Né è inverosimile, a dispetto di quanto dedotto a pag. 12 del volume II capitolo V paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione, che, tenuto conto della notorietà di Contrada, in prima linea nell’apparato investigativo della Questura di Palermo, Marino Mannoia non ricordasse nemmeno genericamente di averne sentito parlare come funzionario colluso da una certa epoca in poi (che il Mutolo aveva collocato successivamente al proprio arresto).

    Ed invero - operando l’omertà anche come regola interna a “Cosa Nostra” - lo stretto rapporto con il capofamiglia non autorizzava il collaborante a rivolgere domande riguardanti funzionari di Polizia, pur rendendosi occasionalmente possibile la percezione di rapporti personali tra costoro e soggetti mafiosi (come accaduto de visu anche a Gaspare Mutolo ed a Gioacchino Pennino nei riguardi del dott. Purpi), ovvero la percezione di specifici episodi di favoritismo (come avvenuto, per esperienza diretta del Marino Mannoia, nei riguardi del dott. Speranza).

    Non stupisce, dunque, che il Marino Mannoia avesse focalizzato il ricordo di un rapporto di conoscenza diretta tra Bontate e Contrada, mediato dall’imprenditore Arturo Cassina, ancorandolo ad una reminiscenza specifica di un fatto occasionale come la conversazione Bontate – Teresi nel giardino della villa di Stefano Bontate.

    In tale colloquio, peraltro, egli non aveva titolo per ingerirsi, trovando, dunque, piena giustificazione le espressioni, stigmatizzate dai difensori appellanti, del tipo <<non so altro, non ho approfondito l'argomento, non mi interessava, non mi competeva ,più di questo non so>>.

    Per queste ragioni non colgono nel segno i rilievi, svolti alle pagine 16 e 17 del volume 16 dei Motivi nuovi di appello, secondo cui:


    • se effettivamente Bruno Contrada e Stefano Bontate avessero avuto rapporti tra loro nel quinquennio tra l’affiliazione del collaborante e l’uccisione del suo capo famiglia”, cioè tra 1976 e l’aprile 1981, Marino Mannoia ne avrebbe necessariamente constatato l’esistenza e la consistenza avendo, pur da semplice soldato, un rapporto diretto con il Bontate;

    • se rapporti siffatti fossero esistiti, anche Salvatore Contorno, mafioso di notevole spessore criminale e, poi, pentito di rilievo sin dal 1984, affiliato alla "famiglia" di mafia di Santa Maria di Gesù, ne avrebbe parlato, cosa che non era mai avvenuta.

    In altri termini, il silenzio di Salvatore Contorno (che non è dato sapere se sia stato interpellato su Contrada), ha la medesima spiegazione della scarsità di notizie di Marino Mannoia: non è scontato, cioè, che, date le regole interne a “Cosa Nostra”, l’uno o l’altro dovessero sapere più di quanto hanno dichiarato di sapere.

    E’ parimenti plausibile, per la necessaria occasionalità di questo tipo di conoscenze, la spiegazione, offerta dal Marino Mannoia , di avere appreso dei contatti tra il Contrada e Riccobono nel frangente in cui Stefano Bontate gli aveva esternato i suoi dubbi sulla affidabilità del capo mandamento di Partanna Mondello, sospettato di essere un delatore17.

    D’altra parte, per quanto è emerso dal processo, il rapporto dell’odierno imputato con Stefano Bontate è stato meno intenso - e di gran lunga meno rilevante rispetto al paradigma del concorso esterno in associazione mafiosa - rispetto a quello con Rosario Riccobono, essendo genericamente funzionale, nella strategia di Bontate, ad un ammorbidimento del funzionario di Polizia. Si spiega, dunque, la maggiore quantità di informazioni di Gaspare Mutolo, che del Riccobono era stato il braccio destro e con lui ed i familiari aveva addirittura vissuto sotto lo stesso tetto un periodo di latitanza.

    Per altro verso, le parole <<Con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi>>, pronunziate il 3 aprile 1993, si armonizzano perfettamente con una condizione di estrema stanchezza, e dunque con quella difficoltà di mettere a fuoco i propri ricordi che è stata ravvisata dal Tribunale.

    La stessa pretesa dei difensori appellanti di stabilire una durata media della redazione di ciascuna pagina del verbale (45 minuti), e di inferirne che la risposta sul Contrada era intervenuta alquanto prima della chiusura del verbale stesso, non tiene conto di tale circostanza, e comunque muove da una astrazione che non risponde al concreto procedere di una verbalizzazione riassuntiva, non necessariamente coincidente con i tempi delle dichiarazioni verbalizzate.

    Peraltro, la predetta risposta è riportata alla fine e non, come si sostiene nell’atto di appello, all’inizio della pagina 18, ed il verbale si chiude all’inizio della pag. 21, come emerge dalla lettura del documento, acquisito all’udienza del 19 maggio 1995 .

    Superati, dunque, i rilievi riguardanti le risposte agli interrogatori del 2 e del 3 aprile 1993 e le relative giustificazioni date dal collaborante, va parimenti disatteso l’assunto secondo cui la progressione dei suoi ricordi denoterebbe un “adattamento manipolatorio”.

    Ferma restando, infatti, la considerazione che un ipotetico complotto avrebbe implicato una regia complessiva delle collaborazioni, il condizionamento del Marino Mannoia avrebbe dovuto necessariamente essere fatto con l’avallo del governo degli Stati Uniti D’America, che al pentito aveva accordato protezione nel suo territorio. Senza dire che l’ipotesi del pedissequo adeguamento non può desumersi dal semplice fatto che il collaborante abbia riferito fatti riferiti da altri o descritto il medesimo contesto collusivo già delineato da altri.

    Su questo aspetto, non può che farsi rinvio alle pagine 611-615 dell’appellata sentenza, ed alla positiva verifica, operata dal Tribunale, della originalità e della attendibilità estrinseca delle dichiarazioni rese dal collaborante su particolari ed episodi nuovi, rivelatori di autonomia rispetto ad altre fonti propalatorie (pagine 615-654 della sentenza di primo grado).

    Prima, tuttavia, di passare alle censure riguardanti tali particolari ed episodi nuovi, giova rilevare che - ad onta di quanto sostenuto dalla Difesa in questo giudizio di rinvio all’udienza del 27 ottobre 2005 - l’esame di Marino Mannoia in grado di appello non ha introdotto alcun elemento di discontinuità o di contraddizione rispetto alle dichiarazioni rese in primo grado.

    Nel primo giudizio di appello,infatti, il collaborante ha confermato tutte le sue precedenti dichiarazioni con riguardo ai punti sui quali è stato interpellato.

    Segnatamente (pag. 21 della trascrizione) ha confermato che, recatosi a trovare “verso il 1976”, su mandato di Stefano Bontate, il mafioso Stefano Giaconia, gli aveva sentito muovere al Riccobono l’accusa di averlo tradito con una delazione fatta a Contrada, accusa che aveva contribuito a fare deliberare ed eseguire la soppressione fisica del Giaconia. Come si ricava dalla sentenza di primo grado, anni dopo, però, lo stesso Bontate sembrava avere mutato avviso, ed analoghi sospetti, dopo la morte del Riccobono, erano stati manifestati al collaborante in carcere dal codetenuto Pietro Lo Iacono (cfr. pagine 651 e segg. della sentenza appellata) <“ forse, forse, aveva ragione quel disonesto del Giaconia nei confronti del Riccobono”, si era già verificata un’incrinatura nei rapporti tra il Bontate ed il Riccobono a causa di antagonismi interni agli schieramenti mafiosi, il che giustifica il risentimento del Bontate e l’uso strumentale di quella accusa del Giaconia che lo stesso Bontate, nell’immediatezza del suo verificarsi, aveva ritenuto del tutto infondata.

    Allo stesso modo Lo Jacono Pietro quando il Riccobono era già stato vittima della guerra di mafia dei primi anni “80, dopo la sua scomparsa “per lupara bianca”, aveva reso edotto il Mannoia del suo risentimento nei confronti del predetto avanzando il sospetto postumo che il Giaconia avesse potuto avere ragione ad accusare il Riccobono di essere un confidente della Polizia, collegando tale convincimento ad un ulteriore piu’ recente sospetto, e cioè che il Riccobono avesse potuto collaborare con le Forze di Polizia nell’operazione del c.d. “blitz” di Villagrazia del 1981.

    In relazione a quanto riferito dal Lo Iacono al Mannoia, va precisato che i sospetti avanzati dal Giaconia circa un “tradimento” del Riccobono quale presunto autore di “soffiate” alla polizia, anche dopo quanto dichiarato dal teste della difesa Corrado Catalano che ha affermato che quella operazione era scattata a seguito di una notizia confidenziale, di cui non ha ritenuto di disvelare la fonte, possono essere considerati una presunzione del Lo Iacono.

    In realtà si tratta di una semplice supposizione del predetto che si era limitato ad immaginare che le cose fossero andate in un certo modo ed in tal senso aveva dato la sua interpretazione del c.d. “blitz” di Villagrazia>>).

    E’ appena il caso di rilevare che l’episodio della soppressione e della riabilitazione postuma del Giaconia, pur non intercettando specifiche condotte collusive dell’odierno imputato, attesta la problematicità con cui, nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, veniva visto il personale rapporto - dato per acclarato - tra Contrada e Rosario Riccobono.

    Tale rapporto, sempre negato da Contrada anche nella forma da di una relazione da confidente a poliziotto, aveva costituito motivo di mormorii mentre era vivo il Riccobono, non essendo ammesse critiche esplicite ai capi; soppresso questi, però, aveva dato luogo a sospetti ormai manifestati senza remore18.

    Lo stesso Marino Mannoia, del resto, nel corso dell’esame reso in grado di appello, ha ribadito questo concetto prendendo spunto dal riferimento alla vicenda Giaconia (cfr. pag. 21 della trascrizione relativa all’udienza del 20 maggio 1999: << Io ho saputo dopo la scomparsa di Saro Riccobono, perché prima non lo dicevano, ho saputo che Rosario Riccobono era confidente di Contrada…>>).

    Piena conferma al narrato del collaborante, per questo aspetto, è stata offerta, come meglio si dirà:


    • nel giudizio di primo grado, dai collaboranti Tommaso Buscetta e, indirettamente, Salvatore Cancemi (quest’ultimo, de relato da Giovanni Lipari, suo capo-decina e successivamente sotto-capo della famiglia di Porta Nuova,ha riferito delle assicurazioni che, in seno alla “Commissione provinciale “ erano state date circa la lealtà del Riccobono e l’utilità di quel rapporto per il sodalizio mafioso);

    • nel giudizio di appello, dai collaboranti Giovanni Brusca (de relato di Salvatore Riina) ed Angelo Siino (de relato di Stefano Bontate).

    Il Marino Mannoia ha, parimenti, ribadito che il Bontate gli aveva detto di avere ottenuto, grazie all’interessamento dell’imputato, la patente “per un noto esponente di cosa nostra”, confermando che si era trattato di Giuseppe, detto “Pinè, Greco (pagine 24-25-26 trascrizione udienza 20 maggio 1999) pur non essendo facile per lo stesso Bontate <<ottenere (…)la patente che era stata in precedenza levata per motivi appunto di appartenenza, diciamo schedati come persone pericolose>> (pag. 26 ad finem).

    Lo stesso collaborante, inoltre, pur perseverando nel non ricordare il nome della traversa della via Ammiraglio Rizzo nella quale si trovava l’abitazione di Rosario Riccobono, ne ha fornito le esatte coordinate, precisando che << vi erano dei magazzini, sotto vi era un macellaio, vi erano dei box posteggio macchine>>, in perfetta sintonia con gli accertamenti compiuti dal teste Luigi Bruno, del centro operativo della D.I.A. di Palermo in ottemperanza alle deleghe di indagine riguardanti la ricerca dei riscontri alle dichiarazioni dei pentiti Gaspare Mutolo, rispettivamente illustrati dal medesimo teste alle udienze del 19 settembre 1995 (per Mutolo), dell’undici e del 18 marzo 1999 (per Onorato).

    Ha riferito, inoltre, di avere appreso dal mafioso Salvatore Federico, uomo d'onore della famiglia di Bontade (pag. 46 trascrizione udienza 20 maggio 1999) che, grazie ad una soffiata, in una occasione il Riccobono era riuscito a fuggire per tempo da quell’appartamento (pag. 53 e 54 ibidem), ed ancora (pag. 47, ibidem) << Sempre per quello che ho saputo appunto da parte di Stefano Bontade che Rosario Riccobono era in ottimi rapporti e riusciva a sfuggire sempre alla cattura tramite appunto informazioni del dottor Contrada.

    È vero o non è vero questo non lo so.

    Dopo la sua morte dicevano che era confidente di Contrada>>.

    Infine, il Marino Mannoia ha ribadito le accuse di collusione rivolte nel dibattimento di primo grado nei riguardi del funzionario di Polizia dott. Luigi Purpi, gratificato di un appartamento dal mafioso Mimmo Teresi, costruttore vicino allo stesso Bontate (pag. 50, ibidem), accuse dei cui riscontri nella sentenza appellata è stata data ampia contezza (pagine 414-430, 595-596, 610, 616 della sentenza appellata).

    Ed ancora il Marino Mannoia ha confermato (pag. 20 trascrizione udienza 20 maggio 1999) di avere percepito la conversazione tra il Bontate e Giovanni Teresi, riguardante un appuntamento da fissare tra gli stessi, l’imprenditore Arturo Cassina e l’ imputato.

    L’unico, apparente, elemento di novità rispetto alle dichiarazioni rese nel dibattimento di primo grado è stata la puntualizzazione: <<Non è che tutto quello che dicono in "cosa nostra" sia sempre oro colato o sia l’onestà in persona per chi parla>> (pag. 25 ibidem), cioè un distinguo motivato con l’esempio delle ingiuste accuse di collusioni mafiose, all’Agente di Polizia Natale Mondo19 - mosse, ad avviso del collaborante, “per coprire una carica più alta” - e con la stessa, reciproca diffidenza tra Bontate e Riccobono (pag. 47, ibidem).

    Tale distinguo, tuttavia, è del tutto estraneo allo stretto rapporto del collaborante con il suo capofamiglia, tale da rendere impensabile, oltre che del tutto superfluo, che Bontate mentisse a Marino Mannoia.

    Tornando, dunque, agli specifici rilievi mossi nell’Atto di impugnazione e nei motivi nuovi di appello sui singoli aspetti delle dichiarazioni di Marino Mannoia, la sentenza appellata ne esaurisce, in massima parte il contenuto.

    Giova, tuttavia, puntualizzare, per quanto attiene alla vicenda “patente Pinè Greco, che i difensori appellanti hanno stigmatizzato come un espediente per precostituirsi una giustificazione in caso di appurato mendacio (pag. 49 del volume II, capitolo V paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione) le riserve con cui il collaborante ha accompagnato la sua dichiarazione : <<...L'ultima notizia che io apprendo dal Bontate è che Bontate ottiene la patente e che l'interessamento è avvenuto da parte del dott. Contrada e che non è solo la sua patente, io credo di ricordare, ma non vorrei fare errore, che il Bontate stesso insieme al Girolamo Teresi, o comunque, o Bontate o G. Teresi, si sono premurati per il piacere di portarla loro stessi, di propria mano, la patente ad un altro personaggio di "Cosa Nostra", io credo di ricordare, ma ovviamente sono passati tanti anni, di ricordare anche quella persona si chiamava Pinè Greco, un uomo d'onore di Ciaculli>>. (Pagg. 10 e 11 trascrizione udienza 29-11-1994, concetto ribadito in sede di controesame).

    In realtà,la prima riserva posta dal Marino Mannoia verte non sul favore in sé, ma sulla identità del mafioso che ne fu beneficiario, individuato in Giuseppe Greco; indicazione confermata dll’esito delle indagini sullo svolgimento della pratica.

    La seconda, enunciata con le espressioni <> riguarda non l’intervento di Stefano Bontate, di per sé dato per certo dal collaborante, ma le modalità del diretto recapito del documento (anch’esso certo), e cioè un aspetto marginale della vicenda, per di più appresa de relato.

    Sotto altro profilo, i difensori appellanti hanno dedotto (pagine 50-52 del volume II, capitolo V paragrafo V.1) che:



    • sulla base dei documenti in atti non sarebbe dato << stabilire, accertare, desumere, arguire o sospettare semplicemente che il dott. Contrada abbia mai svolto un qualsiasi interessamento favorevole per la pratica della patente o per qualsiasi altro motivo per il mafioso Giuseppe Greco>>;

    • tenuto conto del tenore nella nota manoscritta redatta dal Questore Vincenzo Immordino in data 17 Gennaio 1980, con cui era stato espresso parere contrario alla restituzione della patente, doveva ritenersi che l’imputato, consultato nella qualità di dirigente ad interim della Squadra Mobile (:“sentito dirigente Mobile; sentito il dir. Misure di Prev.”), si fosse espresso in modo parimenti contrario;

    • l'istanza del Greco, datata 20 agosto 1979, risulta protocollata (e quindi, deve presumersi, pervenuta) con visto d'ingresso in Questura soltanto l’undici dicembre 1979, né il Questore Epifanio, "sua sponte", o perché interessato da Contrada o da altri, aveva chiesto - come avrebbe potuto - al dirigente del 1° Distretto una immediata risposta in modo da potere, a sua volta, inoltrare alla Prefettura l'istanza del Greco con parere favorevole;

    • i tempi di tale risposta, pervenuta in Questura il 28 dicembre successivo, quando lo stesso Epifanio aveva lasciato il suo incarico di Questore, dimostravano che l'interessato non nutriva alcuna favorevole aspettativa, nei riguardi di Contrada e Epifanio, separatamente o congiuntamente, per il buon esito della sua istanza.

    I medesimi difensori hanno osservato, inoltre, che, se fosse rispondente alla realtà la ricostruzione della pratica in argomento fatta nella sentenza <

    1. Il Prefetto di Palermo dott. Girolamo Di Giovanni;

    2. Il Questore di Palermo dott. Giovanni Epifanio;

    3. Il V. Questore Bruno Contrada, Dirigente della Squadra Mobile e CRIMINALPOL di Palermo;

    4. Il V.Questore dott. Carmelo Emanuele, Dirigente Ufficio Misure Prevenzione della Questura di Palermo;

    5. Il V.Questore dott. Francesco Faranda, Dirigente del 1° Distretto di Polizia di Palermo>> (ibidem, pag. 54).

    Le argomentazioni sin qui riassunte non intaccano, ad avviso di questa Corte, il nucleo essenziale della valutazione del Tribunale, e cioè l’esistenza dei riscontri estrinseci alla indicazione accusatoria del Marino Mannoia.

    Quel giudice, invero, ha individuato il riscontro individualizzante alla indicazione dell’imputato - all’epoca titolare del doppio incarico di Dirigente della Squadra Mobile e della Criminalpol - nella già ricordata circostanza, riferita dal teste Piero Mattei, della possibilità di accesso, all’epoca del fatto e senza alcuna traccia scritta, del personale di Polizia agli archivi esistenti presso l’Ufficio patenti della Prefettura.

    Tale elemento resiste alle obiezioni difensive. La richiesta di informazioni al I Distretto di Polizia, infatti, venne inoltrata a mezzo fonogramma, il giorno successivo alla data di protocollo dell’istanza, sì da presupporre la necessità di una pronta risposta, ed il I Distretto di Polizia rispose comunque in tempi assai brevi, trasmettendo le informazioni, favorevoli al Greco, dopo appena dodici giorni.

    Ulteriore riscontro alla indicazione accusatoria di Marino Mannoia è stato offerto dallo stesso Giuseppe Greco, il quale, come ricordato alle pagine 629 e 630 della sentenza appellata, nel corso del proprio esame ha ammesso di avere conosciuto superficialmente Stefano Bontate. Ha affermato di non sapere se fosse stato lui a fargli recuperare il documento, ed ha precisato che l’istanza da firmare gli era stata sottoposta da un suo conoscente, tale Pino Romano, successivamente ucciso negli Stati Uniti d’America (è sintomatico, a conferma della parziale reticenza del Greco, che egli non avesse escluso di essere stato beneficato da un capo mafia che ha sostenuto di conoscere superficialmente).

    D’altra parte, anche se nel processo sono emerse condotte di altri funzionari di Polizia - segnatamente il dottor Purpi ed il dottor Speranza - improntate al favoritismo nei riguardi del Bontate (sponsor dell’operazione “patente Pinè Greco”), nel periodo in esame quei funzionari non operavano più all’interno della Questura di Palermo, avendo il dottor Speranza (come dallo stesso riferito in sede di esame) diretto la sezione Rapine della Squadra Mobile sino al febbraio 1978, ed essendo stato trasferito il dottor Purpi nel 1971 prima al I° Distretto di Polizia nella via Roma ed in seguito, intorno al 1977, al Distretto di Polizia di via Libertà, fino all’epoca del proprio collocamento in pensione (cfr. pagine 425-426 della sentenza appellata).

    Né, parimenti, può pretendersi che Contrada esprimesse un parere apertamente favorevole al Greco. Senza dire, comunque, che l’indicazione “sentito il dirigente della Mobile; sentito il dir. Misure di Prev.” non autorizza ad inferire che l’imputato si fosse espresso nei termini così netti con cui ritenne di farlo il Questore Immordino.

    Infine, la ipotizzata necessità di un accordo tra cinque funzionari (il Prefetto, il Questore, l’odierno imputato, il Dirigente l’Ufficio Misure Prevenzione della Questura di Palermo, ed il dirigente del I Distretto di Polizia) è un argomento fuorviante, giacchè il il thema decidendum è se Contrada, per quanto le contingenze glielo consentivano, si fosse adoperato in favore del Greco perché riottenesse la sua patente, così facilitando un mafioso nei suoi spostamenti ed accrescendo il prestigio di Stefano Bontate.

    Considerazioni parzialmente diverse si impongono a proposito delle anomalie nella pratica di rilascio del passaporto allo stesso Giuseppe Greco, così riassunte dal Tribunale (pag. 635-636 della sentenza appellata):



    • in data 14/3/1978 il Dirigente della Divisione Polizia Amministrativa della Questura di Palermo richiedeva al Dirigente dell’Ufficio Misure di Prevenzione un parere circa l’opportunità di aderire alla richiesta di rilascio del passaporto avanzata dal Greco Giuseppe;

    • il giorno successivo, il 15/3/1978, con nota n° 90/5261 si rispondeva alla richiesta di informazioni comunicando esclusivamente che il nominato in oggetto risultava diffidato ed indiziato di appartenenza alla mafia, ma non si esprimeva alcun parere;

    • il giorno dopo ancora, il 16/3/1978, la Questura rilasciava il passaporto n° C 856019, valido per cinque anni per tutti i paesi (come si evince dalla nota della Questura di Palermo, in data 18/3/1978, categ. 22.B/77, intestata al Greco Giuseppe, indirizzata a vari uffici).

    La mancanza del parere, la fulmineità nel rilascio ed il fatto che, dal registro di consegne passaporti, alla data del 16/3/1978 ed in corrispondenza del nominativo del Greco Giuseppe non risulta apposta alcuna firma per consegna nè alcuna annotazione riguardante la persona che aveva ritirato il passaporto, costituiscono elementi sintomatici di un interessamento, apparendo non conducente l’obiezione difensiva secondo cui la pretesa al rilascio del passaporto ha natura di diritto soggettivo pieno.

    Tali elementi, tuttavia, non attingono autonomamente la soglia della gravità, cioè di una qualificata prossimità logica rispetto alla persona dell’imputato, né possono considerarsi alla stregua di riscontri in carenza di una specifica indicazione accusatoria del Marino Mannoia o di altri collaboranti sul rilascio del documento. Ciò, tuttavia, non inficia minimamente l’impianto accusatorio, trattandosi di uno spunto aggiuntivo rispetto alle propalazioni del collaborante, che il Tribunale ha ritenuto di valorizzare.

    Quanto alle censure riguardanti la vicenda del rilascio della patente di guida a Stefano Bontate si rinvia alla successiva disamina delle propalazioni del pentito Salvatore Cancemi.

    Analogamente, in ordine al presunto intervento del costruttore Angelo Graziano nel procurare un appartamento a Contrada ed al ruolo di tramite dell’imprenditore Arturo Cassina nella instaurazione di rapporti tra Stefano Bontate e l’imputato, si rimanda alla già operata disamina delle analoghe dichiarazioni di Gaspare Mutolo.

    Conclusivamente, mette contro rilevare come l’istruzione rinnovata nel primo dibattimento di appello non abbia introdotto elementi di sostanziale novità nella valutazione della attendibilità intrinseca, della attendibilità estrinseca, e del contributo del Marino Mannoia, positivamente verificate dal Tribunale, che ha avuto ben presente come il dato relativo alla successione nel tempo delle sue dichiarazioni imponesse di valutarle con maggiore prudenza <

    Questo principio è stato piu’ volte enunciato dalla Suprema Corte ed, in modo particolare nei confronti dello stesso Mannoia…>> (pagine 611-614 della sentenza appellata).

    CAPITOLO V
    Le censure riguardanti le propalazioni di Salvatore Cancemi

    Il Tribunale rilevava che Salvatore Cancemi, esaminato alle udienze del 28 aprile e del 10 ottobre 1994, aveva iniziato a collaborare con la giustizia nel luglio del 1993. A quell’epoca, ponendo fine alla sua latitanza, egli si era spontaneamente costituito presso una caserma dei C.C. di Palermo, autoaccusandosi di appartenenza all'organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" nella quale aveva fatto formalmente ingresso all’inizio del 1976 militando nella "famiglia di Porta Nuova".

    Rilevava, altresì, che, sin dal primo momento, il Cancemi era stato affidato ai Carabinieri del R.O.S., organismo di polizia giudiziaria differente da quello che aveva gestito i preliminari contatti e le investigazioni relativi alla collaborazione di Gaspare Mutolo (cioè la D.I.A.): escludeva, dunque, anche sotto questo profilo, l’ipotesi della costruzione artificiosa di una convergenza delle accuse.

    Il Cancemi, come si rileva dalla trascrizione del suo esame, assunto all’udienza del 28 aprile 1994 (pagine 41-42-43) aveva riferito di avere appreso, a partire dal 1976,di una stretta vicinanza dell’imputato a Bontate e Riccobono . La sua prima fonte era stata Giovanni Lipari, suo capo-decina e successivamente sottocapo della famiglia di Porta Nuova, capeggiata da Pippo Calò.

    Il Lipari, in particolare, prima che egli fosse arrestato (in data 22 maggio 1976), gli aveva fatto un generico cenno sulla disponibilità di Contrada ad elargire favori ad esponenti mafiosi. Ciò era avvenuto in un frangente in cui entrambi si trovavano nel Piazzale Danisinni ed egli stesso aveva manifestato il suo disappunto per non avere la patente di guida, ritiratagli nel 1971 a cagione di una misura di prevenzione.

    Scarcerato nell’agosto 1979, lo stesso Lipari, che lo aveva visto arrivare alla guida di una automobile, sapendolo privo di patente gli aveva rivelato che Contrada si era interessato di fare avere la patente di guida ed il “porto d'armi” a Stefano Bontate. Di tale disponibilità, tuttavia, il collaborante non aveva chiesto di avvalersi, attesa la sua qualità di semplice “soldato”.

    Pippo Calò, suo capo mandamento, aveva confermato questa circostanza, indicandogli l’odierno imputato come un poliziotto molto vicino a Stefano Bontate ed a Rosario Riccobono e fonte di informazioni in ordine a mandati di cattura ed altre notizie di interesse per l’organizzazione. Egli, comunque, aveva avuto modo di constatare la diffusione di questa notizia ("era come dire pane e pasta in Cosa Nostra che il Contrada era nelle mani di Cosa Nostra").

    Nel 1980 Giuseppe Zaccheroni, "uomo d'onore" della famiglia di Porta Nuova, gli aveva riferito che "c'erano altri poliziotti che erano della stessa cordata del dott. Contrada", cioè che, come lui, “mangiavano”, erano informatori, avevano rapporti con "Cosa Nostra", facendo, in particolare, il nome del dott. Ignazio D'Antone.

    Lo stesso Cancemi aveva riferito di avere appreso da Giovanni Lipari che Gaetano Badalamenti, all'epoca capo della "Commissione provinciale", era stato messo al corrente dei rapporti di Contrada con Bontate e Riccobono.

    Aveva chiarito che tale comunicazione al capo era necessaria perchè la notizia di eventuali contatti tra "uomini d'onore" e poliziotti, non preceduta da congrue spiegazioni, avrebbe potuto ingenerare il sospetto di una collaborazione con le Forze di Polizia, per la quale è prevista, all'interno di "Cosa Nostra", la pena capitale.

    Di notevole rilievo, inoltre, ad avviso del Tribunale, era apparsa la deposizione del collaborante nella parte in cui questi aveva riferito di avere continuato a sentire parlare da Pippo Calò dell’imputato, come persona a contatto con “Cosa Nostra”, almeno fino agli anni 1983-1984, e quindi in un’ epoca in cui, essendo stati uccisi Riccobono e Bontate, i suoi contatti con l’organizzazione non potevano avere come referenti tali soggetti.

    D’altra parte, la pur generica affermazione del Cancemi che si era verificato un processo di progressiva “appropriazione” - da parte dei “corleonesi” - dei rapporti con i referenti politico-istituzionali di Cosa Nostra, rapporti che negli anni ‘70 del novecento erano stati esclusivo monopolio di Bontate, Riccobono e Badalamenti, era stata precisata con l’affermazione di avere appreso in più occasioni da vari “uomini d’onore”, e segnatamente da Raffaele Ganci, capo della famiglia della Noce, così come da La Barbera, Biondino e dallo stesso Riina, che quest’ultimo era stato avvisato dai poliziotti di mettersi da parte a causa di particolari operazioni dirette alla sua ricerca. 20

    Il Tribunale correlava tale ultima affermazione alle dichiarazioni rese da altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Marchese - particolarmente vicino a Salvatore Riina - il quale aveva narrato di una specifica circostanza in cui l’imputato, con una tempestiva “soffiata”, aveva reso possibile il primo allontanamento dello stesso Riina dal suo rifugio in località Borgo Molara (di tale episodio si dirà appresso, a proposito delle propalazioni del Marchese).

    In sintesi, l’attendibilità intrinseca del collaborante veniva ritenuta positivamente verificata:



    • per la indiscutibile capacità del Cancemi di svelare i più rilevanti segreti dell’organizzazione criminale di cui aveva fatto parte (percorrendo un cursus honorum che lo avrebbe portato a ricoprire, all'interno della famiglia mafiosa di Porta Nuova", la carica di " capo decina" e successivamente dopo l'arresto del proprio "capo mandamento" Pippo Calò, avvenuto nel Marzo del 1985, quella di "reggente" del "mandamento", ed a partecipare in tale qualità alle riunioni della "Commissione Provinciale" di Palermo di " Cosa Nostra", massimo organo deliberativo della predetta associazione criminale, cfr. pag. 655 della sentenza appellata);

    • per la serietà della sua scelta, evidenziata dalla sua decisione di confessare il proprio ruolo di primo piano all’interno della “Commissione provinciale” e le proprie responsabilità in ordine a gravissimi fatti di sangue;

    • per la tempestività delle rivelazioni degli specifici episodi a sua conoscenza, coincise con l’inizio della sua collaborazione con la giustizia;

    • perché nessun altro collaboratore prima di lui aveva fatto cenno a tali specifici “favori” resi dall’imputato;

    • per l’impossibilità di ipotizzare che la chiamata in correità avesse trovato alimento in sentimenti di vendetta o in ragioni di millanteria (cfr pagine 742 e 758 della sentenza appellata).

    L’attendibilità estrinseca delle dichiarazioni, poi, veniva ritenuta - con riferimento specifico al rilascio della patente a Stefano Bontate, in precedenza revocata in conseguenza della sottoposizione alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale della P.S. con obbligo di soggiorno - anche alla stregua delle affermazioni di analogo contenuto riferite da Francesco Marino Mannoia. Queste, infatti, dovevano considerarsi dotate di specifico valore di conferma, in quanto provenienti da fonte diversa da quelle indicate dal Cancemi, e cioè proprio dal soggetto (Bontate) che di quell’interessamento era stato il diretto beneficiario, a fronte delle gravi anomalie e dei favoritismi oggettivamente emersi dall'esame della relativa pratica.

    Più in generale, concludeva il Tribunale <> (pag. 758 della sentenza di primo grado).

    *****

    Le censure concernenti le dichiarazioni di Salvatore Cancemi sono sviluppate:



    • nel Volume II, capitolo V, paragrafo V.1 dell’Atto di impugnazione, riguardante le accuse di interessamento nel rilascio della patente di guida e del “porto d’armi” a Stefano Bontate e l’indicazione di una “vicinanza“ dell’imputato a Bontate e Riccobono (pagine 70 - 130);

    • nel volume V capitolo V , paragrafo V. 1 dell’Atto di impugnazione, concernente la presunta taccia di "jucaturi" (giocatore) attribuita all’imputato (pagine 125-132).

    Esigenze di carattere sistematico impongono di muovere dal vaglio delle doglianze riguardanti l’iniziale indicazione di una “vicinanza“ dell’imputato a Bontate e Riccobono ed il senso della aggettivazione di "jucaturi".

    Deducono, in particolare, i difensori appellanti che il Cancemi <<..secondo le sue dichiarazioni, sarebbe entrato in Cosa Nostra all’inizio del 1976 e già da allora avrebbe saputo, direttamente da Giovanni Lipari (…)e da Calò Giuseppe (…) che il dott. Contrada era una persona molto vicina a Stefano Bontate e Rosario Riccobono (pagg. 41-42-43, ud. 28.4.1994)….

    Alla domanda successiva da chi e quando avesse appreso queste cose, ha risposto: “L’epoca dal 1976 in poi, direttamente da Giovanni Lipari e Giuseppe Calò...”(pag. 41. ud. 28.4.1994).

    Poiché il Cancemi è stato arrestato il 22.5.1976 ed è uscito dal carcere ad agosto 1979, poiché Cancemi è stato affiliato a Cosa Nostra - famiglia di Porta Nuova - all’inizio del 1976, le notizie sul dott. Contrada quale persona molto vicina a Bontate e Riccobono deve averle apprese tra gennaio e maggio 1976.

    Ciò premesso, è evidente che questa situazione di “vicinanza” di Contrada a mafiosi o di “assoggettamento” doveva risalire perlomeno a un po' di tempo prima per essere argomento di conversazione tra mafiosi come di un fatto ben conosciuto, tanto è vero che il Cancemi a queste sue due fonti (Lipari e Calò) ne aggiunge altre: “...e da qualche altro. Diciamo, c’erano diverse voci che si sentivano queste cose...”(pag. 41, ud. 28.4.1994)>>.

    L’osservazione, nei termini enunciati, non riflette la scansione temporale dei fatti narrati dal Cancemi, anche se se la narrativa della sentenza di primo grado potrebbe indurre a ritenere il contrario (pag. 644 : << Passando a trattare delle notizie in suo possesso sul conto dell'odierno imputato, il Cancemi ha riferito di avere appreso che il dott. Contrada era " persona molto vicina" a Stefano Bontate ed a Rosario Riccobono (cfr. ff. 41 e ss. trascr. cit.).



    Ha dichiarato di avere ricevuto tale informazione dal 1976 in poi direttamente da Lipari Giovanni….>>

    Il Cancemi, a ben guardare, ha riferito di avere avuto genericamente notizia dal Lipari, per la prima volta nel 1976, della disponibilità dell’imputato a rendere favori ad esponenti mafiosi.

    Ha soggiunto che, dopo la sua scarcerazione, e cioè dopo l’agosto 1979, questa notizia gli era stata confermata da più fonti: Lipari e Calò gli avevano parlato dell’interessamento dell’imputato per la patente di guida ed il porto d’armi di Stefano Bontate e del fatto che si era reso necessario giustificare, in seno alla “Commissione “ provinciale, i rapporti di Bontate e Riccobono con l’imputato, divenuti un fatto notorio (pagine 45-46 trascrizione udienza 28 aprile 2004:<>).

    In effetti, alla successiva richiesta del Presidente del collegio di chiarire meglio la cronologia dell’apprendimento delle notizie sull’imputato, il collaborante non si è detto certo di avere sentito pronunciare nel 1976, e non nel 1979 - in questo caso, a Pippo Calò - l’espressione “l’avi nelle mani Bontate e Riccobono” (pag. 145 trascrizione udienza 28.4.1994: <<CANCEMI S.: Ma.. signor Presidente... o qua o quando abbiamo parlato proprio del discorso della patente nel ‘79, questi sono stati i periodi, diciamo>>).

    Ritiene, tuttavia, questa Corte che, anche a volere accedere alla cronologia prospettata dalla Difesa (indicazione di una vicinanza a Bontate e Riccobono nel 1976), il narrato del Cancemi manterrebbe una sua coerenza.

    Ed invero, il collaborante Gaspare Mutolo ha riferito di avere visto l’odierno imputato, a seguito di alcuni appostamenti nella via Jung, alla fine del 1975, epoca in cui lo stesso era, ancora, considerato un nemico di Cosa Nostra.

    Tale attività di osservazione, però, non aveva avuto seguito.

    Non può escludersi, dunque, che la strategia di avvicinamento propugnata dal Bontate avesse prodotto i suoi frutti già nei primi mesi del 1976 - peraltro, i rapporti con Bontate si erano instaurati prima di quelli con Riccobono - e che il Mutolo non avesse avuto occasione di venirne a conoscenza.

    Analogamente, non vale ad infirmare l’attendibilità del collaborante il richiamo all’attività investigativa compiuta da Contrada nei riguardi del Riccobono e degli uomini della sua cosca.

    Sul punto, conservano validità le considerazioni svolte dal Tribunale in ordine agli specifici atti di Polizia Giudiziaria riferibili all’imputato dal 1976 in poi ed alle modalità ed alla paternità degli arresti di Salvatore Micalizzi e di Gaspare Mutolo (sia rinvia alle pagine 571-573 della sentenza appellata, nel capitolo riguardante le propalazioni del Mutolo, ed alle pagine 744-747, nel capitolo riguardante quelle del Cancemi). Senza dire che il sodalizio mafioso poteva ragionevolmente esigere quei favori che occasionalmente capitava di potere elargire e che era possibile dissimulare, offendo all’esterno una immagine di efficienza.

    Il Tribunale, d’altra parte, ha anche rintuzzato una obiezione difensiva che affiora nei motivi di appello (pagina 114 Volume II capitolo V, paragrafo V.1) e cioè che, nel periodo in cui, secondo il Cancemi, Contrada avrebbe avviato gli iniziali contatti con Stefano Bontate (il 1976), questi era ancora al soggiorno obbligato in un comune lontano da Palermo.

    Come rilevato nella sentenza appellata, infatti, dalla documentazione contenuta nel fascicolo permanente della Questura ed in quello del I° Distretto di Polizia prodotti in atti, è emerso che, per tutto il periodo del soggiorno obbligato, ed anche nel 1976, Stefano Bontate aveva fruito di numerosissimi permessi che aveva trascorso a Palermo nella propria abitazione e che, quando nel Giugno del 1976 gli era stato revocato l’obbligo di dimora nel comune di Cannara (prov. Perugia) con imposizione nei suoi confronti della presentazione bisettimanale all’Autorità di P.S., egli era stato persino autorizzato a trasferirsi in noti alberghi del circondario per trascorrervi la propria villeggiatura.

    Quanto, poi, agli apprezzamenti di “ femminaro”, “giocatore”, “sbirro che mangia” , non può che prendersi atto della assoluta irrilevanza del primo rispetto al thema decidendum e della assoluta mancanza - nel narrato e nelle intenzioni del Cancemi - di indicazioni volte a specificare il grado di concretezza del secondo e del terzo.

    Del resto, la lettura stessa della trascrizione dell’esame del Cancemi rivela come si tratti di indicazioni estremamente generiche e di contorno, che rivelano la loro natura di possibili spiegazioni - date al collaborante dai suoi referenti - circa ipotetici moventi (mai accertati) delle condotte collusive dell’imputato21:

    A questa stregua, non possono che essere condivise le osservazioni con cui il Tribunale ha ridimensionato la portata di quelle espressioni, ritenendole irrilevanti sia ai fini della valutazione di attendibilità del collaborante, sia, soprattutto, ai fini della prova del concorso esterno in contestazione.

    Venendo all’accusa di interessamento nel rilascio della patente di guida a Stefano Bontate, benchè il materiale logico riversato nell’atto di appello sia pressoché esaurito dalla organica trattazione operata dal Tribunale (pagine 691-727, cui va fatto rinvio), mette conto riportare i punti essenziali del costrutto difensivo.

    Il Bontate, deducono i difensori appellanti, non ebbe a godere di alcun favoritismo da parte della Questura, né in pendenza della misura di prevenzione, né a seguito della cessazione di essa in data 23 febbraio 1977.

    In primo luogo, infatti, per riottenere la patente di guida egli si era rivolto ad un politico (l’on. le Ventimiglia, Vice presidente della Regione Sicilia) perché lo raccomandasse al Prefetto, dott. Aurelio Grasso.

    In secondo luogo, a seguito della sua istanza la Prefettura richiese alla Questura se la sentenza di assoluzione del Bontate in appello del 22.12.1976 all’esito del processo dei “114” - richiamata dallo stesso Bontate nella istanza di rilascio della patente di guida in data 28.2.1977 - si riferisse ai medesimi fatti che avevano formato oggetto di valutazione in occasione dell’applicazione del soggiorno obbligato.

    Ora, nota n°90/1534 M.P. del 16.1.1978, a firma del Questore Epifanio venne risposto che si trattava di fatti emersi in epoca successiva, e quindi non superati dal giudicato assolutorio, cosa che, in concreto, inibì il rilascio della patente di guida.

    Il Tribunale, inoltre, secondo i difensori appellanti, avrebbe liquidato con una motivazione non appagante un ulteriore indicatore della impossibilità, per il Bontate, di contare sulla compiacenza degli ambienti della Questura.

    Nel sottofascicolo della Squadra Mobile relativo a Bontate Stefano (pag. 93 e seguenti volume II, capitolo V, paragrafo V.1 dei motivi di appello) <>.

    Il fatto che Bontate si fosse rivolto ad un Ufficiale dei Carabinieri, oltre a significare che con lui aveva rapporti tali da chiedergli un simile interessamento, avrebbe dovuto indurre il Tribunale ad escludere che egli avesse, quantomeno fino al 20 febbraio 1978, e quindi dopo il 1976 (anno indicato dal Cancemi come epoca delle sue prime informazioni) rapporti “amichevoli” o “collusivi” con Contrada.

    Peraltro, proprio il 20 febbraio 1978 l’imputato era nel suo ufficio, come si desume dalla annotazione sulla sua agenda da tavolo del 1978, alla pagina corrispondente:<< Ha telefonato dr. Rossi - Bologna - comunicato omicidio Garda Baldassarre” - S. Maria Co’ di Fiore (Ferrara)>>.

    Se Bontate, cioè, <>.

    A questa stregua, <> sarebbe l’argomentazione del Tribunale secondo cui (pagina 750 della sentenza) <>. Essa, infatti, avrebbe potuto avere <> (pag. 99, ibidem).

    Ulteriore aspetto dell’impianto difensivo è la dedotta assenza di riscontri individualizzanti.

    Le risultanze processuali, ad avviso dei difensori appellanti <

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