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Sì, verrebbe da dire, tutto qui


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Dici "appalti" e l'attenzione generale già si sgonfia. Racconti delle immense ricchezze accumulate con la droga, con la violenza, e ti senti rispondere: Appalti, droga? Tutto qui? Dici corruzione, voto di scambio, e sembra che stai parlando di Marte.

E' questa allora la mafia, appalti e droga? Contiguità e collusione con le amministrazioni locali, sindaci, assessori e qualche consigliere provinciale? Tutto qui?

Sì, verrebbe da dire, tutto qui.

C’è una provincia in Italia dove lo Stato da sempre è Cosa Nostra, anzi Cosa Loro. Dove per costruire il nuovo Palazzo di Giustizia ci sono voluti decenni. Dove anche i fidanzamenti e i matrimoni sono regolati dalle regole dell’onorata società. Dove potrebbe anche non essere necessario leggere atti giudiziari, intercettazioni, relazioni della Commissione antimafia, saggi e articoli di stampa per farsi un’idea di cosa si intende per mafia. Basterebbe vedere il numero delle estorsioni denunciate per capire quante non lo saranno mai. Basterebbe contare gli sportelli bancari in tutta la provincia e vedere all’alba quanti ventenni affollano i pullman che salgono la penisola e arrivano fino in Germania, Svizzera, Belgio. Basterebbe sapere delle decine, centinaia di milioni di euro che ogni anno arrivano dalla Unione europea e poi andare negli uffici di collocamento, nelle agenzie interinali, nei luoghi dove si affolla quel umanità dolente e rassegnata e capire che qui, nella gomorra di Cosa Nostra, tutto parla di mafia. Tutto è povertà che produce ricchezza che riproduce altra povertà. Sono quelle imprese taglieggiate che chiudono e scompaiono, quelle imprese del malaffare che ingoiano soldi pubblici e spariscono, ci sono quei ragazzi, quella massa di sfruttati, i veri latitanti, quelli che fuggono.

Se da sempre Cosa Nostra ha saputo sintetizzare passato e futuro, tradizione e modernità, violenza ancestrale e bestiale imprenditoria, a Trapani e nella sua provincia questo accade da decenni, praticamente da sempre.

Perché qui è nata l’associazione Cosa Nostra, qui ha costruito le sue vocazioni, da qui è partita per “colonizzare” gli States, qui si è sempre sentita al riparo, protetta, qui ha messo a punto militarmente, e in parte politicamente, l’attacco stragista di Milano, Firenze e Roma, dopo le stragi del 1992 che poco distanti da trapani hanno mietuto le loro vittime. A Trapani Cosa nostra ha fissato da decenni e decenni il suo zoccolo duro.

E’ da qui, dalle meravigliose coste che vanno da Castellammare del Golfo fino a Mazara del Vallo, dai templi greci di Selinunte al teatro antico di Segesta, che è nata la vecchia mafia ed è rinata come un’araba fenice la nuova mafia. Che contratta quando è ora di contrattare, che spara quando è ora di sparare, che vota bene quando è ora di votare bene. Sempre al passo con i tempi che cambiano.

Non è una questione di impunità: si può finire dentro, anche per sempre, e continuare a comandare, a dare la linea. Come Mariano Agate, come Andrea Mangiaracina. Che parlano, fanno segni ai parenti, mandano pizzini dal carcere. Ci sono ancora e si fanno sentire dall’ex-inferno del 41-bis.

Ma la mafia trapanese è sopratutto una questione di numeri e di sangue. In tutta la provincia di Trapani ci sono circa 100 arresti l’anno per associazione mafiosa; in proporzione agli abitanti è come se nella sola Palermo ce ne fossero oltre mille l’anno. Ed è lo stesso sangue da sempre quello che scorre nelle vene della classe dominante criminale a Trapani: Bonanno,Magaddino, Milazzo, Messina Denaro, Virga, Bastone, Mangiaracina, Agate… nonni, figli, fratelli, nipoti, cugini. E’ il tributo di sangue a Cosa Nostra, all’ideologia del potere e del dominio, sempre, a tutti i costi. Se ci nasci dentro sei segnato, se ne sei fuori, o entri o conviene lasciar perdere, cercare dignità altrove.

Cosa Nostra trapanese è un unicum che ha una doppia origine, storica e funzionale insieme.

Non è il progresso civile, con le sue storture e le sue vittorie, che permette di indagare il fenomeno criminale ma il suo contrario. E’ il fenomeno criminale che disegna i confini della storia civile e incivile di questa provincia sotto ogni aspetto; ne traccia il progresso economico, politico, sociale e antropologico. Le chiavi della storia del novecento a Trapani e nella sua provincia sono in mano a Cosa Nostra, gli affiliati sono insieme i protagonisti e i narratori.

Se la capitale della mafia è stata, fino ai primi anni ’80, a Palermo e poi si trasferirà nelle campagne, tra i viddani di Riina diventando il capoluogo solo terra di conquista, a Trapani il bastone del comando non è mai passato di mano. A guardare il curriculum di Francesco Messina Denaro e Vito Mangiaracina, dei Bonanno e degli Agate, si capisce che loro erano i corleonesi ante-litteram, prima che quei picciotti di paese facessero parlare il mondo. Perché se a Palermo e poi a Corleone ha trovato sede il governo di Cosa Nostra, a Trapani ci sono, da sempre, il ministero degli Esteri dell’onorata società e anche quello del Tesoro. E’ la storia di Cosa Nostra che racconta l’unicum trapanese. Lo ha sintetizzato bene l’ultima gola profonda di Cosa Nostra, Antonino Giuffré, una vita spesa accanto a Francesco Messina Denaro e Bernardo Provenzano:

Oggi la mafia per sopravvivere deve ritornare indietro e cercare di correre ai ripari, per non rifare gli errori che ha fatto perché la storia appositamente insegna questo, e iniziare. E niente di strano che sta iniziando daccapo dallo “zoccolo duro”, se si può dire, siciliano, che è Trapani che a sua volta gode di tanti altri appoggi”.

Per questo motivo, racconta il pentito, “si è deciso di ritornare alle origini”

La nuova mafia, quella che Giuffré ha visto nascere dopo le stragi, dopo gli arresti dei boss, dopo le decine di pentiti, ha bisogno di “studiare” ripartendo dal passato, “perché non c'è cosa più pericolosa di un mafioso ignorante nel suo settore. Non parlo come cultura che dev'essere un universitario o laureato, ma nel suo settore specifico: mafia. Ragion per cui capendo questo e che lì c'è un buon laboratorio di preparazione, il discorso può essere perfettamente attuale e importante”. Perché “Trapani - racconta ancora Giuffré - compresa Castellammare, é una delle zone più forti. Ma non solo é più forte, é una delle zone più forti, anche più sana, diciamo, da un punto di vista che non ha ricevuto grosso modo ... da parte delle forze dell'ordine”.

Qui è avvenuta la prima guerra di mafia, a Castellammare del Golfo, alla fine degli anni 20, utilizzando, in anticipo di qualche decennio, il metodo della “lupara bianca”; qui si è manifestato il primo “pentito” della storia dell’organizzazione, Melchiorre Allegra, detto Ione, un medico che esercitava nel paese di Castelvetrano, oggi feudo dei Messina Denaro, che raccontò, in presa diretta, i riti e i “tic” dell’onorata società. Morì nel suo letto, senza vendette, di morte naturale, permeato di un alone di intoccabilità.

Sempre da Castellamare si posero le basi per la nascita del primo network mafioso internazionale. A strutturarlo fu Giuseppe Bonanno, Joe Bananas, il sogno incarnato di rendere legale l’economia mafiosa, il primo e unico boss, se si eccettua Nick Gentile, a scrivere la sua autobiografia . Da qui si intravede la modernità di Cosa Nostra, la capacità di innestarsi nel tessuto sociale ed economico di un paese pur mantenendo intatta la “propria tradizione”. La ricchezza dei contatti con l’estero, Stati Uniti, Canada e Venezuela su tutti,ma anche Australia, Belgio, Svizzera, Francia, è stata ed è una delle chiavi del successo della mafia, di quella di Trapani in particolare.
Antonino Giuffré ha raccontato perfettamente questa bidimensionalità di Cosa Nostra trapanese al FBI: “quel vincolo strettissimo che le prime potenti cosche del trapanese avevano con i picciotti di oltreoceanoè un vincolo di sangue che parte dalla Castellammare degli anni 20 e 30 e che ritorna indietro, alle sue radici in questi ultimi anni…”
I boss trapanesi decisero, fin dagli anni 20, di sfruttare l’unica ricchezza della zona, l'emigrazione. Mandavano i picciotti all'estero e ne ricevevano i loro successi, in termini di conoscenze, traffici, amicizie. “Da Trapani partivano ma a Trapani ritornavano tante cose e persone importanti” dice sempre Giuffré. La camorra, in questo senso, ha fatto il percorso inverso – come ha raccontato Roberto Saviano – innervando affari e cosche all’estero non avendo però una tradizione forte alle spalle. Cerca affari e chi gli permette di farli, ma non il potere.
Questa risorsa venne perfettamente gestita e sfruttata, posta come base di un accordo che dura da oltre cinquanta anni. La centralità della mafia trapanese venne riconosciuta a partire proprio da questa sua particolare vocazione “internazionalistica” nel vertice dell’Hotel delle Palme di Palermo tenutosi alla fine dell’ottobre del 1957.

Per cinque giorni i boss siciliani e americani si confrontarono e misero in piedi la struttura di un organizzazione i cui confini sono rimasti gli stessi. Per cinque giorni il boss Joe Bonanno strinse mani, incontrò vecchi amici e ne conobbe di nuovi, lasciandosi andare a pranzi luculliani. Era ospite di un albergo storico: era stata la residenza della famiglia inglese dei Whitaker, di Richard Wagner e dello scrittore Raymond Russel ma soprattutto, in epoca più recente, era stato il quartiere generale alleato dopo lo sbarco del '43, dove venne attuato il piano di utilizzo dei mafiosi in chiave anticomunista.


Quel albergo simboleggiava il patto, secondo alcuni scellerato, per altri benedetto, che faceva di Cosa Nostra l’avamposto dell’occidente contro l’infedele comunismo, una sorta di Gladio criminale.

La questura di Palermo sapeva perfettamente che lì si trovava il ghota della mafia, anzi della criminalità organizzata come veniva chiamata nei rapporti di polizia dell'epoca, ma rimase a guardare. Facevano parte della compagnia i cugini Galante, John Bonventre, Frank Garofano, Vito Vitale e Gaspare Magaddino arrivati dagli States con il padrino Bonanno. Alle Palme trovarono Giuseppe Genco Russo, che aveva da poco preso lo scettro da Calò Vizzini, Vincenzo Rimi, Cesare Manzella, Calcedonio Di Pisa e, secondo alcuni, il giovane Tommaso Buscetta. In quei giorni maturarono due scelte: quella di dar vita alla commissione regionale, l’esecutivo di Cosa Nostra, e stabilire le rotte della droga. Decisioni che sopravvivono ancora oggi.

Nella mappa della commercializzazione della droga e il riciclaggio dei soldi sporchi, la mafia trapanese si ritagliò un posto d’onore. I primi trafficanti di eroina, le prime notizie di riciclaggio nell’edilizia e nell’acquisto di terre, il do ut des tra amministrazioni locali e mafiosi avviene da quel momento e in quella provincia, per prima. Tutto lì era più facile: il controllo era totale. Il monopolio si estendeva alla vita politica, con la presenza rassicurante di Bernardo Mattarella, incontrastato leader di una DC che sfiorava il 65%;

un’economia debolissima che fu felice di arrendersi perché gia apparteneva alle famiglie del latifondo che a loro volta avevano come amministratori mafiosi doc, come don Ciccio Messina Denaro; un tessuto sociale disastrato da secoli di ignavia, soprusi e miseria che aveva finito con lo svuotare i paesi con l’emigrazione. Ed era monopolio non soltanto l’uso della forza e la rappresentanza politica ma anche la capacità di imporre tributi. Roba da Medioevo. A incarnarlo erano i cugini Salvo: imprenditori, banchieri, ma soprattutto esattori,ma non della mafia, anche se punciuti lo erano tutti e due, Nino e Ignazio, ma dello Stato. Dalle esattorie che gestivano traevano un dazio del 10%.


Un calcolo per approssimazione è stato fatto dalla Guardia di Finanza alla metà degli anni ’90; secondo un rapporto oltre un terzo della droga arrivata in Italia, fin dagli anni ’50, è sbarcata sulle coste trapanesi. Non sorprende, allora, come nelle più importanti operazioni internazionali le famiglie trapanesi siano state costantemente associate al vertice della cupola, prima dominata dai palermitani poi dai corleonesi. Il motivo per cui la mafia trapanese è costantemente al centro della cupola è data dall'essere sempre associata alle più importanti operazioni internazionali: e questo, a sua volta è dipeso dal fatto che a Trapani si siano svolti i più importanti traffici di droga. Sulle coste arrivavano i grandi carichi dall'estero, all'interno operavano le raffinerie di droga come quella di Alcamo scoperta il 30 maggio 1985. Leggendario rimane l'arrivo sulle coste di Castellammare della nave Big John con oltre 600 kg di coca nell'inverno del 1988, operazione rivelata dal pentito Joseph Cuffaro; quel carico era il suggello al rapporto con il cartello di Medellin che avrebbe fornito in esclusiva a Cosa nostra la propria merce, pagata sia in contanti che in eroina, e che prevedeva l'accordo dei mafiosi del nord Europa per investire i proventi sudamericani nelle loro attività.
A partire dal 1984 Cuffaro mise i locali della sua fabbrica di ventilatori per soffitti di Miami a disposizione della rete dedicata al traffico di cocaina organizzata dalla mafia.

L’obiettivo era quello di disfarsi di una buona parte dell’eroina proveniente da Oriente, che in quel periodo aveva iniziato la sua parabola discendete sul mercato, senza però chiudere i vecchi rapporti con le organizzazioni siriane, turche e thailandesi; nello stesso tempo bisognava gareggiare con l’espansione dei nuovi cartelli del narcotraffico centro-americani, portoricani soprattutto, che invadevano il mercato statunitense e si apprestavano a farlo con quello europeo. Cosa Nostra avrebbe assunto direttamente ed in situazione di monopolio l'attività di importazione della cocaina dalla Colombia, tanto che i rappresentanti del cartello di Medellin si erano già impegnati a non utilizzare loro corrieri per l'esportazione in Italia.

Fino alla metà degli anni ’70 in Sicilia l’eroina arrivava già raffinata; dai laboratori della Turchia, della Siria, del Libano e da quelli del clan dei marsigliesi. Poi avvenne il salto di qualità e si diede vita ad una vera e propria scuola di mafia. Alcuni picciotti vennero mandati a fare degli stage all’estero e lì appresero il mestiere della raffinazione. Le famiglie più importanti avevano il loro chimico di fiducia: tra i più bravi ci sarà Francesco Marino Mannoia, che prima lavorerà per il capo della cupola Stefano Bontade, poi per i corleonesi. Gli stages venivano organizzati dalle famiglie di Cosa Nostra trapanese, quasi tutte originarie di Castellamare del Golfo.
Quella dei soldi della droga, del riciclaggio, era una fissazione di alcuni investigatori.

La pista dei soldi, veniva chiamata. Il ciauro, l’odore come si dice in Sicilia, era, ed è, fortissimo nelle coste e nelle campagne trapanesi.


Veniva dai pescherecci di Mazara del Vallo, dalle navi che portavano calcestruzzo a Trapani e Castellamare ( in una delle province che ha la maggior produzione in Italia e il maggio numero di imprese finite confiscate…) imbottite di morfina base e coca, e si propagava nelle campagne di Alcamo, della Valle del Belice, di Marsala, dove furono istallate almeno cinque raffinerie, tra gli orti e i vigneti.

Ciaccio Montalto, giudice istruttore a Trapani , Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Cesare Terranova e Gaetano Costa, procuratore della Repubblica, erano tra quelli che lo sentivano quell’odore. E, come ha scritto Carlo Lucarelli, anche per questo “erano già morti, non lo sapevano, ma erano già morti”.

Non c’era bisogno dei corleonesi per avere i contatti buoni, né dei palermitani, definiti “scassapagghiari”, buoni a nulla e vanesi; perché le cosche di Trapani ai rapporti esteri ci hanno sempre tenuto e chi li vuole sfruttare deve bussare alla loro porta.

Ciaccio Montalto lo aveva capito bene. Nino Giuffré lo spiegherà venti anni dopo al procuratore Piero Grasso: “ Trapani é un punto di incontro tra i Paesi arabi e l'America. Le posso tranquillamente dire che oltre Castellammare, oltre ai traffici normali, droga e tutto il resto, diciamo che é un punto dove si incontrano diverse componenti che girano attorno alla mafia. È un punto di incontro della massoneria. É un punto di incontro, in modo particolare intendo riferirmi a dei Servizi segreti deviati, cioè é un punto di incontro particolarmente ricco e particolarmente pericoloso principalmente per gli Stati Uniti, in modo particolare del mondo arabo".


Il reticolo degli affari con il medio-oriente e la Turchia era impressionante ed entrerà a far parte di alcune delle più importanti inchieste della magistratura: quella sul commercio di armi e droga compiuta da Carlo Palermo, il procedimento Pizza Connection avviato dal pool palermitano di Falcone e Borsellino e infine quella sull’attentato a Papa Woytila istruito da Rosario Priore.

I misteri trapanesi sono legati a questi rapporti che Cosa Nostra intrattiene da decenni –come spiega Giuffré; rapporti che alcuni vorrebbero occulti e che invece sono solo riservati, che si manifestano in luoghi pronti ad accogliere chi ha amicizie e potere da portare in dono e da ricevere. La trimurti mafia-servizi segreti-massoneria.


"C'era anche qualcosa che é andato oltre Cosa Nostra, un rapporto che é durato 40 anni e c'è stato qualche cosa che li ha legati all'inizio che poi sono andati sempre perfettamente d'accordo – racconta ancora Giuffré all’FBI per spiegare la potenza della mafia trapanese - Tutto questo amore, tra virgolette, che il Riina aveva per questa zona era appositamente che c'è qualche cosa di molto importante. Questo “qualcosa di molto importante”, appositamente, é Castellammare. Castellammare è stata anche una miniera di notizie, che poi arrivano tramite Cosa Nostra, anche a livello di Servizi segreti, cioè è stato tutto un punto, e lo é, strategico importantissimo…cioè hanno trovato rifugio, punto di incontro tutte le persone in ombra più importanti per un lunghissimo periodo, e a livello massonico e a livello di Servizi segreti. Cioè, sotto ci sono parecchie cose molto molto molto importanti e pericolose. Tranquillamente possiamo dire che é il punto strategico
E allora bisognerebbe raccontarla questa favola dietrologica, le cui uniche realtà, queste sì inconfutabili, rimangono le raffinerie di droga e gli sportelli bancari – 0,44 per ogni mille abitanti, una percentuale da paradiso fiscale dove affluiscono il 40% dei depositi di tutta l’isola – i comitati d’affari e le logge massoniche coperte, inaugurate dal gran maestro Licio Gelli, dove si incontravano mafiosi latitanti e a piede libero, politici ed imprenditori, uomini d’affari trapanesi e oscuri trafficanti bulgari e turchi. Questa realtà da spy story fatta di aeroporti militari abbandonati di giorno e affollati di notte, di basi di Gladio e comunità di recupero di tossicodipendenti come la Saman. Questa favola dietrologica che odora di paura e morte: quella di Ciaccio Montalto e del giudice Giacomelli, di Mauro Rostagno, di Barbara Asta e dei suoi due figli: tutti delitti dove se c’è il colpevole è la Cupola ma se si chiede il movente, la giustizia allarga le braccia e sembra dire, “che bisogno c’è di sapere il motivo, è la mafia”.

Perché si può morire di mafia, come è morto l’agente di custodia Giuseppe Montalto, sparato in faccia davanti alla sua famiglia, e forse darsi pace, perché si conosce il motivo.

Ma rimane incredibile che ad oggi non si conoscano i moventi della strage di Pizzolungo contro Carlo Palermo, di quelle sventagliate di mitra contro Ciaccio Montalto che rimane lì esanime dentro la sua macchina per tutta la notte, in mezzo ad un paese che non fa nulla, che non chiama neanche un autoambulanza. Non si sa nulla di chi e soprattutto del perché qualcuno tende un agguato a Mauro Rostagno.

Si può morire come Boris Giuliano, mentre si beve un caffè dopo notti passate a studiare le matrici degli assegni, le valige di droga sequestrate all’aeroporto, eroina troppo pura per venire dal Medio-oriente, eroina che sapeva di Sicilia. Si può morire come l’agente Nino Agostino, di giorno un poliziotto come tanti, la notte inviato speciale nei paesi del trapanese a cercare i santuari intoccabili.


Si può morire come Antonella Bonomo, donna del capo mafia Vincenzo Milazzo. Torturata e strangolata, con un bambino in corpo, perché qualcuno aveva il sospetto che entrambi

intrattenessero rapporti con un agente del Sisde. Oggi la Procura di Palermo ha identificato quel contatto e sospetta che i vertici del servizio civile sapessero in anticipo della strategia terroristica di Cosa Nostra perché proprio Milazzo l’avrebbe avversata e per questo fu anche lui eliminato.

E si può decidere di morire, solo perché si è nati nel posto sbagliato, come Rita Atria, dalla parte sbagliata, in una famiglia di mafia, a Partanna: nonno, padre, fratello, tutti punciuti. Rita che aveva visto in Paolo Borsellino il padre, la famiglia che non aveva mai avuto, che non l’aveva mai protetta. E quando anche questa viene ridotta in cenere, decide che nulla ha più senso.

Estate del 1950, cortile De Maria in via Mannone a Castelvetrano. Nella città dei campieri mafiosi Messina Denaro si compie il primo dei delitti del dopoguerra frutto, oramai non ci sono più dubbi, delle commistioni tra Stato e mafia. Il bandito Giuliano viene trovato morto, volto a terra, nello sterrato del cortile. Canottiera intrisa di sangue, a terra nemmeno una goccia del suo sangue. Ucciso, dicono, dagli agenti che lo braccavano. Così fu raccontato per i cronisti che giunti da tutta Italia presidiarono la zona. Giuliano ucciso dai suoi compari si scoprì presto, Aspano Pisciotta, il suo braccio destro lo uccise per poi lui venire ucciso con un caffè all’arsenico mentre era in carcere all’Ucciardone di Palermo. Un delitto che fece guadagnare potere alla mafia, che più accumulava segreti, più era protagonista di commistioni, più si infiltrava nel tessuto sociale dell’isola, per arrivare poi dentro le banche, le istituzioni, l’industria. 



Una decina di anni dopo altro mistero, altro giallo. La bomba piazzata nell’aereo di Enrico Mattei il presidente dell’Eni. Il velivolo decollò dalla Sicilia con dentro l’ordigno. Una morte che più che alla mafia serviva ai grandi potentati economici che gestivano il petrolio e dei quali Mattei era diventato il nemico pubblico numero uno. Erano gli anni in cui le rotte tra la Sicilia e i paesi Arabi sono parecchio frequentate, scambi anche e soprattutto illeciti, armi, droga. Anche dall’Est europeo si guarda alla Trinacria, le rotte commerciali sono le stesse sulle quali viaggia lo stupefacente. Le scopriranno negli anni ’80 due magistrati, una lavorava a Trento, Carlo Palermo, un altro a Trapani, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Montalto fu ucciso il 25 gennaio del 1983, Palermo sfuggì ad un agguato di mafia, una bomba al tritolo piazzata dentro un’auto a Pizzolungo, il 2 aprile 1985, morirono Barbara Rizzo Asta ed i suoi due figli, i gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe. Palermo e Montalto senza parlarsi si erano imbattuti in due nomi, Karl Khlofer e Nanai Crimi, altoatesino, narcotrafficante il primo, capo della mafia trapanese il secondo.  

La mafia è in contatto con ambienti esteri, i Messina Denaro, quelli di Castelvetrano, Francesco, il “patriarca” della mafia belicina, campiere delle più famose famiglie nobiliari e latifondiste di Trapani, come i D’Alì, i Piacentino, gli Aula, non a caso è soprannominato il “ministro degli Esteri” proprio per i suoi contatti con i paesi nord Africani e Arabi. L’Italia teme l’influenza di questi paesi ma deve essere cauta, il presidente del Consiglio di quegli anni è Giulio Andreotti, uno di quelli che di facciata è uomo alleato col Medio Oriente, ma dietro le quinte tenta di controllare le mosse di quella parte del mondo che è stata sempre in ebollizione. La mafia è lo strumento giusto per controllare senza tanta diplomazia. L’estrema destra è poi quella che con il terrorismo mediorientale va in un certo senso a braccetto, e in

Sicilia ci sono i campi para militari per fare venire ad esercitare i terroristi italiani e stranieri. La mafia fa da garante, in cambio di droga, esplosivi e armi. In tutto questo in Sicilia però si continua a morire. Cadono uomini dello Stato, vengono dilaniati da autobombe i capi mafia, vengono uccisi i giornalisti, quelli che indagano anche sulle trame nere come Spampinato, De Mauro, o sulle grandi connessioni mafiose come Mario Francese, Pippo Fava, per fare alcuni nomi. Avvengono sequestri anomali, come quello dell’esattore Luigi Corleo di Salemi, sequestro che dopo il dolore farà la fortuna dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, anche loro di Salemi, potenti uomini della Dc. Quando negli anni ’80 il Governo Spadolini decise di mettere mano ai guadagni degli esattori Salvo, il governo del leader repubblicano nello spazio di ore si sciolse.   In Sicilia dagli anni ’50 in poi, dalla morte del bandito Salvatore Giuliano, si è combattuta, e si combatte, una continua guerra, tanto che non a caso Paolo Borsellino diceva che la supremazia dello Stato, la democrazia e la libertà democratica, la si difendono facendo ogni giorno la guerra alla mafia in Sicilia, e Leonardo Sciascia preoccupato parlava anche della famosa “linea della palma” che poco a poco ha spostato in Europa i margini del territorio governato a questo punto non dalla mafia, ma dalle “mafie”. Uno Stato che però dentro aveva i suoi nemici, politici, imprenditori, deputati e ministri, assieme a vescovi e cardinali, erano quelli che nei salotti ospitavano i mafiosi, tanto rispettati e riveriti. 
 
 In Sicilia si racconta che le cellule di Gladio arrivarono negli anni ’80. La struttura militare che doveva difendere l’Italia da una possibile invasione dell’Est europeo, in Sicilia, in un punto lontanissimo dalle frontiere dell’Est, aveva invece le sue basi già dagli anni settanta. Addirittura in provincia di Trapani di basi Gladio ne aveva ben quattro, una addirittura nella roccaforte comunista di Santa Ninfa, quando a comandare la caserma dei

carabinieri del paese belicino c’era un maresciallo tutto d’un pezzo, Giuliano Guazzelli, ammazzato poi nel periodo delle stragi ad Agrigento. Un delitto che fece pubblicamente inorridire il giudice Paolo Borsellino. Come se avesse compreso che quella non era una vendetta per le indagini commesse. Ma forse qualcos’altro. Era il periodo in cui il dialogo sottobanco con le istituzioni la mafia aveva decido di interromperlo. E mandava segnali. Segnali di morte. Nel trapanese Gladio aveva una pista dove faceva atterrare aerei super leggeri, la stessa pista, dalle parti di Castelluzzo, in un punto in cui i radar non vedono niente, che secondo i pentiti della mafia siculo americana era quella utilizzata per fare arrivare la droga da raffinare. E come ha raccontato il pentito Francesco Marino Mannoia in provincia di Trapani non solo c’erano le raffinerie stabilmente impiegate, ma anche quelle mobili. 



Gladio come struttura del “dialogo” tra la mafia e lo Stato. Non è da escludere. Tenere sotto attenzione i movimenti in Medio Oriente e in Nord Africa per lo Stato può avere significato pagare un prezzo.
Un prezzo alla mafia che si è messa di mezzo, ha aperto i suoi canali. Ha giocato al solito con più mazzi di carta, talvolta, e non di rado, facendo i lavori sporchi. Eliminando i soggetti scomodi.  Ai magistrati di Trapani che negli anni '90 indagavano su Gladio venne preso a mancare una «pedina» importante, il capo del «Centro Scorpione», il maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi, ucciso, nel 1993, in circostanze misteriose in Somalia dove era andato in missione. Si disse durante un improvviso conflitto a fuoco, ma tanti dubbi sono rimasti. Li Causi, originario di Partanna, era in procinto di tornare in Italia, per essere sentito proprio dai magistrati di Trapani che indagavano su Gladio. Il suo nome è circolato anche a proposito del delitto, sempre commesso in Somalia, un anno dopo il suo, di Ilaria Alpi, Li Causi infatti sarebbe stato la sua «fonte» sui traffici di armi e di scorie coperti da settori governativi. 
 
Di Gladio trapanese si è tornati a parlare da quando è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto fare parte della struttura segreta. Lo ha svelato il figlio dell’ex sindaco, Massimo, nei giorni più intensi di rivelazioni e rivelazioni sulla trattativa tra Stato e mafia. Scacchiere nel quale si muovevano anche i mafiosi trapanesi. Alcuni di questi avrebbero avuto contatti con agenti dei servizi. Legami maturati nel tempo, dietro i quali ci potrebbero essere traffici di armi come un ex gladiatore afferma in una intervista Rai del 2006. Il video gira su Youtube. È estrapolato da una puntata di una trasmissione di Rai Tre che si occupò del delitto della giornalista Rai Ilaria Alpi. Incappucciato e presentato da chi lo intervista come ex appartenente a Gladio, c’è un uomo che racconta, parla di traffici di armi, e di scorie pericolose. Parla di Gladio, dice «una struttura impiegata per i traffici di armi». La ricostruzione non è nuova. «Gladio» usata per far passare da una punta all’altra dell’Italia, carichi di armi o di rifiuti tossici, destinati poi a paesi esteri. Un traffico che secondo un ex faccendiere, Francesco Elmo, si sarebbe intensificato dagli anni ’80 in poi. Quell’«intensificato» fa presupporre che esisteva anche anni prima. In Sicilia poi ci sarebbe stato un particolare in più i «contatti» con la organizzazione mafiosa. «Gladio spiava Cosa nostra» ha fatto mettere a verbale Paolo Fornaro, uno degli ufficiali che si occupava di «Gladio» trapanese, Elmo invece parlò semmai di un vicendevole scambio di favori tra la struttura segreta ed i mafiosi. La presenza tra i «gladiatori» di Ciancimimo in questo senso potrebbe starci per davvero. Lo scenario è quello che sembra possa coincidere con quello del delitto Rostagno (26 settembre 1988) dove non è una sensazione la possibilità di «contatti» tra mafiosi e «soggetti esterni» interessati a quell’omicidio. Non dimentichiamo che il magistrato Giovanni Falcone che seguiva il processo La Torre e le attività dei Servizi Segreti fu bloccato nella sua richiesta di contatti con i magistrati romani che indagavano su Gladio dal procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Falcone riteneva che su questo punto si dovesse indagare, Gladio col delitto La Torre poteva entrarci qualcosa, ma si trovò di fronte a un muro posto dal procuratore Capo. Gladio destò anche molto interesse al magistrato Carlo Palermo che nel suo libro "Il quarto livello" scrive che "a Trapani era presente una base militare Nato.  
 
 Alcamo Marina, 26 gennaio 1976. La cronaca ufficiale ci consegna la storia tragica di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che durante quella notte vengono barbaramente uccisi, dagli armadi scompaiono divise e armi. Verranno scoperti l’indomani, la mattina del 27 gennaio di 26 anni addietro, da una pattuglia di Polizia che scorta il segretario nazionale dell’Msi, Giorgio Almirante. Ad Alcamo Marina si fermano per delle incombenze, trovano i morti e avvertono i carabinieri di Alcamo. Allora non c’era l’autostrada tra Trapani e Palermo, il passaggio per Alcamo Marina era obbligato nelle due direzioni, davanti la casermetta, oggi oramai chiusa, passava la statale. 

In un mese i carabinieri del capitano Russo risolvono il caso. Viene cancellata l’ipotesi terroristica, poche ore dopo la scoperta dei carabinieri ammazzati viene diffuso un documento di rivendicazione da parte delle Brigate Rosse, nel giro di qualche ora altro volantino, le “vere” Brigate Rosse dicono che con la morte dei due carabinieri, “per i quali non avrebbero comunque versato lacrime”, non c’entrano nulla. Ad Alcamo nel frattempo è arrivata una squadra di carabinieri antiterrorismo. Sono loro gli autori della svolta. A uccidere i due carabinieri è stata una banda di balordi. Dapprima vengono fermati Vincenzo Vesco, una sorta di anarchico alcamese, questi confessa e fa i nomi dei complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli, minorenni, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà. Vesco si uccide durante il processo di primo grado, si ammazza in cella, impiccandosi, ci riesce sebbene sia monco di una mano. Gli altri davanti ai giudici gridano la loro innocenza, ci hanno estorto le confessioni dicono. Non vengono creduti e però l’iter processuale è difficile, se per giungere a sentenze definitive bisognerà vedere lo svolgimento di ben nove dibattimenti. L’ultimo dei quali si chiude con le condanne, nel frattempo è morto anche Mandalà, Ferrantelli e Santangelo sono fuggiti in Brasile da dove l’Italia prova a farli estradare ma non ci riesce, l’unico a finire in cella è Giuseppe Gulotta, sfortuna vuole che nel 1976 è da poco entrata in vigore la nuova legge sulla maggiore età, passata a 18 anni, lui li ha appena compiuti, pensava di andare a fare il finanziere, si vede invece infliggere l’ergastolo e andare in un carcere della Toscana. Col tempo Gulotta per la buona condotta ottiene la semi libertà, trova un lavoro, si sposa, ma di quella strage continua a dire di non sapere nulla. 



Un giorno il suo racconto trova un riscontro. La confessione sofferta di un ex brigadiere dell’arma, il napoletano Renato Olino, la Procura di Trapani apre una indagine, che quando è sul punto quasi di essere archiviata viene stoppata da un magistrato della Direzione Nazionale Antimafia. Saltano fuori i verbali di due pentiti, Leonardo Messina e Peppe Ferro, di colpo lo scenario cambia. Non furono balordi ad uccidere quei carabinieri e altri carabinieri hanno fatto di tutto perché sembrasse che fossero loro. 
Spunta anche un altro pentito, Vincenzo Calcara, era in carcere quando ci entrò Vesco, ha raccontato che Vesco fu ucciso da mafiosi in carcere per ordine di mafiosi liberi. Calcara ha raccontato che all'epoca era detenuto a San Giuliano ed ebbe ordine dal campobellese (avvocato prestato alla mafia, esperto di narcotraffico) Antonio Messina di lasciare da solo Vesco. «Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie» ha detto Calcara. Nei verbali di Leonardo Messina si legge. «All'epoca ero detenuto seppi da esponenti della cosca di san Cataldo che amici della famiglia di Alcamo si erano messo nei guai, seppi che era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni ubicate in vari Comuni della Sicilia e che poco tempo prima che scattasse il piano era arrivato il contro ordine, bisognava soprassedere, ma la notizia ad Alcamo non era arrivata e perciò la casermetta era stata assaltata lo stesso». E l’alcamese Peppe Ferro: «Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati…erano solamente delle vittime...pensavamo che la strage era opera di servizi deviati e mafia». 
  
Anche Olino arriva un giorno in Procura. Raccontò: «Non indagavamo su esponenti della criminalità, ma direttamente nell’ambito politico degli appartenenti alla sinistra extraparlamentare, andammo anche a perquisire a Cinisi la casa di Peppino Impastato». Fino a quando non arrivò il fermo di Vesco, trovato in possesso di armi riconducibili alla strage.
Olino ha confermato che da quel momento in poi ha cominciato a nutrire dubbi sull’azione investigativa che veniva condotta dai suoi colleghi, per poi arrivare ad assistere alle torture. 
 
  «I quattro furono costretti a parlare facendo bere loro acqua e sale, o provocando scosse elettriche ai genitali, oppure fingendo finte esecuzioni, ho protestato per quei comportamenti ma non cambiarono linea di comportamento i miei colleghi ed allora mi allontanai dalla stanza». «Erano quattro ragazzini, Gulotta giovanissimo, aveva 18 anni, sembrava un pulcino bagnato».
A fine del 1976 Olino lasciò l’Arma. «Ero entrato animato dai migliori intenti di servire lo Stato, andai via nauseato anche per quello che aveva visto ad Alcamo». Nel tempo ha detto di avere tentato di raccontare che i condannati per la strage non c’entravano nulla. «Mi rivolsi ad un magistrato di Parma e ad un deputato radicale, chiesi di vedere anche un generale, ma il suo aiutante di campo mi disse che non valeva la pena dire più queste cose».

Messinscena. Sceneggiate. Depistaggi. Confessioni estorte. Il 13 febbraio 2012 la Corte di Assise di Reggio Calabria nel processo di revisione ha cancellato la condanna all’ergastolo per Giuseppe Gulotta. Restituendogli l’incensuratezza. Ma non quei 36 anni trascorsi tra accuse, veleni, torture, celle di carcere. Una vita che chissà per quali oscure trame quei carabinieri che indagavano decisero che non gli doveva più appartenere. Oggi a 54 anni Giuseppe Gulotta non potrà più recuperare tutto ciò che gli è stato tolto.


Perché in quel febbraio del 1976 accadde tutto questo? Perché un mese prima i carabinieri Falcetta e Apuzzo furono barbaramente ammazzati. La Procura di Trapani una pista la sta battendo. C’entra Gladio. E c’è un’altra gola profonda.
Un investigatore che conosce bene gli altarini alcamesi, che sapeva dove la mafia negli anni ’90 custodiva delle armi, e che quelle armi erano tenute da carabinieri, e che quella polveriera, dentro un seminterrato di una villa, nella disponibilità dei carabinieri La Colla (che faceva da scorta al ministro per i Beni Culturali, la senatrice alcamese Bono Parrino) e Bertotto (che patteggiarono solo per l’unica accusa loro mossa, la detenzione illegale) era fatti di armi e munizioni tipiche delle polveriere di Gladio. Secondo una ricostruzione i due carabinieri uccisi quel giorno di gennaio del 1976 avevano bloccato sulla strada di Alcamo Marina un furgone che non dovevano fermare, a bordo ci sarebbero state delle armi, e una "pattuglia" di Gladio. Loro non sapevano e non potevano sapere, e non dovevano soprattutto scrivere nulla, quando ci provarono a farlo, pensando di avere messo le mani su un commercio clandestino di armi, vennero fatti fuori dentro la loro stessa caserma, poi fu inscenata la strage, la porta d'ingresso con la serratura distrutta dalla fiamma ossidrica, i due carabinieri morti come se sorpresi nella notte, nei loro letti a dormire.
Gladio allora era super segreta, sarebbe stata svelata moltissimi anni dopo, e quando questo avvenne si raccontò che a Trapani la cellula di Gladio si era installata solo sul finire degli anni '80, e invece la presenza sarebbe da collocare a molti anni prima, proprio a quegli anni '70, quando Stato e Mafia si incontravano nelle zone grigie del paese, dove si nascondevano anche uomini dei servizi deviati e della massoneria. Le rivelazioni della gola profonda non finirono lì. Furono indicati punti di incontro, di scambio, luoghi da dove potevano passare, volando, aerei senza che fossero visti, nelle campagne di Calatubo di Alcamo fu trovata anche un corpo senza testa, si dice un agente di servizi stranieri venuto a morire in provincia di Trapani. 

La presenza di Gladio a Trapani è certificata nei primi anni '90, il centro "Scorpione", in ultimo affidato alla guida di un maresciallo del Sismi, Vincenzo Li Causi, morto durante uno strano conflitto a fuoco nel novembre 1993 in Somalia.  C'è un rapporto del dicembre 1976 dell'allora capo della Squadra Mobile di Trapani Giuseppe Peri mandato a diverse Procura d'Italia ma rimasto "non trattato". Il vice questore Peri aveva raccolto elementi di contatti tra la mafia e settori dell'eversione di destra a proposito della strage della casermetta, e dei sequestri degli imprenditori e possidenti Campisi e Corleo. La traccia porta anche a possibili campi di addestramento di neo fascisti alle pendici della montagna di Erice. La pista è quella che negli anni a seguire è quella che vede possibili contatti tra esponenti del terrorismo di destra e uomini della mafia: il quadro emerso nelle riaperte indagini della Procura di Trapani su quello che accadde in quel 26 gennaio del 1976 è quello di un traffico di armi «compiuto da settori istituzionali deviati» (il virgolettato appartiene ad una carta della Procura di Trapani). 


Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire, o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo,  per far diventare la Sicilia stato americano.
   In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se  ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono, impongono, di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Strategia della tensione si dirà anche. Alcamo Marina è stato altro, ma la strategia della tensione passava anche pochi metri più sopra, per il corso principale di Alcamo, quello dove i Rimi, potenti mafiosi, si affacciavano dal balcone ed era un

sventolare di coppole alzate al cielo in segno di saluto. La mafia fece parte di quel piano di eversione, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. E c’erano anche i Rimi.



Mentre nelle stradine del Belice, quelle che Bernardo Provenzano ogni giorno percorreva per andare a Castelevtrano da Corleone per incontrarsi con don Ciccio Messina Denaro e il giovane Matteo che stava vicino a loro apprendendo i segni della vecchia mafia per poi imparare a creare la nuova Cosa Nostra, si susseguivano incontri importanti, quelli che hanno rinnovato quel patto che nel dopoguerra fu sottoscritto proprio a Castelvetrano davanti al corpo senza vita del bandito giuliano.


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