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In nome del Popolo italiano La prima Corte di Assise di Firenze


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LA RESPONSABILITA’ DI SALVATORE RIINA

A)

I confini dell’estensione del concorso di Riina e il limite che segna la penale rilevanza della sua compartecipazione sono stati tracciati in parte II capitoli 3 F e 11 A.


La prima delle questioni richiamate è stata una delle più aspramente discusse nel dibattito processuale, sia in sede di istruzione che di illustrazione delle conclusioni delle parti.

A giudizio della Corte, invece, non è dirimente stabilire se la cd. linea stragista avesse assunto, già nella seconda metà del 1992, quegli evidenti connotati di attacco al patrimonio artistico nazionale che avrebbero caratterizzato l’azione di cosa nostra nella perpetrazione delle stragi di Firenze, di Milano e delle chiese di Roma .


L’opposto approccio al problema ha fatto sì che le parti estremizzassero le rispettive posizioni, con evidenti forzature dialettiche.

Ad esempio:

la difesa di Riina ha sostenuto, per argomentare la tesi dell’estraneità dell’imputato nonché della frammentazione dell’originaria struttura verticistica dell’organizzazione e della non riconducibilità alla stessa di un disegno proprio e unitario ispiratore delle stragi in continente, che le intercettazioni di via Ughetti (II, 4 B) sarebbero la dimostrazione, laddove risultano “soltanto” attentati contro agenti di custodia e uffici giudiziari, della limitatezza degli obiettivi, perseguiti comunque nello schema della tradizionale “vocazione” di cosa nostra;

secondo l’accusa il proiettile di artiglieria a Boboli (II, 3 E) richiamerebbe la strage di via dei Georgofili.


Per un verso, si deve ricordare che Gioè e La Barbera erano semplici “soldati” della famiglia di Altofonte, benché importanti e considerati “uomini d’onore”. La Barbera, per la precisione, sebbene nel 1986 fosse stato nominato reggente della famiglia da Baldàssare Di Maggio che a sua volta sostituiva Bernardo Brusca, padre di Giovanni, a capo del mandamento di San Giuseppe Jato, si era allontanato dalla Sicilia per andare a lavorare al Nord; era tornato, su richiesta di Bagarella, per concorrere a comporre un agguerrito e ristretto gruppo di fuoco a diretta disposizione di Riina.

Inoltre, essi dipendevano da Giovanni Brusca, il quale, all’epoca delle intercettazioni, aveva pessimi rapporti con l’ala degli “oltranzisti” ed era stato estromesso dal circuito decisionale (II, 4 C, ult. cpv. , e F ult. cpv.)


Per l’altro, dalla deposizione di Brusca si è appreso (II, 3 E) che la scelta del luogo esatto dove venne collocato l’ordigno dipese da un’iniziativa personale di Mazzei il quale voleva “distinguersi” e accreditarsi presso Riina nell’assecondare il progetto, nell’elaborazione del quale da quest’ultimo era stato coinvolto, di indurre lo stato, mediante azioni terroristiche, a trattare.
La Corte ritiene che gli episodi non possano essere valorizzati per sé stessi.

Al contrario, a partire dal rigoroso accertamento dei singoli accadimenti e dalla puntuale verifica delle condotte dei protagonisti, ciò che è stato possibile sulla base dell’enorme, complesso, e pur solido, ordinato, persuasivo, materiale probatorio sottoposto dal P.M. all’esame del giudice, occorre coglierne, in uno sforzo di sintesi superiore alla mera riassunzione dei dati, il significato complessivo, e tuttavia non pretendere una reductio ad unum che prescinda dalla valutazione delle specificità, delle anomalie, del carattere e delle passioni degli uomini, della variegata natura delle cose. Tanto più se, come in diverse occasioni si è visto in parte II, tali profili si pongono tutt’altro che in contraddizione, arricchendola anzi di particolari che ne esaltano l’attendibilità, rispetto alla ricostruzione dell’accaduto che l’analisi di quel materiale ha permesso.


Certo, le dichiarazioni di Onorato, su cui del resto l’accusa ha evitato di insistere e soffermarsi, non convincono a retrodatare l’attenzione del vertice dell’organizzazione per il patrimonio artistico ad epoca precedente all’arresto di Riina.

Onorato, anche su questo punto (cfr., per altre non verosimili circostanze riportate, I, E, quarto cpv. ), si è rivelato inaffidabile avendo affermato che l’indicazione di colpire i monumenti e la richiesta di disponibilità ad impegnarsi nel progetto criminale gli erano pervenute, per tramite del suo capomandamento (di San Lorenzo) Salvatore Biondino e di Salvatore Biondo “il corto”, da “u zu Totò” (Riina), e dunque prima dell’arresto di quest’ultimo, versione in insanabile contrasto con la precedente, contestatagli, sostenuta nell’interrogatorio al P.M. del 9.10.1997, quando si era detto convinto che l’episodio era da collocare nel febbraio 1993 (pagg. 26 e 27 del verbale usato per le contestazioni).


In realtà, il nucleo, l’essenza della colpevolezza di Riina è da ravvisare nella sua stessa qualità di capo, non in quanto “non poteva non sapere” ma proprio perché, per la natura del potere che concretamente esercitava, era perfettamente a conoscenza di ogni dettaglio delle condizioni e dell’operare dell’associazione, i cui membri immancabilmente si conformavano alle sue direttive.

Egli, nella perversa lettura degli avvenimenti che in quel lasso di tempo andavano verificandosi, in particolare dopo il fallimento della trattativa del “papello”, si era persuaso della necessità di una “svolta” in senso propriamente terroristico, dell’apertura di un fronte che coinvolgesse il senso di un attacco all’interesse generale, sul piano della messa in pericolo della pubblica incolumità e dell’effettivo pregiudizio di beni collettivi, che non “riducesse” lo scontro alla contrapposizione tra mafia e apparati repressivi dello Stato le cui conseguenze, al di là delle momentanee e rituali esecrazioni, sarebbero rimaste circoscritte nei termini di un’ordinaria questione di ordine pubblico.

Il convincimento maturato da Riina si tradusse, lungi dal costituire solamente il portato della meditabonda cogitazione di una mente criminale in quanto tale non punibile, nella direzione e coordinamento, attività peraltro condotte secondo il collaudato schema della compartimentazione, della traduzione in termini operativi, sollecitando allo scopo la capacità progettuale di coloro che nell’organizzazione il dominus di cosa nostra considerava più fidati, delle possibili varianti del piano che aveva elaborato.
Nulla accadeva in cosa nostra che Riina non sapesse.

Egli, in prima o per interposta persona, portava avanti le trattative nella direzione di vanificare la nuova stagione dell’antimafia.

Brusca era il suo figlioccio e se ne considerava il “delfino”, e infatti in questa veste si sarebbe proposto dopo l’arresto del capo.

Mazzei, nemico storico del clan Pulvirenti-Santapaola, era stato “combinato” nella famiglia di Catania per sua espressa raccomandazione.

Poteva contare sulla assoluta fedeltà del “cane da caccia” Bagarella, autentico depositario dell’ “essere” corleonese, sulla dedizione del callido e inafferrabile Messina Denaro e dei trapanesi, sulla vera e propria forza d’urto militare che i Graviano erano in grado di garantire a Brancaccio, su inusitate quantità di armi e esplosivo.

E’ assurdo pensare che tutto ciò, quest’immane e terrificante apparato di uomini e mezzi, unificato e predisposto da Riina in funzione di quell’attacco allo Stato che aveva lucidamente previsto e deliberato, si sarebbe dissolto a motivo dell’incidente di percorso costituito dalla neutralizzazione di colui il quale ne era stato l’artefice.

Anzi, e molti “luoghi” dell’istruzione dibattimentale lo dimostrano laddove hanno rivelato le reazioni e i commenti all’arresto di Riina da parte dei “corleonesi”, la macchina da guerra, dopo una naturale fase di assestamento, riprese a muoversi anche sotto la spinta di motivazioni indotte, nell’espressione di un fortissimo senso di immedesimazione e appartenenza, da spirito di rivalsa e vendetta.

La belva, ferita, divenne più feroce.


Riina, in definitiva, è responsabile della pianificazione organica del terrorismo di cosa nostra, quali che potessero esserne gli obiettivi contingenti. La sua azione si configura come antecedente causale necessario, conditio sine qua non, dei crimini orrendi che tra la primavera e l’estate del 1993 provocarono morte e distruzione nel Paese.
Ma la questione non si esaurisce nel causa causae est causa causati.
Durante il “fermo” nella seconda metà del 1992, senza il quale - come ha ribadito Brusca - vi sarebbero state altre stragi, l’ideazione della linea di contrapposizione frontale, pensata in previsione dell’eventuale, futura condotta da tenere, nulla - quindi - di più “strategico”, fu sostenuta da una precisa risoluzione criminosa.

Non era un’ “accademica” discussione interna all’associazione, un programma in fieri. Non la sola rappresentazione vaga e indeterminata del reato-scopo, o del “delitto strategico”, un nudo volere generico.

Si prefigurava il modus operandi a venire. Il delitto, anzi la catena progressiva di delitti, aveva perduto il carattere proprio della fase di programmazione indistinta, per acquistare quella precisa identità, nel tempo e nello spazio, tale da collocarlo in un contesto di circostanze storicamente ben determinate e, dunque, capaci di essere oggetto di rappresentazioni psichiche altrettanto concrete e non ipotetiche.

La fase meramente programmatoria era stata superata per effetto della mediazione di un atto di decisione.

B)

In ordine alla strage di via Fauro, i profili della responsabilità concorsuale di Riina sono evidenti a prescindere dalla deliberazione della campagna stragista e si ricollegano a una fase precedente, riflettendo, cioè, un’attività ideologica e materiale manifestatasi, nel contesto descritto in parte II, 1 A e E, nell’ideazione, nella preparazione, nell’organizzazione, nella distribuzione dei compiti, nella definizione dei limiti del mandato, nella perfetta conoscenza di ogni dettaglio delle modalità esecutive: armi, esplosivo, trasporto, componenti della “squadra”, supporti logistici umani (Scarano) e materiali (le chiavi dell’appartamento di viale Alessandrino).


Nell’esecuzione dell’attentato a Costanzo, “sospeso” il 5.3.1992 e portato a termine il 14.5.1993, figurano soggetti (Cannella, secondo Scarano capo della seconda spedizione, e Scarano medesimo) che avevano concorso all’azione del 1992 e comunque tutte persone appartenenti al mandamento diretto da quello stesso Giuseppe Graviano che nel 1992 aveva partecipato alla trasferta romana.
Ma, a ben vedere, nella fattispecie non ha senso la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, che ha rilievo soltanto in tema di determinazione del limite al di sotto del quale non può ritenersi realizzato il tentativo punibile, e che in caso di reato consumato perde ogni valore e significato. Tutti gli atti, preparatori o non, confluiscono nella unitarietà della condotta illecita che ha prodotto l’evento.
Né ha senso parlare di desistenza.

L’esecuzione venne solo sospesa nel 1992.

La strage di via Fauro fu in seguito materialmente commessa da due delle stesse persone che già nel 1992 avrebbero dovuto parteciparvi nei piani di Riina, e da altri appartenenti al mandamento di Brancaccio, il cui capo Riina aveva a suo tempo mandato “in missione” sul campo.

Venne utilizzato lo stesso esplosivo procurato su indicazione di Riina e da questi fatto trasportare a Roma non a caso, nonostante le comprensibili preoccupazioni di Scarano, mai spostato dallo scantinato di “saddam”.

In via delle Alzavole si presentarono a maggio 1993, a colpo sicuro, i “ragazzi” di Brancaccio, prontamente ospitati alla bisogna da Scarano, essendo a quel punto soltanto necessario, forti dei risultati dell’ “inchiesta” già condotta nel 1992 e dell’esperienza maturata da Graviano, Cannella e Scarano, “attualizzare” le conoscenze acquisite e reperire un luogo idoneo, esigenza immediatamente soddisfatta dal solerte Scarano che individuò allo scopo, tramite quel Massimino che insieme a Garamella gli aveva fatto incontrare nel 1992 Messina Denaro al centro commerciale “Le Torri” di via Parasacchi, proprio uno stanzone di quegli stessi locali.
Altro che desistenza volontaria:

“La desistenza postula che l’agente abbandoni l’azione criminosa prima che questa sia portata a compimento, e cioè prima che egli realizzi compiutamente l’azione tipica della fattispecie incriminatrice, se trattasi di reati cd. a forma vincolata, o che egli impedisca, avendone ancora il dominio, che l’azione sia completamente realizzata quando il delitto è causalmente orientato o a forma libera. Tale criterio, valido nell’ipotesi di esecuzione monosoggettiva del delitto, non vale peraltro allorché l’imputato che abbandona l’azione criminosa concorra con altri alla commissione del delitto; in tal caso, infatti, il semplice abbandono o l’interruzione dell’azione crimonosa, non basta perchè si abbia desistenza, occorrendo un quid plusris. Detto quid pluris, tuttavia, non consiste nella necessità che il partecipe interrompa l’azione collettiva - come pur ritenuto da una concezione che sfocia in una interpretazione riduttiva del dettato normativo, in contrasto con la lettera dello stesso e la ratio dell’istituto (che tende a stimolare ed a favorire l’abbandono o il recesso dall’azione criminosa, da chiunque o comunque intrapresa) - dovendosi invece ritenere che il concorrente, per beneficiare della causa di non punibilità prevista dall’art. 56 III co c.p. , oltre ad abbandonare l’azione criminosa, debba altresì annullare il contributo dato alla realizzazione collettiva, in modo che esso non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, ed eliminare le conseguenze della sua azione che fino a quel momento si sono prodotte” (Cass. I, 12.7.1991, n. 7513, Cantone; conformi: I, 8.7-3.10.1997, n.8980, Arnone ed altri; II, 16.10-4.2.1998, n.1296, Sannino ed altri).

Perfettamente in termini si rinviene, poi, Cass. , II, 12.5.1986, n.3654, Coinn: “ ... E’ necessario che, in relazione alla sua concreta possibilità all’interno dell’organizzazione criminosa, il concorrente instauri un processo causale che arresti l’azione dei compartecipi o impedisca l’evento o, quanto meno, elimini le conseguenze della sua condotta rendendola estranea e irrilevante rispetto al reato commesso dagli altri o rimasto allo stadio del tentativo. Quest’ultima forma di desistenza può ricorrere solo quando la struttura dell’organizzazione del reato e il ruolo svolto dal concorrente gli consentano l’effettiva elisione di tutti gli effetti della sua condotta ... “.
Riina si guardò bene, per tutto il tempo che ne ebbe la possibilità, e cioè dal febbraio 1992 alla data del suo arresto, dal disinnescare, è proprio il caso di dirlo, il meccanismo di morte che aveva azionato.

3

LE RESPONSABILITA’ DI

GIUSEPPE MONTICCIOLO E ALFREDO BIZZONI

A)

Giuseppe Monticciolo ha confessato di aver eseguito l’ordine di Brusca nei termini che si sono specificati in parte II, 11 C) e che il suo capomandamento gli spiegò nell’occasione che il “dash” serviva a uomini di Bagarella per “far saltare in aria” Contorno, che era stato individuato in una località del Nord.


Brusca, all’udienza del 18.9.1999, precisando sulla base di un ricordo più ordinato e completo dichiarazioni in precedenza rese, ha confermato la versione di Monticciolo, anche sul punto del motivo contingente che lo indusse a accennare alle ragioni della disposizione che gli aveva impartito.

Si trattò di un commento sull’esplosione fallita del 5.4.1994 (cfr. II, 11 H): “ ... In particolar modo il commento fu nell’operazione non riuscita. Nel senso che gli ho detto: ‘ ma scusa, se sapevamo dove abitava, se sapevano ... se ci andavamo noi con un bastone, con delle pistole, lo avremmo ucciso ugualmente. Non c’era bisogno di fare l’azione eclatante.’ Comunque loro avevano deciso così e ognuno decide come vuole. “ (pag. 4026 della trascrizione).


Brusca ha anche fornito indicazioni sulla personalità e sul ruolo nell’organizzazione di Monticciolo che combaciano con l’immagine di sé prospettata da quest’imputato alla Corte: “Monticciolo non è ‘uomo d’onore’. Per un periodo era stato, come si suol dire, per tanti fatti, perché non gli davo tutta la confidenza, in qualche modo il mio braccio destro per il territorio di san Giuseppe Jato. Gli dicevo: ‘Fai questo, fai quell’altro’. Quindi il Monticciolo era la persona in quel momento di più mia fiducia. “ (pag. 4024).
Monticciolo era il custode, insieme a Enzo Brusca e Vincenzo Chiodo, dell’arsenale da lui fatto ritrovare agli inquirenti in contrada Giambascio di San Cipirrello, costruito nel modo descritto al Collegio da Chiodo. Erano due vani sotterranei cui si accedeva attraverso una condotta di sei metri e del diametro di 80 cm. ; all’ interno venne sequestrata un’impressionante quantità di armi (persino bazooka e lanciamissili) e esplosivo a bidoni.
Tale comportamento, a parte le altre pur importanti rivelazioni, integra senz’altro, per sé stesso, il presupposto per il riconoscimento delle attenuanti speciali ex artt. 4 I co. L. 15/80 e 8 I co. L. 203/91, per effetto del quale, inoltre, resta esclusa, a norma dei rispettivi commi 2, l’applicazione degli artt. 1 e 7 delle leggi citate. Il giudizio di comparazione, avuto riguardo alla assai maggiore pregnanza delle diminuenti rispetto all’unica aggravante residua (artt. 112 n.1) contestata in relazione al più grave reato di strage, deve essere risolto in termini di prevalenza.

B)

Alfredo Bizzoni è imputato dei reati descritti sub V, Z, A 5 e A 6 dell’epigrafe.


Le contestazioni di falso e favoreggiamento reale riguardano le vicende dell’autoveicolo “Fiat Uno Sting” di colore grigio tg. Roma/92270V, sottratto a Giuseppe Benedetti la notte sul 6.4.1994 nel quartiere di Centocelle a Roma.
Giacalone ha ammesso di essere responsabile del furto nell’interrogatorio reso al P.M. il 30.1.1996, il cui verbale è stato acquisito ex art. 513 c.p.p. con il consenso anche del difensore di Bizzoni all’udienza del 5.7.1999, e dunque utilizzabile, a prescindere dal disposto del V comma dell’art. 111 Cost. , che per la parte che qui interessa conviene riportare integralmente:

“ Alfredo Bizzoni mi disse che aveva un’auto incidentata, una Fiat Uno, da dare via, sapendo che io mi proponevo di taroccare delle macchine. Io avevo i documenti di una macchina che insieme ad altre veniva dal Belgio ed allora mi ci voleva una vettura per farne appunto una ‘pulita’. Una sera mentre Scarano stava in disparte, io rubai una Fiat Uno grigia, Sting, tetto apribile ... poi la portai a Capena e la coprii con un telone grigio da auto“.


Per ciò che emerge dalle richiamate dichiarazioni, nonché da quelle sul punto dei testi Benedetti, Panci, Fionda, Zoda, Fiori, Cantale e Pancrazi sentiti nel processo 12/96, dalla documentazione sequestrata presso la SIV Auto srl di via Accademia Peloritana in Roma, presso l’autosalone di Giacalone, presso la ditta di Fionda, e, infine dagli accertamenti tecnici compiuti dalla Polizia Scientifica di Roma sul telaio dell’automobile risultato modificato mediante alterazione da ZEA146000*07391682 in ZFA146000*02057427, il fatto può essere così ricostruito:
la Fiat Uno con telaio ZFA ... , tg Roma/55204V era di proprietà di Fiori, domestica di Bizzoni, e fu da questi distrutta, un giorno che l’aveva avuta in prestito, in un incidente stradale. La macchina venne portata da Panci, su richiesta di Bizzoni, alla propria carrozzeria, da dove un carroattrezzi, sempre su incarico di Bizzoni, la trainò all’autodemolizione di Bruno Moroni (i testi col. Pancrazi e m.llo Grasso hanno deposto nel processo 12/96 sulle relative operazioni di sequestro, di cui è stato nella stessa sede prodotto il verbale). Bizzoni comprò a Fiori una Panda, in sostituzione della vettura incidentata, presso la SIV Auto, e le propose di vendere il rottame a Giacalone. Fiori firmò una dichiarazione di vendita, sottoscritta anche da Giacalone il quale, però, non era presente quando Bizzoni le sottopose il contratto, e ottenne da lei la consegna delle targhe e dei documenti.

La Fiat Uno con telaio ZEA ... , quella di proprietà di Benedetti, fu trasportata all’autosalone di Giacalone a Palermo con una bisarca di Fionda, unitamente a tre Fiat 126, una Fiat Uno, una Ford Sierra e una moto, e da Giacalone venduta a Zoda, cui venne sequestrata il 23.6.1995, punzonata sul telaio la serie alfanumerica ZFA ... , quella cioé relativa alla Uno di Fiori.


La buona fede protestata da Bizzoni è improponibile.
A parte le esplicite affermazioni di Giacalone, lo stesso svolgimento dei fatti, che denota la costante presenza di Bizzoni, la sua alacre iniziativa, il suo sollecito interessamento, dimostra la piena consapevolezza della consumazione del reato presupposto e il concorso nella alterazione del numero di telaio.
A ciò si aggiunge quanto riferito da Romeo nel processo 12/96 in merito a un dialogo, cui assistette a Capena, tra Scarano, Giacalone e un’altra persona, che si identifica certamente in Bizzoni, nel corso del quale i tre si accordarono “per fare scendere delle macchine” di cui una rubata e per reperire allo scopo un camion, che in effetti procurarono disponendo il trasporto a Palermo dei veicoli, tra gli altri una 126 e una moto.
Fiori, inoltre, ha precisato che, nonostante specifiche richieste al riguardo, Bizzoni mai si rese disponibile a provvedere al passaggio di proprietà e a restituirle targhe e documenti perché potesse procedere alla pratiche di cancellazione dal PRA.
Nè può essere creduto, Bizzoni, quando sostiene, nel corso dell’esame condotto dal P.M. all’udienza del 5.7.1999, che l’unica sua colpa è quella di aver conosciuto Scarano. La debolezza della sua tesi risalta, infatti, dall’evasività delle risposte e dall’evidente disorientamento alle incalzanti domande e contestazioni del P.M. (cfr. , in particolare, pagg. 3600-3602 dell trascrizione).
L’imputato, del resto, era perfettamente inserito nel circuito criminale di Scarano. Egli ha ammesso di sapere che era un usuraio, un ricettatore, un trafficante di droga e di armi, attività quest’ultima che venne pure da lui medesimo favorita (cfr. in parte II sub 12 B), che disponeva di grandi quantità di denaro. Fu attraverso Scarano che conobbe i “nipoti” e Giacalone.
La valutazione della personalità di Bizzoni e del comportamento processuale tenuto specie nel corso delle indagini preliminari, quando - sottoposto alla custodia in carecere nel maggio 1995 per la detenzione di esplosivi in via Dire Daua - solo in un successivo interrogatorio nell’ottobre di quell’anno rivelò che vi avevano abitato i “nipoti” di Scarano e che inoltre aveva procurato loro l’alloggio di Torvajanica, impediscono di formulare, al di là della formale incensuratezza, un favorevole giudizio di prognosi ai sensi e per gli effetti dell’art. 164 c.p. .
La Corte ritiene che il processo nei confronti di Bizzoni, non essendo dal dibattimento emersi elementi per la valutazione della sua posizione nuovi o diversi rispetto a quelli di cui già si disponeva all’ udienza preliminare quando la richiesta di rito abbreviato ritualmente proposta venne ingiustificatamente rigettata, avrebbe potuto essere definito allo stato degli atti già in quella sede; pertanto, l’imputato ha diritto, per l’effetto sulla normativa di riferimento della sentenza n. 23/1992 della Corte Costituzionale, della diminuzione di un terzo, ex art. 442 II co. c.p.p., sulla sanzione che gli sarà comminata.
In ordine all’ imputazione sub A 5, il Collegio condivide senz’altro la richiesta di assoluzione argomentata dal P.M. .

Non vi è prova che Bizzoni fosse a conoscenza di cosa i “nipoti” facessero negli immobili che egli aveva procurato. Sapeva certamente che appartenevano a un ambiente delinquenziale, sia per i rapporti che avevano con Scarano che per il loro modo di comportarsi e di agire che non poteva passare inosservato, o comunque apparire normale, agli occhi di chi, come lui, aveva consuetudine con certe non commendevoli frequentazioni.


Questo, però, non è sufficiente a fondare l’affermazione di responsabilità penale richiesta dal P.M. per il reato di favoreggiamento personale (A 6) in relazione al delitto-presupposto ex art. 416 bis c.p., dell’avvenuta e permanente verificazione del quale, secondo l’accusa, sotto il profilo che Bizzoni ne fosse consapevole e si muovesse nell’ordine di idee di aiutare i “nipoti” a eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche, non potrebbe dubitarsi attesa la percezione da parte sua della finalità di “clandestinizzazione” che quelle persone chiaramente tendevano a perseguire.
In realtà Bizzoni era in grado di rendersi conto, e ciò è certamente avvenuto, della generica dimensione di illiceità in cui si collocavano le figure dei “nipoti”, ma non che un delitto fosse già stato commesso o che la permanenza ne fosse in corso. Non è da escludere, per esempio, che abbia potuto pensare ai preparativi di una rapina in grande stile o a un sequestro di persona.
Il P.M. non ha concluso circa lo stesso titolo di reato ex art. 378 c.p. la cui contestazione è formulata in riferimento alle stragi di via Fauro, di Firenze, di Milano e di Roma, evidentemente per la stessa ragione che ha indotto a riconoscere il difetto dell’elemento soggettivo riguardo al delitto rubricato sub A 5.

Comunque, Bizzoni deve esserne mandato assolto perché il fatto non costituisce reato.


IV
1
L’ENUNCIAZIONE DELLE RAGIONI

DI INATTENDIBILITA’ DELLE PROVE CONTRARIE

A)

Il disposto dell’art. 546 lett. e) c.p.p. , poiché “... l’onere di motivare la sentenza non equivale ad obbligo del giudice di convincere tutti i destinatari della motivazione ...” (Cass. , II, 24.7.1991, Rodà), riguarda la coerenza interna dell’apparato argomentativo.


La norma, in entrambi i riferimenti alla nozione di prova, richiama l’accezione di prova penale costituita, sotto l’aspetto della funzione, sul dato della certezza, vale a dire, per riprendere la definizione di uno dei massimi processualisti, del presente che cade sotto i sensi del giudice e che costituisce un termine del giudizio deduttivo del passato dal presente stesso.
In questo senso il processo è, sostanzialmente, una macchina retrospettiva, costruita per verificare se un fatto è accaduto e se colui al quale è attribuito lo ha commesso, che funziona se è alimentata da fatti.

La prova è, prima di tutto, risultato, evidenza; che sia stata esperita una serie procedimentale per assumerla, la cui premessa è l’introduzione del thema probandum, è ovvio, ma indifferente, laddove un esito, affidabile o meno, non sia stato raggiunto.


Ebbene, l’assunzione delle prove indicate a discarico non ha conseguito alcun risultato, alcuna evidenza sulla quale ragionare in termini di grado di attendibilità.
La ricorrente domanda rivolta a molti testi a difesa e imputati di reato connesso sul coinvolgimento nei fatti di strage dei servizi segreti, dei “poteri forti”, della massoneria, di forze politiche, nella grande prevalenza dei casi è caduta nel vuoto. Quando ciò non è avvenuto, gli accenni alla questione sono stati così labili o, quanto alle persone sentite ex art. 210 c.p.p. , sfuggenti da rendere veramente improponibile anche la sola ipotesi del dubbio.
In ogni caso, pur nell’astratta e remota eventualità di fattori di strumentalizzazione o eterodirezione di cosa nostra, è incontrovertibile, esulando dalla fattispecie il caso di soggetto il quale non agit sed agitur, che non verrebbero meno le responsabilità degli strumentalizzati e degli eterodiretti.

B)

Tralasciando le non pertinenti dichiarazioni di Cancemi e Cucuzza (i quali ne hanno parlato per sentito dire, rispettivamente, da Riina per tramite di R. Ganci e da Vittorio Mangano) sui presunti rapporti, in generale, tra importanti esponenti di Forza Italia e cosa nostra, parimenti estranee all’oggetto del processo sono da considerare le indicazioni di voto per lo stesso partito che sarebbero venute dai vertici dell’organizzazione (vi hanno accennato G. Ferro e Malvagna).


Si rinvengono, poi, nei verbali, vaghe allusioni di Cancemi e G. Ferro a una sfera politica nonché un categorico rifiuto a parlarne da parte di Tullio Cannella (che sul punto ha accettato soltanto di chiarire quali fossero le non edificanti ragioni per le quali si era pensato in cosa nostra, promotori Bagarella e Provenzano, di fondare sul finire del 1993 il movimento “Sicilia libera”) e di Monticciolo (che non ha risposto a domande su Vittorio Mangano “perché si va a finire in politica, nel tritacarne”).

Cancemi ha riferito, come sua supposizione e sottolineando che esclusivamente di questo si tratta, che i “fatti non siciliani” sarebbero stati suggeriti da qualcun altro che avrebbe “preso Riina per la mano” e gli avrebbe indicato cosa fare e dove.

G. Ferro ha ricordato un incontro con Bagarella, avvenuto a Partinico nel maggio-giugno 1994, quando il corleonese, replicando a certe sue perplessità e lamentele, disse: “Vonnu fattu scrusciu” (Vogliono che si faccia rumore).

C)

Sono stati esaminati a lungo i massimi dirigenti dei servizi di informazione dell’epoca. Nell’ordine:



Fulci, segretario generale del CESIS, organo di coordinamento dei servizi dipendente dalla Presidenza del Consiglio, dal giugno 1991 al 3.4.1993;

Pucci, direttore del SISMI dall’estate del 1992 all’estate del 1994;

Salazar, direttore del SISDE dal 10.8.1993 al 12.7.1994;

Luccarini, vice-direttore del SISMI fino al 1991, in seguito direttore per sei mesi e ancora vice-direttore, prima con Ramponi e poi, per sette-otto mesi con Pucci; Tavormina, succeduto a Fulci;

Finocchiaro, direttore del SISDE dall’agosto 1992 a fine luglio 1993.
Dall’insieme delle deposizioni emerge la rappresentazione di un ambiente caratterizzato da disordine, rivalità interne, incapacità gestionali, vicende, anche gravi, di rilevanza penale (è nota quella relativa al peculato commesso da alcuni funzionari nell’amministrazione e destinazione dei cd. “fondi riservati”) o comunque inquietanti (altrettanto noto è il cd. “affare Gladio” in cui venne coinvolta la VII Divisione del SISMI, struttura che organizzava l’operazione “stay behind”), ma nessuna deviazione che possa essere ricollegata, pure limitatamente a aspetti di generica influenza, all’oggetto delle imputazioni.
L’unico elemento di un qualche interesse è stato introdotto da Fulci, e confermato dagli altri dirigenti sentiti sul punto.

Fulci, chiamato al compito di segretario del CESIS dai ruoli diplomatici, si rese subito conto che “il clima era pessimo”. Egli stesso ricevette minacce e scoprì che nel suo alloggio erano state collocate microspie. Insistette, ma fu necessario un diretto intervento del Presidente del Consiglio, per ottenere da Ramponi i nomi dei funzionari coinvolti nell’affare Gladio. Era una lista di sedici persone, tutte esperte nell’uso degli esplosivi, che nascose tra le pagine di un libro. Rientrato nei ruoli di provenienza nel giugno 1993 con incarico all’ONU, ebbe modo negli USA di raccogliere le serie preoccupazioni degli ambienti diplomatici americani sull’autobomba di Firenze, argomento cui anche la stampa di quel paese aveva dato ampio risalto. Tornato a Roma nel luglio 1993, ne parlò con il Primo Ministro e con il Segretario Generale di Palazzo Chigi i quali lo sollecitarono a fornire agli inquirenti tutte le informazioni in suo possesso che potessero servire alle indagini. Fu così che consegnò la lista al Capo della Polizia e al Comandante Generale dell’Arma. Ciò fece, nella presa d’atto che si prospettava una ridda di ipotesi: BR, terrorismo islamico, mafia e “i soliti servizi deviati”, per mero scrupolo e tuziorismo, convinto peraltro che si trattasse di “galantuomini”, per consentire che si accertasse la loro completa estraneità ai fatti e per “dissipare ombre sulle Istituzioni”. Dopo le stragi di Roma e Milano chiese ancora ai comandanti di Polizia e Carabinieri se vi erano ragioni di sospetto nei riguardi di quei funzionari, ma gli fu risposto che le investigazioni erano orientate decisamente verso la mafia siciliana.

Su questa lista dei sedici Pucci ha dichiarato che, compiute le necessarie verifiche, si accertò che era “gente a posto”, e che, a suo ricordo, se ne occupò la Procura di Roma, il conseguente procedimento penale archiviato.
La non manifesta irrilevanza del tema di prova proposto venne a suo tempo ritenuta dalla Corte specie con riguardo ai rapporti di Bellini con cosa nostra e ai sospetti che Gioè e Brusca nutrivano su un suo qualche legame con i servizi segreti (cfr. II, 3 D quarto cpv.). Bellini avrebbe compiuto un’abile opera di suggerimento, sollecitando in cosa nostra, attraverso Gioè, progetti di attentati a monumenti e cose d’arte.

Lo stesso Riina, nell’esame richiesto dalla difesa Graviano, pur precisando di non conoscere Brusca e non sapere chi è, ha avvalorato l’ipotesi definendola “troppo giusta” sulla scorta dell’idea che se ne era fatta leggendo i verbali, unica fonte, ha ribadito, delle notizie in suo possesso sui rapporti Brusca, Gioé, Bellini.


La doverosa decisione di ammissione, però, sia in relazione alla vicenda appena considerata sia ad altri evanescenti profili di ipotetico coinvolgimento dei servizi che verranno esaminati trattandone per ogni singolo fatto di strage, non ha prodotto alcun risultato tangibile.
Il cd. movente alternativo è rimasto una petizione di principio.
Né è ammissibile, nei termini prospettati dalla difesa, sulla base cioé di fragili e inconsistenti acquisizioni tratte da spunti sporadici e frammentari, una lettura delle stragi del 1993 nel generale contesto socio-politico dell’epoca: il fenomeno cd. di tangentopoli, lo sconcerto e il disorientamento nell’opinione pubblica per il dilagare della corruzione, il discredito per i massimi organi rappresentativi e politici, la fine della cd. prima repubblica, l’incipiente formarsi del collettivo convincimento dell’esigenza di una svolta radicale negli assetti istituzionali e di un totale ricambio della classe dirigente. A queste istanze di rinnovamento l’ ancien regime e i suoi apparati avrebbero reagito, in una logica di restaurazione e normalizzazione, con il terrore diffuso nel tentativo, si assume riuscito, di frustrare le aspettative di riscatto democratico.
Il metodo è utile, e anzi, necessario, assecondato del resto dall’insegnamento della più sensibile giurisprudenza di legittimità, se la materia cui viene applicato è costituita da dati certi e incontestabili, ottenuti attraverso la faticosa raccolta e la verifica meticolosa, con strumenti di ricerca e di conoscenza che rifuggano da approssimazione e superficialità, dei presupposti di fatto capaci di confluire produttivamente nel processo di formazione della prova, così che il giudice sia posto in grado di apprezzarne e valutarne il risultato per sé stesso, nell’interconnessione con componenti di pari concretezza, alla luce dell’esperienza e del notorio.

Questo stesso Collegio vi ha fatto ricorso nella disamina degli effetti in cosa nostra e sulle decisioni dei vertici dell’organizzazione derivati dalla politica, dall’azione dell’esecutivo e dalla legislazione antimafia tra la fine del 1991 a tutto il 1992.


Tornando alla questione Bellini, si è accertato, comunque, che questi non era informatore, e tanto meno agente, dei servizi, e che nessun rapporto ebbero con gli stessi Brusca, Scarano o Cancemi. Salazar ha precisato d’aver svolto, all’atto del suo insediamento, un monitoraggio completo dei nominativi degli informatori e di ricordare che né Bellini né Scarano comparivano.
Infine, circa quanto in generale emerso da questa parte di istruzione, sembra alla Corte del tutto naturale e neutro che:

- i sedici funzionari della lista, considerati i compiti cui erano destinati, fossero esperti di esplosivi;

- si siano tenute, dopo le stragi di Firenze, Roma e Milano, riunioni ai massimi livelli nazionali degli organi di sicurezza e politici;

- in tali riunioni siano state prese in esame tutte le possibili matrici dei delitti;

- funzionari dei servizi, in particolare pare tale dott. Andreassi, siano stati distaccati in appoggio alla DIA, anche allo scopo di rendere disponibili strumenti tecnici di indagine di cui gli organi di p.g. erano sprovvisti.

D)
a)


Altrettanto ovvio e privo di concludente significato è che personale dei servizi si sia recato in via Fauro dopo l’esplosione. Sorprenderebbe il contrario.
Non merita commenti, ma in questo processo le difese vi hanno solo accennato, l’ipotesi che l’esplosivo non fosse destinato a Costanzo, ma a un funzionario dei servizi, certo Narracci, che abitava in via Fauro e la cui macchina venne danneggiata.
La Fiat Uno utilizzata per l’autobomba si è appreso essere di proprietà non di Linda Corbani, che ne denunciò il furto, ma della società ISAF; la vettura era a disposizione dei dipendenti e la notte in cui fu rubata era stata assegnata a Corbani, che peraltro non ne aveva l’uso esclusivo, la quale si trattenne in ufficio fino alle quattro del mattino.

Sull’ISAF, l’oggetto sociale della stessa e la natura dell’attività esercitata hanno testimoniato il dirigente Ferraguto, l’a.u. Romanelli, e il dipendente Corsi. Si è saputo da Romanelli che Corsi nel 1998 venne sospeso dall’impiego per due mesi e che, nel settembre 1999, rassegnò le dimissioni.

Si è capito che l’azienda operava nel campo dei software e dei sistemi logistici nel settore militare, pure con l’organizzazione di corsi di formazione professionale, che per questo aveva rapporti con le FF.AA. e con il Ministero della Difesa ed era dotata del cd. “nulla osta di segretezza sia a livello individuale ...” che “... il nullaosta di segretezza complessivo della società ... nell’avere nelle aree riservate dove vengono custoditi determinati documenti qualora i documenti necessitano del grado di riservatezza e di sicurezza.” (Romanelli).

Sia Ferraguto che Romanelli che Corsi hanno escluso qualsiasi contatto, per qualsivoglia ragione, con i servizi segreti.

Ma, se anche queste “relazioni pericolose” fossero state provate, l’ulteriore, sebbene ardito, passaggio dovrebbe portare a concludere per una deprimente inettitudine dei presunti servizi deviati che, preparando l’autobomba con una macchina di proprietà di una società di assai poco efficace copertura, avrebbero firmato il delitto.

b)

In via dei Georgofili l’obiettivo sarebbe stato non gli Uffizi ma la sede dell’omonima Accademia, indicato come luogo di abituale ritrovo di massoni (del che farebbero fede pezzi di stoffa nera ritrovati sul luogo dell’esplosione), con finalità di intimidazione nei confronti dell’autorevole membro della stessa senatore Spadolini in quanto artefice e principale ispiratore della legge sullo scioglimento delle associazioni segrete e dunque acerrimo nemico della cd. massoneria deviata.


Altro che segnale “particolarmente sofisticato”, come con infelice definizione ebbe a esprimersi in Commissione Stragi Pucci ricordando quelle parole davanti a questa Corte, ovvero, più limitatamente, l’ipotesi, riferita da Finocchiaro, che, ferma la matrice mafiosa, potessero essere intervenuti “suggeritori esterni”. Si tratterebbe di menti talmente raffinate e di intelligenze così superiori da rendersi incomprensibili persino a coloro che avrebbero dovuto capire il “messaggio”.
Il teste Indolfi, all’epoca dirigente della DIGOS di Firenze, ha deposto che si occupò, senza risultati, di verifiche in ordine a telefonate di rivendicazione della strage di Firenze da parte della “Falange Armata”, e di sapere in proposito che fu indagato e arrestato dalla Procura di Roma un impiegato dell’amministrazione carceraria. Ha aggiunto che questa FA rivendicava sempre ogni azione di stampo terroristico di qualche rilevanza.

Negli stessi termini la precisazione è stata riportata da alcuni dirigenti dei servizi, i quali hanno testimoniato, inoltre, di non aver mai ritenuto di riconnettervi importanza. Luccarini ha specificato che Fulci era convinto che FA avesse radici nel SISMI, ma l’allora segretario del CESIS, in precedenza esaminato sul punto, si è limitato a dire che non gli risultano connessioni tra la cd. Gladio e FA .


Si può, dunque, concludere che le rivendicazioni della strage di Firenze da parte di tale fantomatica organizzazione devono considerarsi prive di serietà e fondamento.
Il modo e il il posto preciso di collocazione dell’autobomba rivelerebbero la reale intenzione degli autori della strage.
La confutazione di quest’ultimo argomento richiede la conoscenza minimale della topografia della città e la conformazione dei luoghi vicini al complesso monumentale degli Uffizi.

Un furgone in sosta nel piazzale o in via della Ninna, dove la circolazione è vietata pure in ora notturna, ovvero sul lungarno, sarebbe stato troppo visibile, se non anche forzatamente rimosso. La via Castellani era, ed è, di impossibile parcheggio, e, soprattutto, è più aperta, più larga (non a caso nel corrente linguaggio dei fiorentini è chiamata piazza Castellani) rispetto alla via dei Georgofili e ai vicoli circostanti. La struttura urbanistica di quest’ultima zona ha senza dubbio aumentato gli effetti deflagranti dell’esplosione per provocare la quale fu usata, verosimilmente in considerazione della relativa distanza dell’obiettivo da raggiungere, una quantità di tritolo (oltre alle residue, verificate, componenti) molto superiore a quella impiegata per le altre stragi: 250-300 kg invece di 80-100 kg. .


Circa i motivi di sospetto che sarebbero indotti dalla versione di Carra sulle circostanze e modalità dello scarico dell’esplosivo nella strada vicino al cimitero di Capezzana nonché dall’avvenuta demolizione della casa di Messana in via Sotto l’Organo, ogni possibile perplessità è stata dissipata dalle testimonianze Fusco e Tognocchi di cui si è dato conto in parte II, sub 7 G.

c)

Di Bernardo, “gran maestro del grande oriente d’Italia” dal 1990 al 16.4.1993 e, dimessosi, fondatore della “gran loggia regolare d’Italia” subito riconosciuta dalla “gran loggia madre d’Inghilterra”, ha detto di non sapere nulla delle stragi.



Ha dichiarato che:

- si dimise proprio per ragioni di trasparenza a causa dell’indagine della Procura di Palmi sulle cd. “logge coperte”;

- tali organismi in effetti esistevano, peraltro non gli risulta a Firenze dove ha chiarito di essersi recato per riunioni massoniche in un edificio in centro che ha escluso potesse essere l’Accademia dei Georgofili, e secondo lui dovevano essere rivelati;

- relazionava alla loggia inglese in merito ai commenti della stampa italiana sul presunto coinvolgimento nelle stragi della “massoneria deviata”.


Dunque, niente suscettibile di attingere il livello minimo di pertinenza.
Ha aggiunto che il “centro europeo di comunicazione” di via Palestro a Milano era diretto da un “fratello” che lo utilizzava anche per l’incarico di ufficio stampa da lui conferitogli.

Il Collegio considera che è verosimile che questa “gran loggia regolare d’Italia” disponga di sedi più importanti e riconoscibili di locali precariamente destinati a ufficio stampa.


Pennino, una specie di storico di cosa nostra, si è detto informato, per “tradizione familiare”, di rapporti tra mafia siciliana e massoneria risalenti addirittura al 1861, della “combinazione” nella famiglia di Brancaccio di “ ...un certo Saverio Fera, garibaldino di Catanzaro ... “ che “ ... diventa il punto di riferimento ... fra Palazzo Giustiniani e ... la mafia”; del fatto che nel 1925 sarebbe stato deciso lo scioglimento di cosa nostra di concerto con la massoneria.

Premesse queste e altre stupefacenti rivelazioni sulla partecipazione di mafia e massoneria alla lotta antifascista e di liberazione, ha aggiunto, nel merito, di sapere, in quanto massone, che le dimissioni di Di Bernardo (il quale, però, nella sua testimonianza le ha ricondotte a tutt’altre ragioni) sarebbero state provocate dall’essere il “gran maestro” venuto a conoscenza che “settori deviati” della massoneria progettavano stragi insieme a cosa nostra. Un’atteggiamento di totale chiusura da parte di Pennino si è constatato quanto alle sue fonti; ai motivi dell’interesse della massoneria deviata alla perpetrazione di stragi; alla asserita determinazione maturata nello stesso sodalizio a impedire che Costanzo, come l’altro giornalista televisivo Santoro, facesse politica; all’ “unico contesto” in cui sarebbero da inquadrare la vicenda di tangentopoli e le stragi sia del 1992 che del 1993; a non meglio qualificate associazioni denominate P3 e “Terzo Oriente”.


Nulla che valga pur soltanto a incrinare la tenuta, sul piano della individuazione del movente, del robusto e convincente impianto probatorio che l’accusa è stata in grado di costruire e argomentare.

d)

L’autobomba del Velabro sarebbe stata destinata all’ “ordine costantiniano di San Giorgio” sull’origine, la natura e la dignità del quale la Corte è stata piacevolmente intrattenuta dal teste Spada.



Questi ha spiegato, illustrando i meriti dell’organismo rappresentato come “unico ordine dinastico-familiare” riconosciuto dalla Repubblica Italiana e, con garbata decisione, le fondamentali differenze che lo distinguono dall’ “ordine di Malta” e da quello del “Santo Sepolcro”, che ne fanno parte importanti personalità della politica e degli alti gradi militari.

Salazar e Tavormina hanno dichiarato di esserne membri.

Spada, tuttavia, ha precisato che l’ordine non a nulla a che fare con San Giorgio al Velabro, che la chiesa non ne è mai stata “luogo di culto abituale”, che il riferimento allo stesso Santo è del tutto casuale, e che vi fu occasionalmente celebrata una messa, cui furono invitati gli iscritti, il 23.4.1993 .
A tacer d’altro, in questo caso il cd. movente alternativo risulterebbe incoerente rispetto alla contestuale esplosione di analoga autobomba a San Giovanni con la quale si sarebbe inteso colpire il Vaticano, e segnatamente lo IOR i cui uffici per indimostrata asserzione si troverebbero nei pressi. Ma resterebbe da stabilire quale misteriosa relazione dovrebbe intercorrere, pur negli imperscrutabili labirinti di menti sottili e raffinatissime, tra le alte gerarchie ecclesiastiche e l’ “ordine costantiniano” che, anzi, in base alla risentita precisazione di Spada, sarebbe in pessimi rapporti con quello del “Santo Sepolcro” definito proprio come “ultimo ordine vaticano”.
Quanto ai delitti di Roma e Milano non è, poi, sfuggito, e in proposito si è accennato a un improbabile parallelo a simile incidente avvenuto in occasione del sequestro e dell’uccisione dell’onorevole Moro, che, la notte sul 28.7.1993, si verificò un “black out” delle linee telefoniche di Palazzo Chigi.
Bray, consulente tecnico del P.M. di Roma prima che il procedimento fosse trasmesso all’ A.G. di Firenze per competenza, ha persuasivamente dettagliato le ragioni delle conclusioni raggiunte sulle cause del blocco, ed è stata acquisita la sua relazione:

fu, in buona sostanza, un guasto al centralino, che non pregiudicò in alcun modo la funzionalità del sistema telefonico “privilegiato”. L’inconveniente venne probabilmente causato dall’imperizia di operatori e tecnici che non erano stati adeguatamente istruiti sulla manutenzione della centrale.


Rimane incomprensibile, peraltro, a meno di non pensare anche qui a un’azione da dilettanti, come questo presunto sabotaggio avrebbe potuto interrompere i collegamenti tra il massimo organo dell’esecutivo e i centri periferici o esterni dipendenti, visto che le linee utilizzate per le comunicazioni di rilievo erano perfettamente funzionanti.

e)

La Corte ritiene, infine, alla luce della ricostruzione dell’accaduto esposta in parte II sub 10 e 11, che i dubbi espressi in punto di prova generica relativamente alla stessa sussistenza delle stragi dell’Olimpico e di Formello, specie le allusioni ad attività di inquinamento e manipolazione da parte degli organi di p.g. intervenuti in via Formellese nell’immediatezza del fatto, siano da considerare, nella più benevola e indulgente delle interpretazioni, valutando cioè il trasporto oratorio, l’autentica passione defensionale e la convinta immedesimazione nelle ragioni del mandato, alla stregua di deboli illazioni fondate su elementi congetturali.



2

LA GIURIDICA CONFIGURABILITA’ DELLE FATTISPECIE DI REATO CONTESTATE E LA DETERMINAZIONE DELLE PENE

A)

Le singole, concrete, fattispecie accertate nella materialità delle condotte e degli eventi che le compongono, corrispondono, salve le esclusioni e le modifiche che saranno precisate, alla previsione legale delle norme incriminatrici richiamate nelle imputazioni.


La difesa Riina, peraltro accennandovi nella fase ex art. 493 II co. c.p.p. ma abbandonando l’argomento nella sede propria di discussione, ha prospettato l’inesattezza della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 1 L. 15/1980 in riferimento all’art. 422 c.p. , laddove la corretta qualificazione giuridica, versandosi in ipotesi di reato complesso ex art. 84 c.p., avrebbe dovuto ricondursi all’ipotesi di reato delineata dall’art. 285 o dall’art. 280 c.p. .
L’ “attentato per finalità terroristiche o di eversione”, palesemente, neppure in astratto, si configura in quanto concerne la vita o l’incolumità di una persona.
I due delitti ex artt. 285 e 422 c.p. , poi, si differenziano unicamente per la presenza in quello di “strage politica” dell’ “elemento psicologico subspecifico (fine-motivo), che segna la connessione tra l’azione e l’intento finalistico di recare offesa alla personalità dello Stato ... “(SS.UU. , 18.3.1970 n. 1, Kofler e altri).

Ma il problema, piuttosto accademico, non si pone giacché si deve escludere sia lo “scopo di attentare alla sicurezza dello Stato” sia il fine, non coincidente di necessità, di “eversione dell’ordine costituzionale” (art. 1 cit.).


Tutti i reati, invece, ad eccezione dei delitti di cui si è reso responsabile Bizzoni, sono stati commessi per finalità di terrorismo, cioè di provocare il panico in una pluralità indeterminata di persone (SS.UU., 23.2.1996, Falchini) e per agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso cosa nostra.
Quanto all’elemento soggettivo, non pare debbano essere spesi particolari argomenti per la dimostrazione della piena configurabilità del “fine di uccidere” che, per costante giurisprudenza, può essere desunto “ ... dalla straordinaria potenzialità del mezzo usato, di per sé indicativo dell’evidente intenzione di cagionare la morte.” (v., per tutte, Cass. , I, 24.10.1989, n. 13988, Hamdan).
Dalla certamente ravvisabile unicità del disegno criminoso, e dall’estensione dell’oggetto della volontà colpevole ad una pluralità di eventi, correlata non già ad una serie indeterminata di illeciti ma a quella gamma di reati, sia pure di gravità e qualità diverse, conseguenti alla “tecnica” utilizzata per la consumazione delle stragi, prevedibilmente rientranti nel programma operativo ossia in un novero di fatti enucleabili in contestuale previsione ragionata ed in deliberazione di pari ampiezza, discende il riconoscimento della sussistenza del dolo anche in ordine ai reati conseguenti, in termini di inevitabile sviluppo e articolazione, al primario progetto delittuoso perseguito e realizzato.
La Corte ritiene esuli da questo schema, configurandosi in modo eccentrico rispetto alla serie causale prevedibile, il falso rispettivamente contestato a Graviano e Monticciolo ai capi V) e D) delle imputazioni che li riguardano.
Inoltre, la qualificazione del numero di telaio ex art. 477 c.p. come certificato o autorizzazione amministrativa non si attaglia al caso in discorso, nemmeno riconducendo il fatto al disposto dell’art. 469 c.p. . Entrambe le norme si riferiscono a atti o strumenti di provenienza pubblica, mentre la punzonatura del numero di telaio sulla scocca delle autovetture è impressa dalle case costruttrici.

La pertinente previsione normativa va individuata nell’ipotesi contravvenzionale ex art. 74 VI co. c.d.s. e, pertanto, occorre in questo senso modificare l’originaria imputazione ascritta a Bizzoni sub V) .

B)

Salvatore Riina e Giuseppe Graviano devono essere condannati all’ergastolo.



La misura della durata dell’isolamento diurno ex art. 72 I co. c.p. , attesa l’inaudita, enorme, gravità dei delitti commessi, è da stabilire in quella massima di anni tre prevista dalla legge.

La condanna comporta l’applicazione delle pene accessorie di cui algi artt. 29, 32 e 36 c.p. , la pubblicazione della sentenza secondo le modalità specificate in dispositivo.

La Corte ritiene conforme a giustizia e equilibrio, nell’esercizio del potere ex art. 132 c.p. , “discrezionalità vincolata” da modulare secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p. in funzione retributiva e di prevenzione speciale, avuto riguardo all’apprezzamento integrale del fatto e agli aspetti sintomatici del caso, la posizione di Monticciolo valutata anche in riferimento al ruolo svolto dal prevenuto nell’associazione criminale e al limitato, fungibile, contributo causale apportato alla strage di Formello, applicare:
a Monticciolo la pena di anni sette e mesi sei di reclusione così determinata:

pena per il più grave reato sub A), sostituita quella dell’ergastolo - per effetto dell’attenuante speciale ex art. 8 I co. L. 203/91 - dalla reclusione da dodici a venti anni, definita nel minimo edittale di anni dodici, diminuita ex art. 4 I co. L.15/1980 a anni sette di reclusione, aumentata a anni sette e mesi sei di reclusione ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p. ; la condanna comporta, secondo il disposto dell’art. 32 III co. c.p. , l’interdizione legale durante l’esecuzione della pena, mentre non si ritiene, considerati quei motivi di attaccamento ai valori familiari e di amore verso i figli che secondo le sincere dichiarazioni di Monticciolo hanno concorso alla sua dissociazione, di disporre la sospensione durante l’esecuzione della pena della potestà di genitore;


e a Bizzoni la pena di anni uno e mesi sei di reclusione così determinata:

pena base per il più grave reato sub Z anni due di reclusione, aumentata ex art. 81 cpv. c.p. a anni due e mesi tre, diminuita ai sensi dell’art. 442 II co. c.p.p. a anni uno e mesi sei.


Tutti i condannati in solido sono tenuti al pagamento delle spese processuali; Graviano e Riina altresì a quelle di mantenimento durante la rispettiva custodia cautelare, non, invece, Monticciolo, mai detenuto per questa causa, e Bizzoni, il quale è stato assolto dal reato ascrittogli sub A 5 che aveva costituito il titolo della misura coercitiva a suo tempo applicatagli.
Ai sensi dell’art. 6 I co. L 152/1975 deve essere disposta la confisca e il versamento alla competente direzione di artiglieria delle armi, delle munizioni e degli esplosivi in giudiziale sequestro.

3

la decisione delle questioni civili

Le affermazioni di penale responsabilità degli imputati, nei termini in precedenza enunciati, valgono a fondare le domande di risarcimento del danno proposte dalle parti civili in relazione alle quali risulta essere stato provato, come di seguito precisato, il loro diritto al risarcimento del danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dai reati, ai sensi dell'art. 185 c.p.


Le condanne al risarcimento del danno, peraltro, stante il titolo concorsuale della responsabilità ed a norma dell'art. 2055 c.c., devono essere pronunciate in solido, oltre che tra gli imputati Riina e Graviano Giuseppe, con quelle intervenute nei confronti dei coimputati separatamente giudicati nel processo n. 12/96 R.G.
E', dunque, dell’avviso la Corte, nell’affrontare l’esame delle questioni inerenti alla responsabilità civile scaturente dai reati, che le particolari caratteristiche dell’istruzione dibattimentale compiuta, mirata essenzialmente alla articolata ed elaborata ricostruzione di complessi accadimenti dai quali trarre i necessari elementi di valutazione al fine dell'accertamento delle penali responsabilità, e la stessa estrema gravità e vastità dei fatti criminosi, e, in linea di massima, anche delle loro conseguenze in termini meramente civilistici, non consentano di ritenere acquisiti elementi sufficienti per fare luogo in questa sede alla liquidazione dei danni cagionati dai reati, e che qui debbano pertanto pronunciarsi soltanto condanne generiche ai danni e rimettersi le parti davanti al giudice civile per la loro liquidazione.
Gli elementi acquisiti, costituiti da documentazione prodotta dalle stesse parti civili o dal Pubblico Ministero o da dichiarazioni rese dalle persone offese nel corso del procedimento, appaiono infatti soltanto consentire di ritenere raggiunta la prova che i danni cagionati dai reati non possono valutarsi come inferiori agli ammontari appresso indicati per ciascuna parte civile e quindi di condannare gli imputati al pagamento di provvisionali per tali ammontari, ai sensi dell'art. 539 c.p.p.
E' anche da rilevare, quanto alle domande di responsabilità civile proposte in particolare dalle amministrazioni pubbliche, che il titolo della responsabilità in loro favore ricorre in relazione agli elementi volta a volta specificamente appresso considerati con riguardo ai danni ai loro beni interessi riconosciuti e tutelati dall’ordinamento (cfr. Cass. n. 10371/1995, Cass. n. 7275/1994), anche di natura non patrimoniale (cfr. Cass. n. 9105/1993).
Risultano quindi fondate, alla stregua degli indicati elementi, e si accolgono nei termini precisati, le domande proposte dalle parti civili di seguito indicate.
In relazione alla strage di Via Fauro:

Costanzo Maurizio e De Palo Domenico, in quanto vittime dell’attentato di Via Fauro, a seguito dell’esplosione che investì le auto sulle quali viaggiavano;

Liisa Karina Liimatainen, abitante in Roma, Via Fauro n. 76, essendo stata la sua casa interessata dall’esplosione;

Ministero della Pubblica Istruzione, per i danni subiti dall’edificio scolastico S. Pio X sito in Via Boccioni n. 14 a seguito dell'esplosione.

Si liquidano provvisionali per gli importi rispettivamente di L. 250.000.000, 50.000.000 e 3.000.000 in favore delle prime tre parti civili, tenuto conto degli esiti rispettivamente patiti ed in particolare quanto ai primi due dei gravi turbamenti psichici subiti per effetto dell'episodio criminoso.
In relazione alla strage di Via dei Georgofili:

Lombardi Paolo, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 1 e fu interessata dall’esplosione, danneggiato a tale titolo;

Ceccucci Daniela, in proprio ed in nome e per conto del figlio minore Fragrasso Federico, come il precedente, danneggiata allo stesso titolo e per avere subito lesioni di durata pari a sette giorni;

Maravalle Marina, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 12 e fu interessata dall’esplosione, danneggiata a tale titolo e per avere subito lesioni di durata pari a sette giorni;

Capolicchio Guerrino, Raimondi Liliana, rispettivamente padre e madre di Capolicchio Davide, deceduto nell’incendio seguito all’esplosione;

Bertocchi Anna, Donati Dino, la cui abitazione era in Lungarno dei Medici n. 10 e fu interessata dall’esplosione, danneggiati a tale titolo e per avere riportato entrambi lesioni di durata pari a quattro giorni;

Ricoveri Walter, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 1 e fu interessata dall’esplosione, danneggiato a tale titolo e per avere riportato lesioni di durata pari a tre giorni;

Siliani Paolo, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 6 e fu interessata dall’esplosione, danneggiato a tale titolo e per avere riportato lesioni di durata pari a cinque giorni;

Stefanini Nicola, Stefanini Andrea, la cui abitazione era in Lungarno dei Medici n. 10 e fu interessata dall'esplosione, danneggiati a tale titolo e per avere riportato lesioni di durata pari a sette giorni il primo e quindici giorni, nonché invalidità permanente il secondo;

Gabrielli Daniele, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 6 e fu distrutta dall’esplosione, danneggiato a tale titolo;

De Giosa Pietro, Rauggi Rosina, la cui abitazione era in Via dei Georgofili n. 1 e fu interessata dall’esplosione, danneggiati a tale titolo;

Travagli Alessandro, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 10 e fu interessata dall’esplosione, danneggiato a tale titolo e per avere riportato lesioni di durata pari a cinque giorni;

Condominio di Via Lambertesca n. 10-Firenze, il cui edificio fu interessato dall’esplosione, danneggiato a tale titolo;

Pagliai Eleonora, la cui abitazione era in Piazza S. Stefano n. 5 e fu interessata dall’esplosione, danneggiata a tale titolo e per avere riportato lesioni da cui è residuata invalidità permanente;

Chelli Francesca, la cui abitazione era in Via dei Georgofili n. 3 e fu interessata dall’esplosione, danneggiata a tale titolo e per avere riportato gravi lesioni alla persona;

Siciliano Umberto, la cui abitazione era in Via Lambertesca n. 6 e fu interessata dall’esplosione; danneggiato a tale titolo e per avere riportato lesioni personali ed invalidità permanente;

Mosca Daniela, la cui abitazione era in Via dei Georgofili n. 3 e fu interessata dall’esplosione, danneggiata a tale titolo e per avere riportato lesioni di durata pari a sette giorni;

De Riccia Luisa, Fiume Teresa Consiglia, Fiume Anna, Fiume Maria, Fiume Antonietta Maria, Fiume Antonio, Fiume Giuseppina, tutti congiunti di Fiume Angela, deceduta a seguito dell'esplosione, e specificamente la prima madre e gli altri fratello e sorelle della predetta;

Vignozzi Lucia, Nencioni Alfredo, Nencioni Patrizia, rispettivamente madre, padre e sorella di Nencioni Fabrizio ed i primi due anche nonni di Nencioni Nadia e Caterina, deceduti i predetti Fabrizio, Nadia e Caterina a seguito dell’esplosione;

Torti Giorgia, la cui abitazione era in Via dei Georgofili n. 1 e fu interessata dall’esplosione, danneggiata a tale titolo e per avere riportato lesioni ed invalidità permanente;

Faraone Mennella Jasmine, la cui abitazione era in Via dei Georgofili n. 3 e fu interessata dall’esplosione, danneggiata a tale titolo e per avere riportato lesioni personali;

Accademia dei Georgofili, la cui sede ed i cui beni ivi custoditi furono distrutti o danneggiati dall’esplosione;

Comune di Firenze, danneggiato in relazione agli ingenti esiti dell’esplosione che ebbero ad attingerlo, quanto al suo patrimonio abitativo ed alla viabilità, considerando particolarmente le spese che essi ebbero a determinare per il ripristino della viabilità e dei servizi e per la sistemazione provvisoria delle persone rimaste senza tetto, nonché i danni alla sua identità culturale e alla sua immagine nel mondo di città d'arte e conseguentemente allo sviluppo del turismo;

Quisisana S.r.l., società danneggiata in quanto gestiva la pensione omonima in Lungarno Archibusieri n. 4, che cessò l’attività a seguito dei gravi danni conseguiti all’esplosione;

Regione Toscana, danneggiata in relazione alla lesione inferta a seguito dell’esplosione al suo patrimonio ed alla sua identità culturale ed alla sua immagine nel mondo, e conseguentemente allo sviluppo del turismo, oltre che in relazione alle spese ospedaliere e mediche sostenute per la cura delle persone ferite a seguito dell'esplosione.

Si liquidano provvisionali di: L. 5.000.000 ciascuno in favore di Lombardi Paolo, Ceccucci Daniela in proprio, Ceccucci Daniela in nome e per conto del figlio minore Fragrasso Federico, Maravalle Marina, Siciliano Umberto, Mosca Daniela, Torti Giorgia, Bertocchi Anna, Donati Gino, Faraone Mennella Jasmine, Ricoveri Walter, Siliani Paolo, Stefanini Andrea, Stefanini Nicola, Gabrielli Daniele, De Giosa Pietro, Rauggi Rosina, Travagli Alessandro; L. 6.000.000 in favore di Pagliai Eleonora; L. 10.000.000 in favore del Condominio di Via Lambertesca n. 10-Firenze; L. 100.000.000 ciascuno in favore di Nencioni Patrizia, Fiume Teresa Consiglia, Fiume Anna, Fiume Maria, Fiume Antonietta Maria, Fiume Antonio, Fiume Giuseppina e della Regione Toscana; L. 300.000.000 in favore di Chelli Francesca; L. 400.000.000 ciascuno in favore di Capolicchio Guerrino e Raimondi Liliana; L. 500.000.000 ciascuno in favore di Nencioni Alfredo, Vignozzi Lucia e De Riccia Luisa; L. 1.000.000.000 in favore dell’Accademia dei Georgofili; L. 6.000.000.000 in favore del Comune di Firenze.


In relazione alla strage di Via Palestro:

Picerno Elisabetta, Picerno Domenico Giuseppe, Adami Lucia (rispettivamente sorella, fratello e madre di Picerno Stefano, deceduto a seguito dell’esplosione dell’ordigno, danneggiati a tale titolo);

Comune di Milano e Regione Lombardia, danneggiati sotto i profili già considerati quanto rispettivamente alle posizioni del Comune di Firenze e della Regione Toscana, che vengono analogamente in rilievo in ordine ai beni di loro pertinenza ed ai danni a questi inferti.

Si liquidano provvisionali di: L. 500.000.000 in favore di Adami Lucia; L. 100.000.000 ciascuno in favore di Picerno Elisabetta e di Picerno Domenico Giuseppe; L. 4.000.000.000 in favore del Comune di Milano.


In relazione alla strage dell'Olimpico:

Ministero della Difesa, con riferimento al danno non patrimoniale alla sua immagine correlato alla commissione del reato in esame, con effetti di vastissime proporzioni.


In relazione alle stragi di Via dei Georgofili, Via Palestro, S. Giovanni in Laterano, S. Giorgio in Velabro:

Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, con riferimento ai danni cagionati dai reati agli edifici ed alle opere d’arte appartenenti a tale amministrazione, in particolare considerando i danni arrecati alla Galleria degli Uffizi e al Museo di Storia della Scienza ed alle opere ivi esistenti danneggiate o andate distrutte;

Ministero dei Lavori Pubblici, quale amministrazione dello Stato che ha provveduto a corrispondere le somme occorrenti per la ricostruzione e la ristrutturazione degli edifici rimasti danneggiati dalle esplosioni adibiti ad uffici di Pubbliche amministrazioni e per la sostituzione di mobili ed arredi andati distrutti.

Si liquidano provvisionali di: L. 30.000.000.000 e L. 10.000.000.000 rispettivamente in favore della prima e della seconda delle parti civili indicate.


In relazione alle stragi di Via Fauro, S. Giovanni in Laterano, S. Giorgio in Velabro, Olimpico e Formello:

Regione Lazio, danneggiata sotto i medesimi profili già considerati quanto alle posizioni delle regioni Toscana e Lombardia, considerando gli analoghi danni inferti al suo patrimonio dalle stragi (con la precisazione, peraltro, che il titolo di responsabilità non sussiste quanto alla strage di Formello nei confronti dell'imputato Riina).

Si liquida provvisionale di L. 100.000.000 in favore della stessa parte civile.
In relazione a tutte le stragi:

Presidenza del Consiglio dei Ministri, quale organo di vertice dell’esecutivo della Repubblica italiana, in considerazione della lesione inferta all’immagine della Nazione ed ai suoi fondamentali interessi dal complesso delle attività criminose, dirette a contrastare provvedimenti legislativi ed amministrativi dello Stato e ad affermare sul suo territorio l’autorità dell’associazione cosa nostra in contrapposizione a quella dei poteri legalmente costituiti, nonché in relazione ai turbamenti morali provocati nella collettività dai gravi fatti criminosi ed al conseguente pregiudizio delle attività pubbliche;

Ministero dell'Interno, quale amministrazione dello Stato preposta alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, in relazione alla lesione inferta a tale interesse dalle attività criminose ed alle spese sostenute, anche attraverso le Prefetture, a seguito dei danni a cose e persone cagionati dai reati.

Si liquida provvisionale di L. 30.000.000.000 in favore della prima delle indicate parti civili.


Non può essere accolta la domanda proposta dalla parte civile Bolognesi Paolo per l’Unione dei familiari delle vittime per stragi, considerato che, alla stregua della scarna documentazione prodotta, costituita soltanto dalla delibera in data 28.9.1996 dell’Unione stessa inerente alla costituzione di parte civile nel processo, non risulta essere stata provata la causazione di un danno inferto dai reati ad una sua preesistente posizione giuridica tutelata dall’ordinamento; né possono essere accolte le domande proposte dalle parti civili Cavallini Alberto e Vignozzi Mario, cugini di Nencioni Fabrizio, deceduto nella strage di Via dei Georgofili, non trattandosi di prossimi congiunti della vittima riguardo ai quali risulti un titolo giuridico al risarcimento del danno ed in relazione ad essi non essendo stata comunque provata in concreto la ricorrenza di danni di qualsiasi natura cagionati dai reati.
All’accoglimento delle domande proposte dalle parti civili in precedenza indicate consegue inoltre la condanna degli imputati, in solido, al pagamento in favore delle stesse parti civili delle spese di costituzione e difesa, liquidate come in dispositivo, con applicazione anche, in particolare, come necessario, delle previsioni degli artt. 3 e 5 della tariffa penale di cui al D.M. n. 585/1994, relative rispettivamente alla assistenza e difesa di più parti aventi la stessa posizione e alla validità delle tariffe anche nei riguardi delle parti civili costituite in giudizio.

P.Q.M.


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