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In nome del Popolo italiano La prima Corte di Assise di Firenze


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Pasquale Di Filippo (introdotto in cosa nostra nel 1982 per tramite del gruppo familiare mafioso degli Spataro avendo conosciuto e sposato Giuseppina Spataro; “prende in mano” la famiglia dal 1985, arrestato il 21-5-95, rende dichiarazioni dal 21-5-95 ed è sottoposto a programma di protezione)
Premesse molte e dettagliate informazioni circa un traffico di droga su larga scala da lui gestito e finanziato negli anni 1991-92, “autorizzato” dai Graviano e a cui partecipavano tra gli altri Lo Nigro, trasportando per mare lo stupefacente, Tinnirello e Barranca, ha a lungo riferito sui suoi rapporti con Brancaccio.
Sapeva che dominavano i Graviano; non conobbe mai di persona Giuseppe mentre conosceva assai bene Filippo in quanto era colui che consegnava al fratello Emanuele i soldi da far pervenire a Marchese.
Conquistò la fiducia di Bagarella, del quale favorì la latitanza, facendo parte di un gruppo di fuoco “riservato” a sua disposizione composto anche da Mangano e Pizzo.
Era organicamente e stabilmente inserito nelle attività criminali compiute dai “ragazzi” di Brancaccio, agli ordini, dopo l’arresto dei Graviano, di Mangano, dei quali ha indicato nomi, soprannomi e “specialità”. Con loro si rese responsabile di ogni genere di delitti, alcuni commessi con modalità che impressionano per brutalità e ferocia: due tunisini accusati di aver importunato sua moglie furono condotti nella “camera della morte” (un magazzino in via Messina Montagne, vicino alla EdilVaccaro, fatto ritrovare agli inquirenti e descritto nel processo 12/96 dal teste Rampini), uno di essi fu subito ucciso, l’altro picchiato e torturato. Quest’ultimo, su sua istigazione, venne evirato da Mangano e Spatuzza che gli misero i genitali in bocca.
Ha aggiunto di avere stretto un particolare legame di amicizia con Grigoli, il quale ebbe a confidargli, oltre all’omicidio di padre Puglisi e al sequestro del figlio di Di Matteo, diversi particolari sull’esecuzione delle stragi, appresi anche dai discorsi degli altri specie dopo l’arresto di Giacalone e Scarano e dopo che si seppe della collaborazione di Scarano.
Ha mostrato di conoscere molto bene i rapporti tra Vittorio Tutino, detto “mariuccio il bello”, e i fratelli Graviano: Tutino, per conto dei Graviano, distribuiva i soldi alle famiglie dei carcerati, e aveva la “gestione” delle estorsioni rendendone il conto a Filippo Graviano.

Antonio Calvaruso (introdotto in cosa nostra da Bagarella nel maggio del 1993, accompagnatore e autista di Bagarella, arrestato il 24-6-95, rende dichiarazioni dal gennaio 1996 ed è sottoposto a programma di protezione).
Ha detto che prese a coadiuvare Tullio Cannella nell’attività di gestione del villaggio turistico “Euromare” di Buonfornello, alla fine degli anni “80, facendo anche da prestanome a Cannella.

In questo modo ebbe modo di conoscere i tre fratelli Graviano: Giuseppe Filippo e Benedetto, che gravitavano intorno al villaggio suddetto, avendo, a suo tempo, messo a disposizione il terreno su cui il villaggio era stato costruito.


In questo contesto ebbe modo di incontrare varie volte Giuseppe e Filippo Graviano nell’ufficio del Cannella e assistette a richieste di soldi fatte dai due in maniera perentoria.
Successivamente, agli inizi dell'estate del 1993, Cannella conobbe Leoluca Bagarella, presentatogli dai Graviano, e lo invitò al villaggio Euromare, dove in effetti Bagarella si stabilì. All’inizio egli prese a fare da vivandiere a Bagarella, che era latitante; poi, a partire da settembre-ottobre del 1993, anche da autista.

Ebbe modo di rendersi conto, così, che Bagarella manteneva rapporti con i Graviano, con Matteo Messina Denaro, con Giovanni Brusca, con Peppe Ferro ed altri.


I Graviano “erano tutti e tre persone uguali” e comandavano a Brancaccio
Per tramite di Bagarella, che all’inizio lo presentava come “vicino” e poi come “amico nostro”, conobbe l’ambiente di Brancaccio e le persone che vi operavano agli ordini prima dei Graviano e poi di Mangano. Conobbe anche, nello stesso modo, Messina Denaro.
A Bagarella non piacevano i Graviano, né si fidava di tutti i componenti del gruppo di fuoco, privilegiando tra questi Spatuzza, Lo Nigro e Mangano.

In particolare era affascinato da Lo Nigro per come questi “trattava” i cadaveri e per la perizia che dimostrava nel collocarli nei cofani delle macchine. Di Lo Nigro, del resto, avrebbe saputo da una fonte qualificata, il suocero Giacalone durante la co-detenzione, che era esperto nell’uso dell’esplosivo per via dell’esperienza acquisita nella pesca di frodo, e, quanto a certe “operazioni”, che dopo gli omicidi intingeva il dito nel sangue della vittima. Con lo stesso Lo Nigro e Spatuzza partecipò ai primi del 1995 all’omicidio di Gianmatteo Sole: Spatuzza gli teneva un sacco sulla testa e Lo Nigro lo strangolava.



Tullio Cannella (gestore del villaggio “Euromare” dove fin dagli inizi degli anni “80 soggiornavano da latitanti esponenti di spicco di cosa nostra, arrestato l'ultima volta il 3-7-95, rende dichiarazioni dal 22-7-95 ed è sottoposto a programma di protezione).
Conobbe i fratelli Graviano fin da quando era bambino e conosceva il loro padre, essendo anch’egli nato e cresciuto a Brancaccio.
I Graviano avevano interessenza nel villaggio Euromare, da lui gestito.

Erano persone di fiducia dei fratelli Cesare Lupo, Giovanni Asciutto, Marcello e Vittorio Tutino, Giorgio Pizzo, ed altri.


Ebbe molte richieste di denaro dai Graviano, anche dopo il loro arresto, e molte furono da lui esaudite. Varie volte ebbe a consegnare denaro a mani di Giuseppe, Benedetto e Filippo Graviano. L’ultima tranche di 150 milioni la versò agli inizi del 1993 personalmente a mani di Filippo Graviano.

Proprio per fare i conti del dare e dell’avere ci fu una riunione, nel corso del 1994, cui partecipò, nell’interesse dei Graviano, Matteo Messina Denaro.

Bagarella, con il quale era entrato in ottimi rapporti “ospitandolo” a lungo al villaggio su presentazione dei Graviano, procurandogli anche un appartamento a Palermo e mettendogli a disposizione Calvaruso prima come accompagnatore e poi, stabilmente, come autista, prese le sue difese nella vertenza.
Dopo l'arresto dei Graviano, non ebbe mai canali di comunicazione diretti con loro. Era Nino Mangano, il quale fu investito della reggenza da Bagarella dopo un periodo di co-reggenza con Pizzo e Cannella, che gli dava notizie e gli faceva richieste per loro conto.

Francesco La Marca (“combinato in cosa nostra” nella famiglia di Potranuova nel 1980, arrestato il 31.5.1994 per associazione mafiosa e per l’omicidio Puccio in concorso con C. Ganci, rende dichiarazioni dal marzo 1997 ed è sottoposto a programma di protezione).
Fu “combinato”, con il solito rituale, alla presenza del capo Filippo “Pippo” Calò, del sottocapo Lipari e del capo de La Noce Scaglione. Il mandamento comprendeva anche Palermo Centro, Borgovecchio e La Noce che in seguito si scorporò e costituì mandamento a sé.
Era un killer di Portanuova agli ordini, dopo l’arresto di Calò, del reggente Cancemi.
Ha confermato gli assetti del mandamento, come riferiti da Cucuzza, dopo la dissociazione di Cancemi.
E’ informato che i Graviano subentrarono nella reggenza del mandamento di Brancaccio a Lucchese, a sua volta succeduto a Greco. Conosce solo Giuseppe, presentatogli come “uomo d’onore” da R. Ganci, che vide a una riunione a casa Guto nel 1991, e Benedetto.
Con Giuseppe Graviano, nonché insieme a Cancemi, Gioé, Anselmo, Ganci, Salerno e altri che non ricorda, partecipò a un’azione, nel deposito del cugino di Cancemi, che avrebbe dovuto concludersi con un’omicidio poi in effetti non commesso.
A febbraio-marzo 1994 incontrò a casa Patellaro Brusca e Bagarella dei quali sapeva che erano i capi riconosciuti dopo l’arresto di Riina: gli chiesero la disponibilità a muoversi su Milano per “un fatto grosso”.

D)

Vincenzo Sinacori (“combinato” in cosa nostra nel 1981 nella famiglia di Mazara del Vallo, arrestato nel luglio 1996, rende dichiarazioni da settembre del 1996 ed è sottoposto a programma di protezione).


Reggente, insieme a Andrea Mangiaracina, della famiglia di Mazara del Vallo dopo l’arresto di Agate, non ricorda se conobbe Giuseppe Graviano e Filippo Graviano nella riunione di Castelvetrano del settembre-ottobre 1991 (cfr. II, 1 A), oppure gli fossero già stati presentati prima.
In seguito fu informato che Giuseppe era capomandamento di Brancaccio e constatò che era sempre presente alle riunioni.
Dopo Castelvetrano, si svolse un altro incontro a Palermo, a casa di Mimmo Biondino, fratello di Salvatore Biondino, quando Riina teorizzò la “Super-Cosa”, in risposta alla “Super-Procura” (cfr. II, 2, cpv. quarto), un gruppo ristretto, nell’ambito di cosa nostra, in cui erano inseriti anche Giuseppe e Filippo Graviano, che doveva servire a “chiudere” i discorsi (“Chiudere nel senso di chiudere i discorsi, dei discorsi saperli sempre meno persone.”)
Alla partenza per Roma C. Cannella e Tinnirello gli furono presentati formalmente come “uomini d’onore” di Brancaccio.
Su Brancaccio e i Graviano ha, inoltre, dichiarato che:

- Giuseppe era presente alla riunione di Bagheria del 1.4.1993;

- dopo l’arresto dei Graviano subentrò loro Nino Mangano, diverse volte incontrato accompagnato da Pizzo, a sua volta sostituito da Spatuzza, previa “combinazione” in presenza di lui stesso, Messina Denaro e Di Trapani;

- Messina Denaro, dal giugno 1993, conduceva la latitanza a Brancaccio dove lo incontrava accompagnato da Mangano e Cannella;

- Messina Denaro, durante la latitanza condotta insieme nel 1995 a Palermo dopo l’arresto dei Graviano, gli confidò che le stragi in continente erano state commesse dai “ragazzi” di Brancaccio;

- conobbe, in particolare, Grigoli, al quale fu proposto di riparare in Venezuela temendone Messina Denaro la dissociazione tanto che si era anche pensato di ucciderlo;

- Messina Denaro, arrestati i Graviano, divenne per i “ragazzi” di Brancaccio un’altro “madre natura”.

Giovanni Brusca (“combinato” in cosa nostra negli anni “75/”76 nella famiglia di San Giuseppe Jato, arrestato il 20-5-96, rende dichiarazioni dal 10-8-96 ed è sottoposto a programma di protezione).
“Soldato” fino a ottobre 1989, divenne da quel momento reggente del mandamento di San Giuseppe Jato che comprende i comuni di Monreale, Altofonte, Camporeale, SanCipirello (dal 1986), Santa Cristina e Piana degli Albanesi.
Conobbe tutti i fratelli Graviano come “uomini d’onore. Contorno aveva ucciso loro padre.
Il capomandamento di Brancaccio era Giuseppe, dal 1991 alla data dell’arresto.

Anche Filippo svolgeva compiti di rilievo.

Non è stato in grado di dire per quali vicende Giuseppe lo divenne, ma sa che subentrò a Lucchese. Lo vide sempre alle riunioni ai massimi livelli. Decisero insieme agli altri capimandamento delitti di ogni genere, e, con Bagarella, nell’ottobre del 1993 il sequestro e l’uccisione del figlio di Di Matteo. Giuseppe Graviano aveva avuto incarico dalla “commissione” di vendicare l’uccisione di Ocello a Misilmeri e di collaborare allo scopo con Piero Lo Bianco. Fu così che tra Lo Bianco e Graviano nacque un rapporto privilegiato. In seguito i Graviano si recarono al Nord e furono arrestati.
Conobbe Spatuzza che, dopo l’arresto di Mangano e Pizzo, fu combinato nell’ottobre 1995 da lui stesso e Messina Denaro e divenne il riferimento a Brancaccio.
Circa l’ideazione, la deliberazione e l’esecuzione delle stragi, le dichiarazioni di Brusca sono state ampiamente riportate in parte II.

Giuseppe Ferro (“combinato” in cosa nostra nel 1981 nella famiglia di Alcamo, arrestato il 31-1-95, rende dichiarazioni dal giugno 1997 ed è sottoposto a programma di protezione).
Capomandamento di Alcamo (famiglie di Castellammare del Golfo, Calatafimi e Balestrate), fu nominato in un’apposita riunione, presenti Riina, Bagarella, Gioè, Messina Denaro, Calabrò, Sinacori e Brusca, dopo l’uccisione di Vincenzo Milazzo.
Ha detto di essersi incontrato almeno tre volte con Giuseppe Graviano: a Bagheria, nel mese di giugno del 1993; a Cefalù, verso luglio-agosto del 1993; a Gibellina, verso settembre-ottobre del 1993.

Non sa che ruolo avesse nel mandamento Giuseppe Graviano.


Ha saputo che Giuseppe aveva dei fratelli, ma non ebbe mai modo di incontrarsi con loro. Non li conosce.
Un uomo di Brancaccio, Grigoli, fu mandato a Alcamo a commettere l’omicidio di certi Pirrone.

Francesco Geraci (introdotto in cosa nostra da Matteo Messina Denaro dal 1988, arrestato il 29-6-94, rende dichiarazioni dal 6-9-96 ed è sottoposto a programma di protezione).
Ha detto di aver conosciuto Filippo Graviano, che conosceva come “Fifetto”, quando trascorreva le vacanze, insieme a Giuseppe e all’altro fratello, a Triscina, località balneare di Castelvetrano. Ciò avvenne anche nell’anno in cui ci fu il tentato omicidio del dr. Germanà.

Matteo Messina Denaro procurava loro degli alloggi, tramite tale Vito Cappadonna o Michel Giacalone, che gestiva un villaggio turistico a Triscina.

In questo modo ebbe modo di conoscere anche le fidanzate di Giuseppe e Fifetto Graviano.
Matteo Messina Denaro aveva, comunque, ottimi rapporti soprattutto con Giuseppe Graviano, che andava spesso a trovare, sia a Brancaccio che in posti fuori Palermo.
Ha aggiunto che rivide Filippo Graviano nel carcere dell'Asinara nel marzo 1996, dove furono entrambi ristretti. Nel corso della detenzione Filippo gli disse che era stato, verosimilmente nel 1993, a Milano e nei pressi con Matteo Messina Denaro, col fratello Giuseppe e con le rispettive ragazze; che andavano a mangiare in un ristorante e che facevano compere nel negozio di Versace, a Milano.

Gli disse anche che erano stati ad Abano Terme, a Rimini ed in una località balneare, di cui non ricorda il nome.


Parlando del viaggio a Roma del febbraio-marzo 1992 Geraci ha menzionato, ovviamente, Giuseppe Graviano. Solo alla fine di questa trasferta, tornato a Palermo insieme a Cristofaro Cannella, si recò con lui in campagna e vi incontrò Filippo Graviano, Benedetto Graviano e Matteo Messina Denaro.
Non ricorda di aver rivisto in altre occasioni Benedetto Graviano, ma una volta Matteo Messina Denaro gli fece questo discorso:

“Matteo una volta mi disse che il fratello maggiore era diciamo quello che, doveva essere quello che dirigeva la famiglia Graviano, ma in effetti non era così, mi diceva Matteo. Era il Giuseppe che dirigeva tutta la famiglia Graviano”.



Gioacchino La Barbera (“combinato” in cosa nostra nel 1981 nella famiglia di Altofonte, arrestato il 23-3-93, rende dichiarazioni dal novembre 1993 ed è sottoposto a programma di protezione).
“Uomo d’onore” della famiglia di Altofonte”, ha detto di aver conosciuto Filippo Graviano ad Altofonte, agli inizi del 1992, nella casa di Mario Santo Di Matteo, dove gli fu ritualmente presentato come “uomo d’onore”da Gioè .

Lo rivide successivamente due-tre volte, allorché Filippo Graviano cercò Gioè per lasciargli dei messaggi da recapitare a Giovanni Brusca.


Filippo Graviano era uomo d’onore della famiglia di Brancaccio. Il capomandamento era Giuseppe Graviano come tale presentatogli da Biondino, ma ha aggiunto, riferendo discorsi di Bagarella: “Quando lui parlava dei Graviano, parlava sempre al plurale come ne sto parlando io adesso. Però, quando si parlava di cose in particolare, lui si riferiva a Giuseppe Graviano. Quando li incontrava, diceva: ‘ho incontrato i Graviano’, non so poi... di solito era quelli che giravano, erano il Filippo e Giuseppe.”

Antonino Cosentino (introdotto dallo zio Giuseppe Pulvirenti nella famiglia Santapaola di Catania nel 1987, arrestato il 10-5-93, rende dichiarazioni dal novembre 1994 ed è sottoposto a programma di protezione).
Ha dichiarato di essere stato detenuto nel carcere di Paola insieme a Benedetto Graviano nel 1994, verso aprile-maggio. All’epoca conosceva solo di nome i tre fratelli Graviano; non li aveva mai visti o incontrati personalmente.
Fece amicizia con Benedetto nel corso della codetenzione e ne ebbe delle confidenze; alcune relative alle stragi del 1993.

Benedetto, in particolare, coi suoi discorsi, gli fece capire che gli altri due fratelli, Giuseppe e Filippo, erano tra i coautori delle stragi: “Mah, si parlava. Certamente, specificamente che è stato lui che mi ha detto ‘sono stati i miei fratelli’, non me lo ha detto. Che però che dava a capire che era una situazione che i suoi fratelli erano coinvolti, sì. Perché, di come si parlava, dava la certezza di queste situazioni.”



Antonio Patti (“combinato” in cosa nostra nel 1979 nella famiglia di Marsala, condannato all’ergastolo per omicidio, si dissocia e rende dichiarazioni dal giugno 1995).
Durante un periodo di comune detenzione all’Ucciardone (1988-1989) conobbe Filippo Quartararo della famiglia di Roccella presentatogli da Vincenzo Puccio, prima che questi venisse ucciso. Usciti di carcere Quartararo gli fece conoscere Grigoli e Giacalone che collaboravano con lui nel commercio di auto; quando Quartararo fu ucciso, ricevette Giacalone che gli si rivolse sconvolto, ma egli non fu in grado di intervenire. Sempre per tramite di Quartararo seppe che Nino Mangano, assicuratore, era della famiglia di Roccella.

E)

Giovanni Ciaramitaro (introdotto in cosa nostra da Francesco Giuliano nel 1993, arrestato il 23-2-96, rende dichiarazioni dal 23-2-96 ed è sottoposto a regime di protezione)


Giuliano gli riferì che l’uccisione di Contorno interessava particolarmente ai fratelli Graviano, perché si diceva che il Contorno, nel periodo della guerra di mafia dei primi anni “80, aveva ammazzato il loro padre.
Giuliano fu pure quello che gli fece confidenze sulle stragi:

“Dopo che lui cominciava, si è cominciato a sbilanciarsi, che parlava spesso di questo attentato, quando è venuto il Lo Nigro che si lamentava che non si fece più nulla. Dopo, quando se ne sono andati tutti, Giuliano commentava con me che quando c’erano i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano fuori, che loro sovvenzionavano i soldi per fare le trasferte, allora si facevano questi lavori di attentati. Di quando i fratelli non ci sono più, Nino Mangano se ne frega, che non vuole sovvenzionare i soldi per fare affrontare i soldi delle... Cioè, praticamente lui diceva che Nino Mangano se ne fregava di questi attentati e lui commentava questi discorsi con me.”


Ha precisato di non aver mai conosciuto personalmente i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ma di averne sempre sentito parlare da Francesco Giuliano, il quale “ne parlava che erano... come il Dio in persona ne parlava, ne parlava bene, sempre bene di queste due persone.”

Ma poi ha aggiunto, riferito al solo Giuseppe Graviano:

“Diceva che quando c’era Giuseppe tutti questi problemi non ce n’era, si campava meglio, Giuseppe dava la possibilità a tutti di vivere, cioè di campare, che Nino Mangano questo non lo fece.”
Sempre Giuliano gli raccontò che, ogniqualvolta si spostavano per recarsi fuori delle Sicilia, Giuseppe Graviano dava loro 10 milioni a testa per affrontare le spese.
Ha detto che Spataro e D’Agostino furono ritenuti responsabili, nell’ambiente di Brancaccio, dell’arresto di Giuseppe e Filippo Graviano. Per questo si era deciso di ucciderli.
Ha descritto nei dettagli i suoi rapporti e le ragioni della sua conoscenza con tutti coloro che dipendevano da Nino Mangano.

Agostino Trombetta (introdotto in cosa nostra da Spatuzza nel 1989, arrestato il 14-4-96, rende dichiarazioni dal 14-4-96).
Uomo di Spatuzza, che abitava, con la moglie, in via Conte Federico, in un appartamento di proprietà dei fratelli Graviano, svolgeva nel gruppo funzioni di “armiere” prelevando, all’occorrenza, pistole e fucili della famiglia dai luoghi ove erano tenute nascoste.
Conobbe tutti i componenti del gruppo di fuoco di Brancaccio e, esperto in furti d’auto, procurava loro le macchine per le azioni criminali.

Si rese conto in particolare che, nel periodo delle stragi, alcuni di essi, Giuliano, Spatuzza, Romeo, Giacalone, Lo Nigro, Grigoli, partivano per andare fuori Palermo.


Ha detto di aver conosciuto uno dei fratelli Graviano, ma non se ne ricorda il nome. Si trattava, comunque, o di Giuseppe o di Filippo.

Giuseppe D'Agostino (“vicino” a cosa nostra, arrestato il 27-1-94 per favoreggiamento dei fratelli Graviano, rende dichiarazioni dal marzo 1996)
Anch’egli ha spiegato la natura dei suoi rapporti con la famiglia di Brancaccio.

Era entrato in contatto con Cannella, presentatogli dal cognato Salvatore Spataro, per risolvere una controversia su una fornitura di abbigliamento che aveva con Grigoli. Intervenne Mangano. Riuscì ad ottenere il dovuto.


Fu così che Cannella gli chiese di ospitare a casa sua, raccomandandogli che era “persona importante”, Giuseppe Graviano. Questi, in effetti, si presentò con la fidanzata Rosalia Galdi, accompagnato da Cesare Lupo. Sapeva che era latitante.
Si instaurò una relazione di amicizia e confidenza e Graviano, il quale gli faceva regali anche in denaro, gli dette un appuntamento per il 27.1.1994 in un albergo a Milano allo scopo, a quanto gli diceva, di procuragli un lavoro in quella città. Vi si recò in treno con il cognato Spataro. Si videro anche con Filippo Graviano, che propriamente avrebbe dovuto occuparsi della richiesta di lavoro, ma furono tutti arrestati mentre stavano iniziando a cenare in un ristorante.

Rimesso in libertà e tornato a Palermo fu avvicinato da Pizzo che voleva informazioni su quanto accaduto a Milano.



Salvatore Spataro(“vicino” a cosa Nostra dal 1990, arrestato a marzo 1996, rende dichiarazioni dal marzo 1996).
Fu arrestato il 27-1-94 a Milano insieme a Giuseppe e Filippo Graviano. Quella sera stessa furono portati in Questura e qui stette, nella stessa stanza, insieme a Giuseppe e Filippo Graviano, i quali lo rassicurarono circa le spese legali da sostenersi.

Infatti, attraverso Giorgio Pizzo e Nicola Lipari furono recapitati a sua moglie sette milioni e mezzo.


Ha detto che Giorgio Pizzo era persona “vicina ai fratelli Graviano”.
Nel 1983-1984, partecipò alla rapina ad un furgone postale di Belmonte Mezzagno, al cui profitto parteciparano in larga misura i Graviano.
I Graviano erano titolari della Palermitana Blocchetti, e proprietari anche di un distributore di benzina, gestito da Marcello Tutino, nonchè di una concessionaria di automobili, la Renault Service.
Ha riferito di conoscere da sempre i fratelli Graviano, perché la nonna abitava di fronte casa loro. Frequentò con loro la stessa scuola; si vedevano anche nel tempo libero e per gli svaghi giovanili, soprattutto con Filippo e Benedetto.
Nel 1991, su richiesta di Cristofaro Cannella, procurò a Filippo Graviano, latitante, la carta di di identità intestata a suo fratello Franco. Ne ebbe in compenso un milione per sé ed un altro per suo fratello.
Dopo qualche tempo, intorno al 1992, Vittorio Tutino chiese a suo fratello Franco di intestarsi anche un’auto che doveva servire a Filippo Graviano. In effetti, Franco si intestò una Peugeot 106 che fu consegnata alla fidanzata di Filippo.
Conobbe tale Costantino, il quale si intestò un telefonino che era posseduto dalla Galdi o dalla Buttitta (le fidanzate dei Graviano). Il telefonino, però, serviva “ai Graviano”.
I suoi rapporti con cosa nostra, insomma, erano indotti dai fratelli Graviano: “Sulla base che, qualsiasi cosa che si faceva là a Brancaccio, se pure io volevo andare a fare una rapina, ne dovevo parlare sempre con loro. Doveva passare sempre un permesso a qualcuno.”

Giovanni Garofalo (in cosa nostra dal 1993, arrestato il 2.7.1997, rende dichiarazioni dal settembre 1997 ed è sottoposto a programma di protezione)
Fu avvicinato, dopo un periodo di carcerazione da aprile a ottobre 1993, da Barranca, Lo Nigro e Giuliano che già conosceva per avere con loro, in precedenza, commesso dei reati. Non venne “ritualmente combinato” perché gli fu detto che il cerimoniale era ormai stato svelato dai pentiti e Bagarella aveva stabilito che non vi si ricorresse più.
Fece parte del gruppo di fuoco di Brancaccio alle dipendenze di Giuseppe Graviano, che tuttavia non fece a tempo a conoscere personalmente, e, in seguito, di Nino Mangano.

Era a disposizione per qualunque azione, ma la sua “specialità” era il traffico di stupefacenti.


Cognato di E. Di Filippo, conobbe, accompagnato da P. Di Filippo, Bagarella incontrandolo nella “camera della morte” dove era giunto con il suo autista Calvaruso.

Conobbe Romeo, Faia, e da ultimo Spatuzza.

Conobbe il suocero di Lo Nigro, Giacalone, Carra (che si lamentava di essere pagato poco da Barranca per i rischi che si prendeva) nonché, in posizione più defilata, Trombetta e Ciaramitaro.

Pizzo, Tutino e C. Cannella gli risulta facessero parte di un gruppo di fuoco riservato agli ordini di Mangano e Bagarella.


Quando comunicò a Giuliano la notizia della dissociazione di Carra, questi gli espresse i suoi timori, e nello stesso modo Giuliano reagì, unitamente a Romeo, a proposito delle dichiarazioni di Di Natale.

Sia Giuliano che Romeo li aveva visti di ritorno da Roma, con una Uno bianca al distributore di Giuliano, dopo il viaggio compiuto per spostare l’esplosivo dal giardino della villa di Capena.

F)

I soprannomi non sono soltanto consequentia rerum, non semplicemente riflettono la natura del personaggio o lo individuano in modo caricaturale con riguardo a connotati fisici o caratteriali.


Nei rapporti tra i componenti della famiglia di Brancaccio, come sarà evidente sub G nel commento alla documentazione rinvenuta in possesso di Mangano, si faceva uso di soprannomi per finalità intrinseche all’esistenza stessa dell’organizzazione; era cioè un linguaggio cifrato, un codice, funzionale alle esigenze di segretezza e clandestinità.

E, nella stessa logica, per riferirsi a Bagarella e Messina Denaro, i quali, come si è visto, nel periodo che interessa, erano in strettissimi rapporti con Brancaccio pur facendo parte di altri mandamenti, si ricorreva non a “nomignoli” ma ai falsi nomi che essi stessi normalmente si attribuivano. Bagarella: “Franco”, “signor Franco”, “zio Franco”, “zio Vito” (su quest’aspetto vi sono innumerevoli dichiarazioni di imputati ex art. 210 c.p.p. ed è sufficiente richiamare quelle del suo autista Calvaruso; quanto allo pseudonimo “zio Vito” quelle di V. Ferro e un accenno in una delle lettere di Graviano); Messina Denaro: “Paolo” (secondo le concordi precisazioni di Sinacori e Geraci).


Sui soprannomi dei capi e dei “ragazzi” (definizione già usata in precedenza per motivi di sintesi, ma da considerare anche “tecnicamente” intesa poiché è tratta dall’epistolario Mangano-Graviano), vi è non convergenza del molteplice, ma assoluta identità di indicazioni e i riscontri costituiti dagli appunti e dalle lettere sequestrate a Mangano:
Giuseppe Graviano è “madre natura”, e così si firma nelle lettere a Mangano, per la generosità nel concedere denaro e benefici, un fiume per il suo popolo;

Mangano è “u signuri”, in quanto poteva disporre, al comando del gruppo di fuoco, della vita e dellla morte, e, ancora, egli stesso si attribuisce nelle lettere a Graviano, che per tale lo riconosce, i soprannomi di “aria” e “marta”;

Spatuzza, per l’incipiente calvizie, è “u tignusu”, che fosse chiamato “succuppo” (sul colpo) lo ha detto solo Grigoli;

Cannella è “zio giacomino” o “giacomino” e anche, per la somiglianza con il presentatore televisivo, ha precisato Grigoli, “castagna”;

Lo Nigro, per l’indole bizzarra e l’imprevedibilità, è “cavallo” o “testa di cavallo” e veniva pure chiamato “bingo” per il motivo, che atterisce, spiegato da Romeo come appreso da Giuliano: “metteva l’esplosivo e al botto diceva: bingo!”;

Barranca è “ghiaccio” “perchè è freddo e calmo” (Romeo) oppure “peppuccio”;

Giuliano è “olivetti”, e si faceva chiamare anche “peppucio”, “pippo” o, quando viaggiava sotto falso nome, “luciano”;

Giacalone è “barbanera”;

Pizzo è “u topinu”;

Benigno è “u picciriddu”;

Grigoli, con evidente allusione non solo alla sua passione venatoria, essendo per sua stessa ammissione assai versato nell’uso delle armi, è “u cacciaturi” oppure “ricciulinu”;

Romeo è “u pietruni” oppure, ma in questo modo lo chiamava l’amico Giuliano, “o cane”;

Pasquale Di Filippo è “la dama”;

Garofalo è “culo di paglia”;

Scarano, basta osservarne la fotografia in atti, è “saddam”.

G)

L’attività investigativa che fu compiuta dalla DIA di Roma consentendo il decisivo risultato dell’arresto di Mangano, avvenuto in Palermo il 24.6.1995, è stata descritta nel processo 12/96 dal teste Rampini.


Le indicazioni necessarie vennero da Pasquale Di Filippo che, seguito e osservato dagli inquirenti, venne fermato nel giugno 1995 e decise di fornire informazioni risultate utilissime per la cattura di Bagarella e dello stesso Mangano. Egli disse, cioè, che per arrivare a Bagarella doveva essere controllato il suo autista Calvaruso e qual era l’effettiva dimora di Mangano.
Nell’appartamento di via Pietro Scaglione vennero sequestrati CCT per 700 milioni, £ 50.516.000 in contanti e copiosissima documentazione (cfr. 145 indice produzioni P.M., f. 22637).

Si trattò, dunque, di un’operazione di polizia eseguita in stretta dipendenza da imprevedibili rivelazioni, effetto dello sviluppo di indagini su pericolosissimi ricercati, la cui origine esclude che possa essersi verificata una qualche forma di inquinamento o manipolazione. La stessa natura dell’oggetto del sequestro, relativo anche a ingenti somme in denaro e titoli, depone per l’assoluta genuinità delle acquisizioni e impedisce di formulare ogni seria illazione.

a)

Le carte contabili sono impressionanti.


Vi si ritrovano dettagliati rendiconti di cassa con precisa indicazione delle entrate e delle uscite con riferimenti a nomi e causali di spesa che per sè sole sarebbero sufficienti a dimostrare l’esistenza del mandamento di Brancaccio.

A titolo meramente esemplificativo si citano, sub 145 cit. :

f. 22663 con imputazioni di somme, tra gli altri, a Paglia, tignusu, Olivetti, Gobbo (si tratta, per unanime indicazione di diversi soggetti sentiti ex art. 210 c.p.p. , di Salvatore Faja, un altro “ragazzo” di Brancaccio non direttamente coinvolto nei fatti per cui è processo), Pietrone, Totò, Carra, Cavallo, Culo di Paglia e fratello del medesimo;

f. 22666 a tignusu, Culo di Paglia, Carra;

22670 a Paglia (tre volte), Pasqua, Fratello Paglia;

f. 22680 a Olivetti, Gobbo (due volte), Giacomino, Cacciatore (per “stipendio”, sic, Feb/Marzo);

f. 22686 a Culo di Paglia e Carra;

f. 22690 a Franco, Toto (due volte), Matteo; f. 22694 a zio dei ragazzi e a Ghiaccio per “anticipo stipendio”.


Risultano appunti con le utenze telefoniche dei luoghi di lavoro di Pizzo e Grigoli, e quella cellulare di Giacalone.
Compare, 145 cit., f. 22697, un elenco di armi micidiali, tra cui il famigerato kalaschnikov, con indicazione dei relativi prezzi come in una lista della spesa.
Sconcerta, infine, un documento, scritto a macchina e a mano, che contiene le istruzioni per intercettare le frequenze radio di vari organi di polizia, non solo dei ROS, della Squadra Mobile, delle Centrali Operative dei CC. e della P. di S., della Finanza, ma persino dei VV.UU. e della Polfer. (145 cit. ; ff. 22700-01 o docc. 45-46).

b)

Completano il quadro tre lettere, fornendo uno spaccato illuminante di questa realtà criminale vissuta evidentemente nella mentalità di coloro che ne erano ai vertici come una vera e propria impresa stabile, duratura, strutturata.



La prima in ordine di tempo sembra essere quella che, indirizzata a “aria” e “marta”, inizia con l’incipit “carissime ciao; mi auguro ..”, ed è firmata “madre natura”. Giuseppe Graviano, il quale ne è certamente l’autore, scrive dal carcere e si compiace di un affettuoso messaggio ricevuto e dell’approvazione da parte di “zio franco” della decisione di “lasciare carta bianca a “aria”;

esprime le sue preoccupazioni per la condizione dei carcerati cui sarebbe stato “diminuito il mensile”;

dà alcune direttive riguardo a rapporti rimasti in sospeso con vari personaggi tra cui Tullio “che mi deve dare i soldi di 13 anni fa...”;

si riferisce, per affari relativi a dazioni di denaro e a appartamenti, a “bingo”, “ghiaccio” e “zio giacomino”;

chiede chiarimenti su “questo cavallo non ho capito che significa”;

espone e giustifica i propri sospetti sulle persone che ritiene abbiano contribuito a farlo arrestare, in particolare su “Salvatore” che “non capisco come mai ... mi ha portato gli sbirri” (cfr. 145 cit. ; doc. 26).


Mangano (cfr. 145 cit.; doc. 25) risponde punto per punto, premettendo ringraziamenti “per la fiducia accordatami” e l’intenzione di “esprimermi al massimo per non deludervi”;

spiega le ragioni delle restrizioni salariali rappresentando un rendiconto che dà la misura del “giro d’affari” del mandamento e uno sbilancio di 100 milioni tra spese e entrate: “gli stipendi attuali ammontano a 474M per i carcerati, 156M per latini (è probabile che questa voce riguardi le spese legali; nde), 270M per le persone indispensabili che girano vicino a noi per un totale di 900M, gli incassi attuali sono 800...”;

fornisce i chiarimenti richiesti sui “sospesi”;

assicura quanto a Salvatore che “... si è deciso di chiudere questa pratica definitivamente ...” e quanto a Tullio che la pendenza va risolvendosi “assieme allo zio Franco”;

mostra di sapere come regolarsi, salvo indicazioni contrarie, con “giacomino, “bingo” e “ghiaccio”; ricorda che “il cavallo e bingo sono la stessa persona”.
L’epistolario si conclude con altra lettera non firmata, ma scritta con la stessa grafia della prima commentata, che costituisce sostanzialmente la presa d’atto delle notizie ricevute, manifestazione di assoluta fedeltà (“... vi trovate nel cuore del mio cuore... Vito mi ha riferito che voi volete più contatti con me ed io sono qua a vostra disposizione ... io vi penso sempre e vi voglio bene ...”) e del consiglio di rivolgersi al “signor Franco e Paolo”, nonchè l’occasione per saluti, abbracci e baci a tutti e in particolare al “signor Franco”, a “Paolo”, a “Bingo”, a “zio Giacomino”, a “Olivetti”, a “cacciatore”.
Ogni commento è superfluo.

Negare l’inequivocabile significato di diretta dimostrazione e di conferma che assumono queste acquisizioni, equivale a disconoscere l’evidenza, a ragionare in un ordine di idee che si pone in rapporto di assoluta, radicale, estraneità rispetto al senso comune prima che al processo penale.

Sono di immediata percezione i riferimenti, per come emergono dalle versioni su Brancaccio riassunte sub B), C), D) e E), ai capi, alla situazione di “reggenza”, agli uomini e alle attività del mandamento. Ma pure specifici episodi concernenti le “relazioni” di Giuseppe Graviano con Spataro e Tullio Cannella, di cui questi hanno ampiamente parlato, formano oggetto della corrispondenza tra Mangano e lo stesso Graviano.
Del resto, quale fosse, da parte dei “ragazzi” di Brancaccio lo sconcerto e la rabbia, per un verso, e, allo stesso tempo, la consapevolezza delle gravi conseguenze che sarebbero derivate dallo sviluppo delle indagini in quella direzione, si comprende, proprio con riguardo al momento in cui un giornale pubblicò la notizia del sequestro delle lettere con un resoconto del loro contenuto, dai commenti, riferiti da Ciaramitaro, che si fecero nel gruppo a proposito della possibilità per gli inquirenti di risalire dai soprannomi all’identificazione dei corrispondenti personaggi e del sospetto, subito ingeneratosi considerata la rivelazione degli interna corporis del mandamento, che Mangano fosse diventato “sbirro”.

H)
a)



Giuseppe Graviano è stato fino al suo arresto il capomandamento di Brancaccio, da cui provenivano come “uomini d’onore” o persone “a disposizione” tutti coloro che, da lui diretti e organizzati anche per tramite di Mangano, hanno partecipato nei termini descritti in parte II alla fase esecutiva.
Fa eccezione Benigno, ma si è visto che egli, pur appartenendo al mandamento di Misilmeri, e per effetto del particolare rapporto tra Brancaccio e Misilmeri, dipendeva comunque da Graviano, e che il suo contributo era indispensabile perché esperto nella preparazione dei telecomandi per provocare l’esplosione a distanza delle autobombe.
Non interessa più di tanto, in questa sede, una volta accertata la posizione apicale di Graviano, stabilire in che misura condividesse il ruolo al vertice con i fratelli Filippo e Benedetto. Tuttavia, è bene darne conto, per un’esigenza di completezza, e al fine di evidenziare, una volta di più, la convergenza del molteplice.
Certamente, a parte la stretta parentela, era con loro in affari, posto che, come si è appreso da Tullio Cannella, Ganci e Spataro e come confermato dal teste Giuttari, appartenevano a costoro la ditta Palermitana Blocchetti Snc (industria di calcestruzzi), di cui era amministratore Filippo e la Renault Service Snc (concessionaria di automobili), di cui era amministratore lo zio Quartararo Andrea.
I fratelli, poi, avevano sicuramente cointeressenza nel villaggio Euromare, per quanto detto da Tullio Cannella e Calvaruso, e come si evince dagli accenni nelle lettere.
La rispettiva influenza, il ruolo specifico e i compiti di ciascuno sono stati in vario modo delineati dalle persone sentite ai sensi dell’art.210 c.p.p. .
E’ a partire dall’arresto di Lucchese che Giuseppe Graviano viene indicato in numerose deposizioni di imputati di reato connesso come il nuovo capo del mandamento (divenuto per conseguenza di Brancaccio) insieme al fratello Filippo e, talvolta, Benedetto.
In questo senso si sono pronunciati quasi tutti coloro che avevano posizioni di rilievo all'interno dell'organizzazione.
Infatti, per Cancemi, in un primo momento fu designato da Riina, a capo del mandamento di Brancaccio, Benedetto Graviano. Poi Riina si accorse che questi “non era tanto sveglio” e gli affiancò i due fratelli Giuseppe e Filippo.
Per Sinacori, il quale veniva informato dal rappresentante provinciale Matteo Messina Denaro, a Brancaccio comandavano Giuseppe e Filippo Graviano (“A Brancaccio, la reggenza l’aveva Giuseppe e Filippo Graviano”).
Per Calogero Ganci, “dopo l'arresto di Lucchese, Riina designò loro come reggenti di Brancaccio”.
Per Cucuzza, tutti i fratelli Graviano avevano retto prima la famiglia, dall’arresto di Savoca, e, dopo Lucchese, il mandamento.
Solo a Brusca risulta una situazione parzialmente diversa: “Filippo, non aveva il grado di capo-mandamento, ma era considerato, non dico alla pari del fratello, ma quasi”, ed ha aggiunto: “Se non c’era Giuseppe, ci potevamo rivolgere benissimo a Filippo, senza nessun problema”. Alle riunioni della commissione partecipava, comunque, Giuseppe Graviano.
Non univocamente si sono pronunciati sul punto molti di coloro che erano organici all'associazione, ma non a livelli dirigenziali.
Per Drago, dopo l’arresto di Lucchese, alla guida del mandamento passò Giuseppe Graviano. Tanto gli fu riferito da suo fratello Giuseppe e da Giuseppe Giuliano.
Per Pennino, quando Filippo fu scarcerato, sia lui che il fratello Giuseppe divennero capi della famiglia e del mandamento di Brancaccio.

Ciò ebbe modo di sapere sia da Drago, quando era ancora libero; sia da Sebastiano Lombardo, che era un altro affiliato alla famiglia di Brancaccio; sia in base alle sue personali deduzioni.


Emanuele Di Filippo ha dichiarato che tutti e tre i fratelli Graviano “avevano un ruolo importante in seno all’organizzazione”; che “tutta la zona di Brancaccio era in mano ai fratelli Graviano e la persona più in carica a livello di comando era Giuseppe”, soprattutto dopo l’arresto di Pino Savoca e ancor più dopo l'arresto di Giuseppe Lucchese.

Questo apprese sia da suo fratello Pasquale; sia da Antonino Giuliano; sia per esperienza diretta; sia perché “era un fatto notorio”.


Per Pasquale Di Filippo erano i fratelli Graviano (in particolare, Filippo e Giuseppe) che “comandavano tutta la zona”.
Per Gioacchino La Barbera il capo-mandamento era Giuseppe, anche se Bagarella, parlando dei Graviano, “parlava sempre al plurale” e anche se “quelli che giravano” erano Filippo e Giuseppe.
Geraci ha riferito ciò che gli disse Matteo Messina Denaro. Questi spiegò che Benedetto Graviano “doveva essere quello che dirigeva la famiglia Graviano”, perché a lui spettava formalmente la carica. In realtà, invece, “era il Giuseppe che dirigeva tutta la famiglia Graviano”.
Secondo Grigoli il capo-mandamento era Giuseppe. Ha aggiunto, però, che c’era una divisione di compiti tra i due fratelli, in quanto Filippo curava, “più che altro, gli aspetti economici” della famiglia mafiosa.
Ciaramitaro ha affermato di non aver mai conosciuto i fratelli Graviano, ma di aver sempre sentito discorsi su di loro dall’amico Giuliano, il quale “ne parlava che erano…come il Dio in persona”. Giuliano, ha precisato, si riferiva a Giuseppe e Filippo Graviano.
Per Calvaruso i Graviano, intesi Giuseppe e Filippo, “prendevano le decisioni alternati: o l’uno o l’altro”; “I Graviano erano tutti e tre persone uguali”.
Per Tullio Cannella i fratelli Graviano, per cultura e tradizione familiare, “sono stati sempre unitissimi, un’anima e un corpo”.
In realtà, dalla valutazione complessiva delle molte dichiarazioni passate in rassegna, che, sebbene frammentariamente riportate, costituiscono, per la diversità di accenti, la migliore dimostrazione dell’attendibilità delle stesse, emerge evidente non una differenza di “gradi” in capo ai due fratelli, ma una differenza di compiti e di ruoli.
Giuseppe Graviano aveva la rappresentanza esterna del mandamento e compiti propriamente operativi.

Filippo, invece, curava principalmente gli aspetti economici della famiglia e del mandamento. Non per questo disdegnava, però, di esercitare la sua funzione in modo “tradizionale”, in circostanze particolari.


Lo schema organizzativo di Brancaccio riproduceva, a ben vedere, quello di Corleone, dove, con assoluta sicurezza, Riina e Provenzano dividevano il comando.

Eppure, le riunioni “esterne” vedevano la partecipazione, quasi sempre, del solo Riina, almeno finché questi fu in libertà . In questo senso si sono espressi Brusca e Cancemi; questo schema traspare dalle parole di Sinacori, G. Ferro, Ganci e di tutti coloro che si sono dichiarati informati sull’argomento.


Giuseppe Graviano aveva sicuramente maggiore “visibilità”; era lui a partecipare agli incontri di “commissione” ed aveva un rapporto diretto, privilegiato, con i “vicini” e con gli “uomini d’onore”, soprattutto quelli del gruppo di fuoco.

Questo spiega perché qualcuno non avesse avuto a che fare con altri che con lui; perché qualcuno possa pensare che il capo fosse lui , e solo lui.


Filippo Graviano, invece, si occupava delle altre questioni suddette. E’ un aspetto che si apprezza sulla base delle concordi deposizioni in merito di Grigoli, D’Agostino, Pasquale Di Filippo, e, chiaramente, da quelle di Pennino, Calvaruso, Tullio Cannella, e Emanuele Di Filippo.
Questa divisione di compiti non solo non è in contraddizione con l’affermata coesistenza dei due Graviano al vertice di Brancaccio, ma ne costituisce la più eloquente conferma.

Essa rappresentava un modulo organizzativo capace di dare ordine ed efficienza alla cogestione delle attività illecite da parte dei fratelli.


E, che si trattasse di attività illecite non mette conto parlarne, ovviamente, in ordine a quanto riferito da Grigoli, Pennino, e dai due Di Filippo. Grigoli ha espressamente precisato che si trattava degli affari della famiglia “mafiosa”, e non di quella di sangue; Pennino che si trattava dei “contributi” annuali per i carcerati; i due Di Filippo parlano di fatti che non hanno bisogno di commenti.
La medesima conclusione si deve trarre quanto al villaggio Euromare e alla controversia al riguardo tra i Graviano e Tullio Cannella su cui intervenne, e risulta anche dalle lettere sub G b), Bagarella, richiesto da Cannella il quale, proteggendone la latitanza, se ne era accattivato le simpatie.

Da Tullio Cannella e Calvaruso si è appreso, infatti, che l’insediamento turistico venne edificato su un terreno acquistato da Michele Graviano (padre dell’odierno imputato, ucciso da Contorno nella guerra di mafia del 1980-81), Pino Greco, detto Scarpuzzedda (capomandamento di Ciaculli alla metà degli anni ‘80) e dal costruttore Domenico Sanseverino.

Non si tratta, cioè, di un’attività immobiliare lecitamente posta in essere, e nemmeno hanno bisogno di essere illustrati i metodi usati dai Graviano per ottenere da Cannella il “dovuto”.
Ma il parametro di più sicuro affidamento per comprendere quale fosse la situazione al vertice di Brancaccio negli anni che interessano è il costante riferimento ai “Graviano” operato dagli imputati ex art. 210 c.p.p. ogniqualvolta hanno parlato delle vicende che coinvolgevano l’organo dirigente del mandamento. Scorrendone le dichiarazioni al riguardo si può apprezzare come siano rari i casi in cui i fratelli vengono tenuti distinti, quasi sempre il rimando ai Graviano è continuo e indifferenziato.
E ciò vale anche per Drago e La Barbera, i quali, non per scienza diretta ma per averlo appreso da altri, mostrano di credere che il rappresentante del mandamento fosse solo Giuseppe.

Drago ha sostenuto che Cristofaro Cannella era a disposizione “dei Graviano”; Spatuzza era vicino “ai Graviano”; Bagarella e “i Graviano” si conoscevano bene; Marcello e Vittorio Tutino erano vicinissimi “ai Graviano” e facevano tutto ciò che gli dicevano “i Graviano”; suo fratello - Drago Giuseppe – faceva tutto ciò che gli dicevano “i Graviano” e prendeva i lavori a S. Giuseppe Iato tramite “i Graviano”.

Secondo La Barbera, Bagarella “ ... quando parlava dei Graviano parlava sempre al plurale”.
Il linguaggio di costoro, e di tutti gli altri, non potrebbe essere più chiaro. Esso non significa che si riferiscano al “mandamento dei Graviano” come quello in cui semplicemente operavano i Graviano. Significa, senza dubbio, che il “mandamento dei Graviano” è quello in cui comandavano i Graviano.
Nè appare contraddittorio che “i Graviano” furono nominati al vertice di Brancaccio da Riina, mentre altri reggenti (per esempio, quanto a Portanuova, prima Cancemi e in seguito Cucuzza) furono designati dal capo-mandamento arrestato. Può essersi trattato della maggiore autorevolezza di Pippo Calò; della circostanza che Cancemi era già, di fatto, reggente quando fu arrestato Calò; del motivo che Riina avesse delegato a Calò il potere di nomina del suo sostituto e non avesse inteso delegarlo a Lucchese.
Riina, del resto, era la persona che prendeva le decisioni più importanti nell’organizzazione e disponeva dei mandamenti: Drago assistette alla nomina di Lucchese; Sinacori ha detto che “non si muoveva foglia” senza il consenso di Riina; Cancemi ha affermato che Riina metteva a capo dei mandamenti solo persone di massima fiducia; Brusca e Giuseppe Ferro hanno ricordato che furono nominati direttamente da Riina.

E Riina sapeva scegliere se è vero, come ha efficacemente spiegato Cucuzza a proposito della guerra di mafia dei primi anni “80, che Riina la vinse “già prima che scoppiasse, mettendo nelle varie famiglie suoi uomini”.


Giuseppe e Filippo Graviano, fratelli nella stessa famiglia di sangue, appartenevano anche alla stessa famiglia mafiosa ed erano davvero “una persona sola”: conducevano insieme gli affari (il villaggio Euromare, la Palermitana Blocchetti, la Renault Service); i divertimenti e le vacanze (da Geraci si è appreso che trascorsero l’estate del 1992 a Triscina di Castelvetrano, ospiti di Messina Denaro; è pacifico che nell’estate del 1993 villeggiarono a Forte dei Marmi anche qui con Messina Denaro; sempre da Geraci si è appreso che ancora con Messina Denaro villeggiarono a Milano, Abano Terme, Rimini, forse nel 1993); erano insieme nella latitanza conclusasi il 27.1.94 a Milano con l’arresto di entrambi.

b)

La preminente personalità criminale di Giuseppe, e la peculiare natura dei suoi compiti al vertice che comportava un rapporto più immediato con i “soldati” e il “gruppo di fuoco”, lo rendeva sicuramente oggetto di maggiore stima e considerazione da parte dei sottoposti, per i quali, non a caso, era “madre natura”.


Ma la responsabilità di Graviano in ordine alle stragi per cui è processo, non si riduce agli elementi, pur sufficienti a fondarla, che derivano dalla sua accertata qualità di capomandamento. La Corte non dubita che furono eseguite da uomini che non si sarebbero mai mossi da Palermo senza il suo ordine o, comunque, senza la sua autorizzazione.
Ridotta in questi termini la responsabilità del capo per le azioni dei sottoposti è perfettamente in linea con i principi generali in tema di compartecipazione nel reato e deve perciò essere necessariamente riconosciuta, nel senso che rileva un profilo di partecipazione psichica al reato, sotto forma di istigazione.
Non è configurabile concorso per la posizione occupata nell’organizzazione, non esiste in diritto penale “colpa per posizione”, né, a maggior ragione, “dolo per posizione”.
Ma nella fattispecie il discorso non si pone in questi termini; qui il “capo”, nella posizione occupata, ha apportato, in concreto e necessariamente, un contributo morale e materiale al determinismo causale complessivo. In questo caso deve esserne riconosciuta la compartecipazione non per la posizione occupata nell’associazione, ma per l’effetto, determinato da volontà deliberata e consapevole, che da quella data, oggettiva, specifica posizione è derivato sulla verificazione dell’evento.
Questo accertamento è assolutamente in linea con i principi dell’ordinamento; non contraddice, e anzi invera, i principi costituzionali della responsabilità personale e della presunzione di non colpevolezza nella misura in cui sia svolto con riguardo alla struttura, al modo di essere, alle finalità dell’associazione criminale che viene in considerazione, e sia riferito ad un’organizzazione storicamente esistente dal momento che molteplici possono essere i moduli organizzativi di un sodalizio criminale.
E' chiaro, infatti, che se non avrebbe senso ricercare la responsabilità del “capo”, o “preposto”, o “dirigente” in un’associazione organizzata per cellule indipendenti, né in una organizzazione caratterizzata dallo spontaneismo dei consociati, invece ha un senso pregnante, logico, dirimente in ordine a un’organizzazione verticistica e a struttura piramidale.
In cosa nostra e nel mandamento di Brancaccio, la regola e la disciplina gerarchiche erano, nel periodo in esame, certe e assolute.

Una tale fisionomia dell’organizzazione risulta non solo dalla sentenza del cd. maxi-processo, ma anche dalle versioni di decine di imputati ex art. 210 c.p.p. .

Sempre ne è venuta confermata la sussistenza di cellule di base (le “famiglie”), organizzate in “mandamenti”. Sempre è venuta la conferma che ogni mandamento ha un suo capo e che questi è in relazione con altri organismi sovraordinati. L’organismo sovraordinato era impersonato, almeno fino alla data del suo arresto, da Riina.
Ciò che rileva di questa organizzazione, per valutare la posizione di Giuseppe Graviano, non è tutta la struttura di “cosa nostra”, ma il funzionamento della famiglia e del mandamento di cui egli rappresentava il vertice.
Né, sotto questo profilo, importa stabilire se Riina avesse imposto una dittatura tale da modificare in radice lo schema organizzativo dell’intera associazione come delineato nella sentenza del “maxi”, oppure se, dopo il suo arresto, ebbe a verificarsi una frammentazione, se “saltarono” alcune regole, se vi fosse ancora una “commissione” deputata a deliberare i delitti strategici. D’altra parte, nemmeno nell’ipotesi accusatoria l’ideazione e decisione delle stragi vengono ricondotte a un tale organismo di vertice, “commissione” o “cupola” che dir si voglia, ma riferite a individuate e circoscritte responsabilità personali cui se ne collegano ulteriori, nel contesto dell’evolversi e del consolidarsi di accordi, alleanze, rapporti di forza, sul piano dell’organizzazione e dell’esecuzione.
Ebbene, lo schema era semplice ed efficace: “i Graviano” comandavano e gli altri, ineluttabilmente, si uniformavano.
I “ragazzi” di Brancaccio non si sarebbero mai mossi dal loro quartiere, non si sarebbero impegnati quasi per un anno in stragi sul continente, senza l’ordine dei loro diretti superiori.
Un approccio diverso alla comprensione della realtà di cui si discute, formalistico e acritico, equivale a non cogliere il senso ultimo, profondo, dell’adesione a “cosa nostra”, della pienezza del modo di appartenervi, della forza cogente e pervasiva del vincolo associativo, che è tanto più intensa quanto più importante è il ruolo svolto nell’organizzazione.

c)

A prescindere dagli assetti e dalla titolarità della reggenza del mandamento, dall’origine dell’autorità esercitata verso i “ragazzi” di Brancaccio, da questi comunque riconosciuta e rispettata, risalta, nella ricostruzione dei fatti che in parte II si è ritenuto corrispondere all’effettività dell’accaduto, una serie di elementi, solidi e inequivocabili, che fonda la serena e tranquillante certezza della sussistenza del concorso di Graviano.


In ordine cronologico rilevano:

- la presenza alle riunioni che precedettero la trasferta romana del febbraio 1992 e la partecipazione alla movimentazione dell’esplosivo e all’ “inchiesta” su Costanzo nella capitale (II, 1 A, C e D);

- lo schierarsi con Bagarella, insieme a Messina Denaro, nelle discussioni sulla linea da seguire dopo l’arresto di Riina (II, 4 E);

- la deliberazione della fase esecutiva in occasione dell’incontro a Bagheria, in casa Vasile, del 1.4.1993 (II, 4 H);

- la sostituzione di C. Cannella con Spatuzza quale capo del gruppo che agì in via Fauro (II, 6 D);

- il contatto con il basista Scarano, dopo la strage di via Fauro, convocato a Misilmeri tramite Cannella (II, 10 A);

- l’ordine di eseguire la strage dell’Olimpico comunicato nel villino di Misilmeri a Giacalone, Grigoli, Giuliano e Spatuzza (II, 10 A);

- l’intervento sul campo in due occasioni durante i preparativi delle stragi dell’Olimpico e di Formello (II, 10 B e 11 A);

- l’esistenza di motivi di odio personale verso Contorno (II, 11 B);

- la disposizione che venisse usato per Contorno esplosivo diverso da quello impiegato per le stragi precedenti (II, 11 C).


Occorre, infine, considerare che l’organizzazione e la gestione della vasta impresa criminosa comportò un impegno estremamente dispendioso di uomini e di mezzi: per un periodo di notevole durata si rese necessario assicurare il soggiorno in continente e continui viaggi tra la Sicilia e il settentrione a una decina di persone; venne acquisita la disponibilità di vari appartamenti; furono procurate automobili; reperiti e trasportati esplosivi.

Per il compimento di quest’opera si fece quindi ricorso a tutte le energie del mandamento, impiegandone in maniera considerevole, le risorse umane e finanziarie.


Né si tratta di un mero ragionamento indiziario, che comunque sarebbe sorretto da argomenti logici, congruenti e persuasivi.

Ciaramitaro ha esplicitamente parlato della larghezza “dei Graviano” nel finanziare le stragi: nell’ordine anche di 10 milioni per volta a ciascuno dei “ragazzi”, i quali, sempre secondo il suo dire, non per nulla si lamentarono del fatto che Mangano, dopo l’arresto dei fratelli di Brancaccio, non si era mostrato altrettanto generoso.

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