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In nome del Popolo italiano La prima Corte di Assise di Firenze


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GLI ASSETTI DI VERTICE,

GLI SCHIERAMENTI, LE DECISIONI DOPO IL 15.1.1993

A)

Giovanni Brusca, spiegando il senso dell’ordine ricevuto da Riina per tramite di Biondino quando gli fu comunicato: “ci vorrebbe un altro colpetto per fare tornare a queste persone ... per farle trattare”, ha dichiarato: “Cioè, cosa significa? Che noi avremmo dimostrato i muscoli, quindi, facendo un altro attentato e avremmo smesso fino a quando non avremmo ottenuto qualcosa.” Egli ha aggiunto: “Credo che si doveva riprendere l’argomento ... proprio il giorno in cui Salvatore Riina venne arrestato, che sarebbe il giorno 15.1.1993 ... c’ero io, Bagarella, c’era Giuseppe Graviano, c’era Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Cancemi e non so se ci dovevano essere altri capimandamento. Però questi qua ci dovevano essere.”



La convinzione di Brusca sembrerebbe in effetti corrispondere alla realtà di una riunione certamente non ordinaria.

La Barbera, il quale nell’occasione lo aveva accompagnato, ricorda che, avvertiti da Salvatore Biondo di andarsene perché “è successo qualcosa di brutto”, furono raggiunti all’officina di Michele Traina, in Falsomiele, dove avevano riparato, da Bagarella il quale, commentando la cattura di Riina, disse: “meno male che l’hanno arrestato lì e non l’hanno seguito sennò arrestavano anche Messina Denaro, Biondo, Graviano e tutti gli altri”. Sinacori ha confermato che quel giorno aveva accompagnato Messina Denaro a un incontro a Palermo, e anche Cancemi ha riferito che avrebbe dovuto parteciparvi trattandosi di una riunione di “commissione”.

In particolare, deve essere rimarcata la prevista partecipazione di Messina Denaro, che non era un capomandamento di Palermo e che rappresentava la provincia di Trapani. Si ricorderà, inoltre, che, come l’altro convocato Giuseppe Graviano, aveva partecipato al viaggio a Roma nel febbraio 1992 e che era colui che teneva i rapporti con Scarano.

B)

Le rivelazioni di Brusca, il quale visse la fase successiva con l’intenzione di recitarvi un ruolo da protagonista, di costituire un elemento trainante e un punto di riferimento, permettono di delineare in modo più preciso rispetto al contributo offerto da altre persone esaminate ex art. 210 c.p.p. (Cancemi, Calogero Ganci, La Barbera, Cucuzza) le dinamiche interne all’organizzazione e il formarsi delle decisioni conseguenti.



Parimenti quelle di Sinacori, benché, da parte sua, costituiscano il portato delle conoscenze di cui il proprio “rappresentante provinciale” Messina Denaro lo metteva a parte per tenerlo informato dell’evolversi delle posizioni al livello dei vertici di cosa nostra.
Questo periodo deve essere analizzato sotto diversi rilevanti profili, tutti utili alla comprensione del percorso che condusse alle risoluzioni più propriamente preparatorie e organizzative dei delitti imputati a Riina e Graviano, fermo restando che già erano state poste le basi per la concreta attuazione dell’attentato a Costanzo.
Nell’ambito preso in considerazione rilevano:

- le riunioni tra i capimandamento sulla linea di condotta da adottare dopo l’arresto di Riina, e le posizioni assunte in proposito da Brusca, Bagarella e Provenzano, nonché i rapporti tra di loro e con il gruppo dei palermitani (Cancemi, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera) che già dopo le stragi del 1992 avevano cominciato a dissentire, pur senza manifestare tale opinione, dal disegno perseguito da Riina;

- l’emergere, anzi l’assestarsi, di un gruppo contrario alla “guerra allo Stato”, in opposizione all’ala oltranzista guidata da Bagarella;

- la rinnovata offensiva contro Costanzo, per la quale fu in un primo momento richiesto l’intervento dei catanesi, che venne riproposta anche per effetto di una trasmissione televisiva condotta dal giornalista in cui si festeggiò l’arresto di Riina (esclamazioni di gioia e soddisfazione da parte di Costanzo sono state riferite da La Barbera e G. Ferro), e che costituì, si vedrà, uno dei motivi del dissidio che insorse tra Brusca e Bagarella.


Accadde, inoltre, che, tra il 20 e il 23 marzo, vennero fermati La Barbera e Gioè (quest’ultimo si sarebbe suicidato in carcere lasciando la lettera che si è detto), dopo un periodo, durato circa venti giorni, di intercettazione delle conversazioni tra i due in un appartamento posto in Palermo, via G.B. Ughetti. Sull’oggetto delle conversazioni ha deposto nel processo 12/96 il teste Gratteri, riferendo che riguardavano, tra l’altro, attentati contro agenti di polizia penitenziaria e a un non meglio identificato Tribunale.

C)

La profondità della spaccatura che si verificò in cosa nostra dopo il 15.1.1993 è resa con grande efficacia da un’importante dichiarazione di Sinacori, che si salda in modo del tutto coerente alla versione di Brusca, nel corso del suo controesame all’udienza del 29.4.1999. Egli ha sostenuto, infatti, che se Bernardo Provenzano non avesse mediato tra i due schieramenti che si erano delineati, vi sarebbe stata una nuova guerra di mafia.


Il punto di mediazione fu il limite del consenso prestato da Provenzano a Bagarella sulla prosecuzione della linea stragista da questi fermamente voluta come inevitabile e “naturale” sviluppo del disegno di ricatto allo Stato deliberato da Riina, programma su cui non vi era più ragione, considerato il fallimento delle trattative e la risposta che nei fatti era stata data alle ipotesi di compromesso, di mantenere una posizione attendista. La condizione di quel consenso, si diceva, il risultato del lavoro “diplomatico” di Provenzano, fu che la ripresa dell’iniziativa volta a piegare le Istituzioni, per mezzo di un attacco che fosse portato su obiettivi e con modalità tali da suscitare nella società civile senso di insicurezza e di allarme generalizzato, per mezzo quindi del terrorismo, dovesse dispiegarsi al Nord, fuori dal territorio siciliano.
Bagarella si preoccupò subito di ricercare l’appoggio di Provenzano. La Barbera, circa 15 gg. dopo l’arresto di Riina, lo accompagnò a un incontro con il capo di Corleone, all’esito del quale lo stesso Bagarella, parlando con Brusca, espresse la propria soddisfazione perché Provenzano si era detto d’accordo sul “continuare con gli stessi discorsi che erano stati fatti prima”, “ ... non era cambiato niente, questo voleva dire”, e concluse: “Fino a quando c’è l’ultimo corleonese fuori, continua tutto come prima.”
Analogo convincimento Bagarella espresse durante una discussione, avvenuta a gennaio 1993 in casa di Gaetano Sangiorgi, riportata da Brusca, quando Gioè prospettò l’ipotesi di riparare per qualche tempo all’estero (era presente anche La Barbera), replicando: “Finché c’è l’ultimo corleonese, di qua non si muove nessuno. Chi se ne vuole andare, se ne va.”.
Bagarella definiva “miserabili”, sprezzante in specie verso i Ganci da lui giudicati - a dire di Toni Calvaruso - “buoni solo a tagliare la carne”, coloro che avevano letto gli avvenimenti della seconda metà del 1992 (la reazione alle stragi di Capaci e via D’Amelio, l’introduzione del 41 bis, il proliferare delle collaborazioni anche di importanti “uomini d’onore” come Marchese e Drago, la missione affidata a reparti dell’Esercito denominata “Vespri Siciliani”) come il risultato di una scelta improvvida e contraria agli interessi di cosa nostra.
Brusca aveva parlato con queste persone, ritenendo che soprattutto Raffaele Ganci, capomandamento della Noce, fosse uomo, in quanto di risalente militanza e autorevolezza in cosa nostra nonché da sempre molto legato a Riina del quale aveva per lungo tempo protetto la latitanza (le dichiarazioni del figlio Calogero danno ampiamente conto di quest’aspetto), il cui parere dovesse essere ascoltato e tenuto in forte considerazione.

Richiese un incontro con lui, che si tenne in effetti dopo circa dieci giorni la cattura di Riina, in casa di certo Girolamo Guddo, a Palermo, presenti pure Cancemi e Michelangelo La Barbera. Brusca non si espose, capì che gli altri erano decisi a non proseguire sulla linea stragista, e ne ebbe la conferma alla fine della riunione nel momento in cui, appartatosi con Ganci, questi alle sue domande rispose che si era stabilito di fermarsi; egli mostrò di assecondare tale opinione.

In seguito, secondo la versione di Brusca, Ganci avrebbe riferito l’episodio a Giuseppe Graviano, il quale lo avrebbe a sua volta raccontato a Bagarella. Fu così che tra Brusca e Bagarella i rapporti si guastarono (altri motivi di contrasto vi furono sulla gestione dell’attentato a Costanzo e a causa delle reciproche relazioni con G. Ferro che, insofferente delle intromissioni di Brusca nel mandamento di Alcamo, aveva cercato appoggi in Bagarella), per ricomporsi, a fine settembre-ottobre 1993, in occasione di un incontro a San Mauro Castelverde, in una casa nella disponibilità della cosca dei Farinella, quando Brusca manifestò piena adesione, insistendo perché andasse avanti, alla campagna di attacco allo Stato che Bagarella guidava.

D)

E’ un passaggio, l’incontro di San Mauro Castelverde, molto importante, la cui analisi consente di comprendere le motivazioni in quel momento dei vertici di cosa nostra, come in questa logica si ritenesse che le stragi fino ad allora compiute non avevano prodotto gli effetti sperati e venisse maturando la terribile progressione che avrebbe condotto a quella dell’Olimpico.


Conviene, dunque, darne conto riportando fedelmente le parole di Brusca:

“ ... Abbiamo chiarito il discorso di Raffaele Ganci ... Avendo chiarito questo fatto, abbiamo chiarito quello che stava succedendo al nord. e quando lui mi spiega quello che stava succedendo al nord, nel senso che i fatti andavano avanti, gli dico: ‘a che punto siete ?’ Cioè, a quel punto, io entro in gioco. Nel senso, dico: ‘a che punto siete?’ Cioè, mi fece capire che andavano, non andavano ... cioè le cose erano un po’ ferme, un po’ ... non siamo scesi nei particolari. Ci dico: ‘ma scusa, a questo punto non ti conviene più fermarti, vai avanti, non tifermare, perchè se tifermi ora è come se tu hai cominciato e non hai fatto niente’. Non so se rendo chiara l’idea. ... E mi fa capire che non aveva nessun contatto, mi fa capire che forse qualche contatto l’avevano i fratelli Graviano, o Giuseppe Graviano e che l’avevano abbandonato ... . E gli dico: ‘scusa ma, visto che ormai sei nel ballo, continua a ballare’. Dice: ‘beh, ci stiamo muovendo per continuare.’ Quindi il suo progetto, le sue persone, cioè vicino a lui, il suo gruppo, continuavano per andare avanti nei progetti, però che poi io non ho sentito più. ... Io ... gli avevo consigliato, cioè: ‘visto che sei arrivato a questo punto, continua, non ti fermare, perché se ti fermi qua non hai fatto niente.’ ... Cioè, forzare la mano affinchè chi dall’altro lato del tavolo, cioè la parte chi dello Stato c’era i sospetti di venire a trattare, di sollecitarli per ... A quel punto io non vedevo altra lettura, non vedevo altra chiave di lettura a quel momento storico ... Cioè, nel senso: ‘hai fatto quattro attentati’, perché erano quattro mi sembra, tre o quattro, comunque, quelli che ... erano già tutti fatti, quelli che sono stati fatti. Cioè: ‘visto e considerato che sei arrivato a questo punto e ti fermi e non hai ottenuto ancora nessun risultato, cioè non ti fermare più, vai avanti perchè se ti fermi non hai concluso niente. Se ti arrivano, perché lo Stato non è che è uno stupido, ti arrivano, quindi forza la mano, cioè forza, continua affinché c’è qualcuno che viene per fermare questa strategia, questi crimini, cosa dobbiamo fare ?” (cfr. pagg. 106 - 115 della trascrizione del verbale d’udienza 14.1.1998 nel processo 12/96).


In quello stesso lasso di tempo, si vedrà, Salvatore Grigoli, convocato insieme ad altri, ancora a Misilmeri, ricevette da Giuseppe Graviano l’ordine di eseguire la strage dell’Olimpico.
Sinacori, riportando le confidenze che andava facendogli Messina Denaro, ha confermato l’evoluzione che si è detto dei rapporti tra Bagarella e Brusca, e, per conoscenza diretta, ha riferito di un incontro avvenuto in Valderice, pochi giorni dopo la cattura di Bagarella (25.6.1995), presenti, oltre a lui stesso, Messina Denaro, Nicola Di Trapani e Brusca nel corso del quale questi si lamentò di Bagarella “che prima se l’era tirato dentro nelle stragi e poi lo aveva, per così dire, emarginato”. Per inciso, sempre secondo Sinacori, Brusca rischiò di brutto per questi suoi commenti: i trapanesi, infatti, si posero seriamente il problema di ucciderlo, e decisero di soprassedere ritenedo che sarebbe stato necessario il consenso di Provenzano.

E)

In ogni caso non c’è dubbio che si erano formati tre schieramenti:



quello degli “attendisti” Cancemi, R. Ganci e Michelangelo La Barbera; quello degli “oltranzisti” Bagarella, Giuseppe Graviano, Messina Denaro e, con le richiamate particolarità, Brusca; un terzo, infine, rappresentato da Provenzano al quale aderivano Benedetto Spera, Carlo Giuffrè e Pietro Aglieri.
Provenzano, si è visto, si muoveva su una linea mediana, preoccupato di evitare fratture insanabili che, la valutazione di Sinacori può senz’altro essere condivisa, si sarebbero risolte in una nuova guerra di mafia. E, se da un lato risulta, dalle dichiarazioni di Cancemi e di Calogero Ganci, che egli si mostrava con loro determinato ad andare avanti (“... la musica dei corleonesi era sempre uguale ...”), tanto da assumere, in una riunione del marzo 1993, la posizione di Bagarella, proponendo il sequestro e l’omicidio del capitano “Ultimo” e replicando, all’ obiezione di Ganci, sollecitata da un gesto di disapprovazione di Cancemi: “dobbiamo fare la guerra allo Stato?”, con il tipico proclama “bagarelliano” (“Finché c’è un corleonese vivo ... “); dall’altro, aveva a cuore di non inimicarsi Ganci e gli altri domandando a Bagarella, secondo quanto quest’ultimo confidava a Brusca, come avrebbe dovuto regolarsi rispetto alle richieste di spiegazioni sugli attentati al Nord che gli pervenivano, e ricevendo dal co-reggente di Corleone la risentita risposta: “Ti metti un cartellone davanti e gli rispondi, dici, io non so niente. E te ne esci. Quali responsabilità ti devi sentire tu, di questi fatti ?”.
Calogero Ganci e Cancemi, i quali ne hanno parlato vivendo l’esperienza dal punto di vista degli “attendisti” (il primo per il tramite del padre Raffaele), non percepivano chiaramente il ruolo svolto da Provenzano che consideravano semplicemente appiattito sulla linea degli altri corleonesi, definiti da Ganci “pazzi”.

La funzione di cerniera di Provenzano, infatti, poteva essere apprezzata solo da Bagarella e dagli oltranzisti, e ciò è chiaramente emerso dalla versione di Brusca e di Sinacori (in virtù del suo stretto legame con Messina Denaro), e, verosimilmente (ma nessuna di queste persone è stata esaminata ex art. 210 c.p.p.), dai capimandamento che si erano schierati con lui.


Allo stesso modo, non sarebbe stato in grado di coglierla Cucuzza, uscito di carcere a fine 1994, il quale ritenne, in quel momento, Provenzano e i suoi lontani da Bagarella, Messina Denaro e Brusca, tanto da convincersi che Bagarella, visto come colui che, appoggiato da Brusca, deteneva il potere reale, volesse evitare di farlo incontrare con Provenzano. Cucuzza, comunque, non ha avuto incertezze nell’affermare che sia Bagarella che Brusca gli spiegarono che le stragi in continente erano la conseguenza della prosecuzione del piano deliberato da Riina per ricattare lo Stato e costringerne i rappresentanti a venire a patti.
La conclusione, in definitiva, autorizzata dall’analisi complessiva dei contributi di conoscenze acquisiti, è che la ripresa dell’iniziativa di contrapposizione frontale allo Stato, il “riarmo” di cosa nostra dopo il “fermo” imposto da Riina e da questi rimosso sul finire del 1992 quando si rese conto che non era stato pagante, è che l’opzione stragista fu promossa da Bagarella senza soluzione di continuità rispetto al determinismo causale riconducibile all’attività decisionale e di elaborazione strategica del cognato, del quale era stato - pacificamente - il più fedele esecutore di ordini e direttive, fu condivisa da Graviano e Messina Denaro, i quali vi apportarono le necessarie dotazioni di uomini e mezzi (il gruppo di fuoco di Brancaccio e l’esplosivo il primo, gli idonei referenti - Scarano su Roma e la sinergia Ferro-Messana su Firenze - l’altro), nonché da Brusca (il quale, pure, avrebbe preferito soluzioni più “sottili” e insidiose quali le siringhe infettate o i panini avvelenati), fu coordinata e diretta, talvolta sul campo, da Graviano anche per tramite di quell’Antonino Mangano che gli sarebbe succeduto a capomandamento di Brancaccio.

F)

Prima che si manifestasse con evidenza il raffreddamento dei rapporti tra Brusca e Bagarella, per un verso nato proprio per effetto della vicenda di cui ci si accinge a parlare, Bagarella, in una riunione in casa di Leonardo Vasile poco dopo la cattura di Riina, propose di riprendere il progetto dei “sassolini” da togliersi dalle scarpe. Non a caso, il primo dei “sassolini” a cui pensò, tra i tanti obiettivi a suo tempo indicati da Riina come nemici o “amici diventati nemici”, fu Costanzo.


Brusca ha dichiarato che Bagarella, Graviano e Messina Denaro si dicevano a conoscenza delle abitudini e dei movimenti del giornalista e che avevano individuato nel metodo dell’autobomba il sistema migliore per commettere il delitto. Peraltro, sapeva che i catanesi avrebbero potuto intervenire. A luglio 1992, infatti, autorizzato da Riina, aveva sondato la loro disponibilità a organizzare l’azione contro Costanzo.

Così, Brusca, alla riunione da Vasile, fece presente che quei contatti avrebbero potuto essere riattivati.


Ciò fece, in effetti, mandando Gioè in missione a Catania verso il febbraio-marzo 1993, tramite gli “ufficiali di collegamento” della famiglia di Catania Enzo Aiello e Eugenio Galea (dopo il loro arresto agì un certo Fichera). I catanesi risposero che erano in grado di avvicinare Costanzo e ucciderlo con “metodi tradizionali”, usando armi corte. Pulvirenti, Malvagna, Vittorio Maugeri, Antonino Cosentino hanno tutti confermato la circostanza anche con riguardo alla causale del delito progettato, la trasmissione in onda dopo la cattura di Riina.
Ma, in realtà, Bagarella aveva già deciso di mobilitare il gruppo di fuoco di Brancaccio, a disposizione di Graviano e Nino Mangano, e di riattivare Scarano, l’uomo di Messina Denaro a Roma. Né lo fece deflettere un preciso avvertimento da parte di Brusca.

Gioè era stato fermato e, a fini investigativi (teste Gratteri), gli era stato fatto ascoltare il contenuto delle intercettazioni di via Ughetti. Egli, per tramite del fratello con cui aveva avuto un colloquio in carcere, fece sapere al suo capomandamento che “il discorso Costanzo è fuori”. Brusca informò Bagarella consigliando di sospendere l’azione.

A attentato di via Fauro avvenuto, ebbe occasione di rivedersi con Bagarella, ma non entrarono nel merito. Vi era già quel raffreddamento di rapporti dovuto all’episodio Ganci e alle cattive relazioni tra Brusca e G.Ferro; l’insensibilità di Bagarella ai consigli di Brusca accentuò i sospetti e la diffidenza tra i due.

G)

Il quadro che si delinea rivela, dunque, una situazione nel contesto della quale tende a ricostituirsi, a seguito di una fase di assestamento, la struttura gerarchizzata e verticistica di cosa nostra mediante la riaffermazione della strategia di attacco frontale allo Stato in funzione di ricatto elaborata e prefigurata nelle possibili varianti operative ancora a Riina latitante.


I rapporti di forza non si erano modificati.
Bagarella, forte dell’appoggio incondizionato di Graviano e del suo braccio militare costituito dal gruppo di fuoco di Brancaccio (al cui interno aveva stabilito rapporti diretti e avrebbe nel 1994, dopo l’arresto dei Graviano, introdotto Pasquale Di Filippo che destinò, insieme a Giorgio Pizzo, Salvatore Grigoli e Nino Mangano a un gruppo di fuoco riservato) nonché della convinta adesione degli storici alleati trapanesi rappresentati da Messina Denaro, rivendicò l’eredità di quella strategia, preoccupato di coinvolgere Provenzano non perché se ne curasse più di tanto quanto allo scopo di servirsene per convincere i palermitani a non frapporre ostacoli, sprezzante verso costoro che qualificava “miserabili”, risoluto con Brusca dal quale pretendeva solo obbedienza mortificandone le iniziative (i progetti di diffusione di germi patogeni, di avvelenamento di sostanze alimentari, di sottrazione di importanti opere d’arte, il consiglio di rimandare l’attentato a Costanzo) nella misura in cui preludevano ad una assunzione di compiti di “governo” che potessero metterlo in luce al di là dei confini del suo mandamento.
In questa logica Brusca fu estromesso, fino all’incontro di San Mauro Castelverde, dalla gestione degli attentati al Nord. Se ne ha chiara dimostrazione non solo per quello che lo stesso Brusca ha sostenuto.

G. Ferro ha, infatti, ricordato i termini di un colloquio con Bagarella, nel corso di un appuntamento procurato da Gioacchino Calabrò a Bagheria i primi di giugno 1993, presenti Graviano e Messina Denaro. Il corleonese , parlando delle stragi di Roma e Firenze già avvenute, gli raccomandò: “di questi fatti il discorso è sigillato, non si parla neanche coi più intimi” , con evidente riferimento a Brusca, e, ancora, allargando l’allusione ai “dissenzienti”, aggiunse: “Con mio cognato impegni non aveva preso nessuno. D’ora in poi bisogna rispettare i limiti. Il passato è passato.” Bagarella, cioè, si sentiva depositario della volontà di Riina, pienamente legittimato a continuarne l’opera e a raccoglierne il testimone, poteva affrancarsi da quel ruolo da “cane da caccia” (sono parole sue riferite da Calvaruso) che durante il comando del cognato era stato relegato a svolgere.


Non vi fu una “lotta di successione”, Brusca non riuscì a proporsi efficacemente e venne neutralizzato da Bagarella, cosa nostra venne riaggregandosi intorno alla figura di Bagarella il quale fu capace di accreditarsi e di rendere inoffensivo, per mezzo dell’abile interposizione dell’intervento di Provenzano, il dissenso dei “palermitani”.

H)

Il 1.4.1993, Bagarella, Graviano e Messina Denaro, rispettivamente accompagnati dal “genero di Farinella, di Giuseppe Farinella”, da Fifetto Cannella, e da Sinacori, si incontrarono a Bagheria, nella casa di Vasile vicino all’hotel Zagarella, riconosciuta in fotografia da Sinacori che si è detto certo della data della riunione perché, proprio quel giorno e in quel luogo, mentre aspettava in un’altra stanza che i tre finissero di parlare, apprese dalla televisione che era stata emessa nei suoi confronti un’ordinanza di applicazione di custodia cautelare nell’ambito di un’indagine sulle cosche del trapanese che, tra l’altro, aveva condotto all’arresto di Patti. Era previsto l’intervento di Provenzano che però non si fece vedere.


Messina Denaro gli riferì, sulla via del ritorno, che si era deciso di intraprendere l’esecuzione degli attentati al Nord, che si era discusso deplorandola della posizione assunta da Brusca verso Ganci, che Provenzano sarebbe stato informato della risoluzione, che i palermitani non avrebbero potuto interloquire perché le azioni si sarebbero svolte fuori dalla Sicilia.
Sinacori ha poi precisato che poco tempo dopo, intorno al 15 maggio 1993, Messina Denaro lo mise a conoscenza che Provenzano aveva concordato sulle decisioni del 1 aprile, e gli mostrò un libro che raffigurava gli Uffizi, museo individuato come obiettivo di un attentato dinamitardo.

I)

Inesorabilmente, cominciò a ruotare la catena di trasmissione del comando:


Il 18.4.1993, com’è provato dai documenti di viaggio per nave e dai tabulati del cellulare in sua disponibilità, Scarano, convocato per telefono da Cannella (componente del gruppo di fuoco di Brancaccio, conosciuto a Roma, quando era agli ordini di Giuseppe Graviano, nel febbraio 1992), giunse a Palermo con la sua Audi 80 per partecipare al carico sul camion di Pietro Carra di un ingente quantitativo di hashish da trasportare e smerciare nella capitale.
Carra, da sempre vissuto nel quartiere Brancaccio di Palermo e autotrasportatore, già in precedenza coinvolto in traffici e trasporti illeciti (argento provento di rapina e contrabbando di t.l.e.), fu richiesto del trasporto da Giuseppe Barranca (componente del gruppo di fuoco di Brancaccio), e partì da Palermo, per autostrada, verso le ore 18 del 19 aprile.

Questo traffico di droga, su cui si tornerà più avanti, costituì il primo contatto tra Scarano e il gruppo di fuoco di Brancaccio, e la prova generale dell’affidabilità di Carra e dei suoi mezzi per il trasporto dell’esplosivo.


Sempre in aprile, una decina di giorni prima del 27 secondo quanto si può ricostruire dalla valutazione congiunta delle dichiarazioni di Vincenzo Ferro e degli accertamenti sulle liste di volo compiuti dall’ispettore Puggioni, Gioacchino Calabrò (“uomo d’onore” di Castellamare del Golfo e co-reggente del mandamento di Alcamo, insieme a G. Ferro, dopo l’uccisione di Vincenzo Milazzo, e dunque agli ordini, nell’organigramma mafioso, di Messina Denaro, rappresentatnte provinciale di Trapani) convocò il giovane Ferro (il padre era in carcere), tramite Vito Coraci di Alcamo, per chiedergli di recarsi dallo zio materno Antonino Messana, che abitava con la famiglia a Prato in via Sotto l’Organo n. 12, allo scopo di interessarlo per il reperimento di un garage in quella città. Vincenzo Ferro, dopo qualche riluttanza e cedendo alle insistenze di Calabrò, partì in aereo il 27.4.1993 alle ore 6,45 da Palermo.
Le decisioni prese il primo aprile da Bagarella, Graviano e Messina Denaro, ottenuta l’approvazione di Provenzano, avevano introdotto la fase esecutiva.
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