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In nome del Popolo italiano La prima Corte di Assise di Firenze


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CONCLUSIONI DEI DIFENSORI

AVV. MASSIMO BATACCHI di Firenze per MONTICCIOLO GIUSEPPE: attenuante speciale di cui all’art.8 D.L. 152/91 prevalente su tutte le contestate aggravanti, attenuante speciale di cui all’art. 4 D.L. 625/79, attenuanti generiche , determinazione pena nel minimo consentito;

AVV. MASSIMO LAURO di Roma , anche quale sostituto processuale dell’AVV. CLAUDIA NEGRETTI di Roma per BIZZONI ALFREDO: assoluzione per tutti i reati, in via subordinata pena congrua e attenuanti generiche;

AVV.LUCA CIANFERONI di Firenze per RIINA SALVATORE: assoluzione per tutti i reati ascrittigli per non aver commesso il fatto;


AVV. MARIO GRILLO di Palermo per RIINA SALVATORE: assoluzione per tutte le imputazioni ascrittegli;

AVV. GIANGUALBERTO PEPI di Firenze per GRAVIANO GIUSEPPE: assoluzione per non aver commesso i fatti relativi a Costanzo, Firenze, Roma e Milano e perchè il fatto non sussiste per quanto attiene alle stragi dell'Olimpico e di Contorno.



SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Il giudizio celebrato davanti a questa Corte, imputati Salvatore Riina e Giuseppe Graviano (nn. 1/97 e 13/96 R.G. Assise), nasce dalla separazione dal processo n. 12/96 R.G. disposta dalla Sezione II della Corte di Assise di I grado di Firenze.

Le ordinanze ex art. 19 c.p.p. furono emesse il 2.12.1996 e il 3.1.1997, nel corso dell’istruzione dibattimentale prolungatasi per 190 udienze; la sentenza (n. 3/98 Reg. Sent.), deliberata in camera di consiglio dal 1.6.1998, venne pubblicata mediante lettura del dispositivo il 6.6.1998; la motivazione fu depositata in data 21.7.1999.
I processi contro Alfredo Bizzoni e Giuseppe Monticciolo (nn. 4/97 e 2/99 R.G. Assise, il primo già separato dal principale per richiesta di giudizio abbreviato, rigettata per ritenuta impossibilità di definizione allo stato degli atti; l’altro instaurato con autonomo decreto ex art. 429 c.p.p. dell’11.1.1999), sono stati riuniti al n. 13/96 con provvedimento dato all’udienza del 23.2.1999.
L’istruzione dibattimentale, aperta dopo la decisione su alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in ordine alla disciplina della partecipazione al dibattimento a distanza (art. 146 bis disp. att. c.p.p.) e su altre preliminari, si è svolta, ammesse le prove come da ordinanza 12.4.1999, nell’arco di circa 50 udienze dal 14.4. al 19.11.1999:

sono stati acquisiti tutti i verbali del processo 12/96 relativi all’assunzione delle prove diverse dagli esami ex art. 210 c.p.p., nonché i verbali di tali dichiarazioni per cui è intervenuto il consenso ai sensi dell’art. 238 IV co. c.p.p. . Anche in queste fattispecie, peraltro, il P.M. ha ritenuto, ad eccezione di Cosentino, Trombetta, Siclari, Maniscalco, Addolorato, Massimino, Brugoni, Fionda, Santamaria e Frabetti, di procedere all’esame, sebbene in modo riassuntivo e per sommi capi rispetto alle dichiarazioni precedentemente rese.

Invece, l’esame dei testi e imputati di reato connesso che non avevano deposto nel processo 12/96, è stato completo, come pure quello delle persone da sentire ex art. 210 c.p.p. i verbali di dichiarazioni delle quali, altrimenti, per non essere intervenuto il prescritto consenso da parte delle difese Riina e Graviano, non avrebbero potuto essere utilizzati.

I verbali di Scarano, nel frattempo deceduto, sono stati acquisiti ex art. 512 c.p.p.


Terminata l’assunzione delle prove a carico, ha avuto luogo l’esame di Monticciolo e Riina; quello di Bizzoni era stato svolto, sul consenso delle parti, in via anticipata.
L’esame dei testi (Fusco, Fulci, Ferraguto, Pucci, Salazar, Sinisi, Indolfi, Luccarini, Tavormina, Finocchiaro, Romanelli, Di Bernardo, Subranni, Bray, Tognocchi, De Masi, Pirastru, Spada, Corsi, Manzi) e degli imputati ex art. 210 c.p.p. ( Di Maggio, Lo Nigro, Scarantino, Annacondia, Siino; Vittorio Mangano, Cocozza e Ciancimino avvalsisi della facoltà di non rispondere) ammesso su richiesta delle difese, ha concluso l’istruzione.
La Corte si è ritirata in camera di consiglio, esaurita la discussione e ascoltate le repliche, all’udienza del 18.1.2000; la sentenza è stata pubblicata, mediante lettura del dispositivo, all’udienza del 21.1.2000 .
***

PREMESSE E INTRODUZIONE


A) Il metodo di esposizione dei “risultati acquisiti”.


La brevità della sintesi dello svolgimento del processo anticipa anche il metodo che sarà seguito nell’esposizione, ai sensi dell’art. 192 I co. c.p.p., dei risultati acquisiti.
Il materiale oggetto di valutazione è di enorme complessità e, per la gran parte, è già stato organicamente ordinato nella sentenza emessa nel processo 12/96. Ovviamente, non versandosi in ipotesi ex art. 238 bis c.p.p. ed essendo stata ammessa la sentenza solo come documento, essa non riveste alcuna diretta valenza probatoria.

Tuttavia, per evidenti ragioni di economia processuale e siccome nell’elaborato sono riportati fedelmente - scontata l’assoluta autonomia dei giudizi espressi da quella Corte - risultati dell’assunzione di prove che anche in questa sede devono essere considerati, sarà opportuno rinviare alle parti di verbalizzazione già catalogate per argomenti specifici nella sentenza in discorso e, in generale, alle trascrizioni della riproduzione fonografica. Si eviterà, per tal modo, di appesantire inutilmente la rassegna dei temi da esaminare e di dettagliare minuziosamente:

- nomi, qualità, condizioni personali dei testi;

- titoli e professionalità dei cc.tt.;

- date delle udienze nel corso delle quali si è proceduto all’esame;

- contestazioni;

- modalità di funzionamento di utenze telefoniche cellulari e specificazioni dei relativi tabulati (a questo riguardo è sufficiente rimandare alle deposizioni del m.llo Massimo Cappottella e del c.t. del P.M. ing. Eugenio Staiano riassunte, senza alcun apprezzamento valutativo, alle pagg. 351-353 della sentenza suddetta);

- descrizione analitica di corpi di reato;

- estremi delle sentenze prodotte e quant’altro ritenuto non strettamente necessario alla comprensione dei contenuti della motivazione e dei criteri adottati.

B) “Cosa nostra”.


Riina è accusato delle stragi e dei delitti connessi quale mandante “... in ragione anche della posizione di vertice assunta - e del conseguente ruolo decisionale esercitato - nell’ambito dell’associazione di tipo mafioso ‘cosa nostra’... ” ; Graviano quale “ ... responsabile, in ragione anche della collocazione al vertice del “mandamento di Brancaccio”, della organizzazione di tutti i fatti di strage...“.
La verifica dell’accusa, quindi, deve necessariamente ricomprendere la valutazione sull’esistenza di “cosa nostra”, sulla natura, struttura, influenza territoriale, organizzazione, articolazione, assetti di vertice dell’associazione.

Sul significato di termini quali “affiliato”, “combinato”, “pungiuta”, “persona vicina” o “a disposizione”, “uomo d’onore”, “soldato”, “capodecina”, “consigliere”, “gruppo di fuoco”, “vicecapo”, “famiglia” e “capofamiglia”, “mandamento” e “capomandamento”, “reggente”, “commissione provinciale” e “commissione interprovinciale”, “cupola”, “guerra di mafia” degli anni 1981-1982, “corleonesi”, “vincenti”, “perdenti”, non si può che rimandare alle sentenze del cd. “maxi”, e cioè a quanto reso cosa giudicata da Cass. 30.1.1992, Sez. I, n. 80/92 a conferma, sul punto, di Corte di Assise di I grado di Palermo del 16.12.1987, n. 39/87, Abbate Giovanni + 459 e di Corte di Assise di Appello di Palermo del 10.12.1990, n. 91/90, Abbate Giovanni + 386.


Per mero, e pur doveroso tuziorismo, è sufficiente precisare, in osservanza alla regola di giudizio prescritta dall’art. 238 bis c.p.p., che la prova dell’esistenza di “cosa nostra” come associazione riconducibile all’art. 416 bis c.p., e degli altri fatti sommariamente indicati che ne discendono accertati nelle sentenze citate, è stata confermata, e anzi, data per scontata, dalla pletora di imputati sentiti ai sensi dell’art. 210 c.p.p. sia in questo che nel processo 12/96.
Salvatore Riina, invece, ha dichiarato, in sede di esame chiesto dalla difesa Graviano, di non aver mai sentito parlare di “cosa nostra”:
pag.4766:

P.M. :“... lei di questa organizzazione che si chiama cosa nostra ha mai sentito parlare? “

Riina: “No, non ho mai sentito parlare”.
Dunque, la negazione del giudicato (in particolare si vedano pagg. 6346-6358 e paragrafo 6.1 n. 39/87; pagg. 3402-3407 n.91/90), e della relativa ricostruzione del fenomeno senz’altro veridica e rilevante ex art. 187 c.p. oltre che corroborata dalla cennata miriade di riscontri esterni sinergicamente individualizzanti, che definisce Salvatore Riina come reggente insieme a Bernardo Provenzano (al quale è accomunato dall’eloquente soprannome di “le belve” e con lui succeduto a Luciano Leggio dopo l’arresto di quest’ultimo) del mandamento di Corleone, capo cioè delle famiglie vincenti la guerra di mafia conclusasi con lo sterminio di numerosi affiliati alle cosche guidate dai perdenti Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, e con l’affermazione del potere assoluto in cosa nostra della fazione cd., per l’appunto, dei “corleonesi”.
Da allora e fino alla data del suo arresto, avvenuto il 15.1.1993, non è revocabile in dubbio, secondo quanto concordemente riferito in questo processo dall’ultimo dei soldati fino ai più importanti capimandamento, che Riina sia stato il capo assoluto e riconosciuto di cosa nostra, che ne abbia dominato la commissione, che abbia imposto sempre e comunque, ad ogni livello dell’organizzazione, la sua volontà e il suo comando.
D’altra parte, i mutamenti degli assetti di vertice in cosa nostra, il cambio di classe dirigente si direbbe in politica, non avvengono certo con metodi incruenti, e causano, quando accadono, fenomeni di inusitata ferocia e barbarie, i cd. regolamenti di conti tra cosche rivali, con effetti di immediata e terrificante evidenza. Nulla di tutto ciò si è verificato dopo la presa del potere in cosa nostra da parte dei “corleonesi”.

C) Il mandamento di Brancaccio. Rinvio.


Il convincimento della Corte in ordine all’ipotesi accusatoria nei confronti di Graviano sarà espresso, in ossequio al principio costituzionale del principio di personalità della responsabilità penale e di estraneità al sistema di qualsiasi forma di automatica e presunta responsabilità di “posizione” o “per assunzione di carica”, non solo sul presupposto della verifica della sua asserita qualità di capomandamento di Brancaccio, ma, anche e soprattutto, nella disamina del configurarsi cronologico e nello stabilizzarsi dell’assetto di vertice del mandamento, dell’istituzione di un gruppo di fuoco come struttura “operativa” e militare servente, delle concrete relazioni tra l’imputato stesso e gli autori delle stragi e della natura del legame, delle precise direttive da lui impartite per la preparazione e attuazione del programma criminale, della sua presenza “sul campo” in alcune occasioni, delle acquisizioni costituite da lettere, a lui certamente riconducibili, sequestrate a Antonino Mangano.

D) I fatti di sangue e le stragi del 1992. Le leggi sui collaboratori di giustizia, sull’attenuante di dissociazione, e sul cd. “carcere duro”.


Fanno parte della storia recente del Paese l’omicidio dell’on.le Salvo Lima, in Mondello il 12.3.1992, le stragi di Capaci e via D’Amelio del 23.5. e del 19.7.1992, l’entrata in vigore del D.L. 15.1.1991 n.8, convertito con modificazioni nella L. 15.3.1991 n.81, contenente “Nuove norme per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia” e dei successivi collegati D.L.vo 29.3.1993 n.119 e D.M. 24.11.1994 n.687, dell’art. 8 della L. 12.7.1991 n.203, nonché del D.L. 8.6.1992 n. 306, convertito con modificazioni nella L. 7.8.1992 n. 356 di aggiunta, tra l’altro, all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario di un secondo comma che prevede “...la facoltà di sospendere in tutto o in parte nei confronti dei detenuti ... l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”.

Questi eventi saranno inevitabilmente richiamati perché, secondo l’accusa, influenzano e, in buona sostanza, determinano i comportamenti e i fatti contestati a Riina e Graviano.

E) L’applicazione delle leggi sui collaboratori di giustizia e dell’art. 41 bis II co. L. 354/75 a Riina e Graviano.
Il processo, e parimenti quello da cui deriva, non sarebbe stato possibile senza il contributo delle persone esaminate ai sensi dell’art. 210 c.p.p., si tratti o meno di collaboratori in senso tecnico.

Sussistono molteplici elementi di prova oggettiva, ma per la gran parte a riscontro, e in ogni caso quelle rivelazioni legano, spiegano, inquadrano in un contesto organico e coerente fenomeni che altrimenti sarebbero rimasti incomprensibili o, quanto meno, oscuri.


La giurisprudenza e la dottrina sui cd. pentiti sono infinite, ma non merita neppure accennarvi se si rifiutano in radice, assumendone l’immoralità e comunque l’inefficacia in funzione di prevenzione generale, le leggi sulla cui interpretazione si sono formate, o, peggio, se, e non per ragionevole dubbio ma per arbitrario sospetto, si mette in discussione la correttezza e trasparenza d’azione degli organi istituzionali deputati a governarle e attuarle (la cd. “gestione dei pentiti”).

Programmi di protezione, modalità degli stessi, riflessi sul regime carcerario e contenuti del “contratto” (L. 82/91, in particolare artt. 13 bis e ter, D.M. 24.11.1994 n.687), colloqui investigativi e trattamento penitenziario differenziato (artt. 18 bis, 58 ter e quater L. 354/75), operazioni di p.g. condotte avvalendosi delle indicazioni in presenza fisica dei collaboratori, devono assumersi, in difetto di almeno un principio di contrario elemento indiziante, in perfetta osservanza delle norme che ne regolano l’applicazione e che prevedono, del resto, procedure estremamente complesse di garanzia, anche giurisdizionale.


Allo stesso modo, l’applicazione del regime penitenziario ex art. 41 bis II co. L. 354/75, nel caso in discorso a Riina e Graviano, deve ritenersi avvenuta in conformità ai provvedimenti ministeriali di attuazione. Questi provvedimenti, che avrebbero dimostrato assai più efficacemente delle prove testimoniali richieste sul punto e non ammesse, l’isolamento carcerario dei prevenuti, la stretta sorveglianza cui sono stati sottoposti, gli intensi e penetranti controlli per impedire che comunicassero all’esterno, non sono stati prodotti, nè la Corte ha ritenuto, stante la non assoluta necessità ai fini del decidere, di esercitare in proposito i poteri di cui all’art. 507 c.p.p. .

Ma, si diceva, occorre al riguardo muoversi nello stesso ordine di idee seguito a proposito della cd. “gestione dei pentiti”.

In particolare, sono ovviamente da valutare con lo stesso metro le dichiarazioni di Francesco Onorato e Giovanni Brusca sui presunti messaggi che Riina avrebbe trasmesso all’esterno: per tramite dello stesso Onorato durante i processi Lima e Tempesta quanto al mandato a uccidere Salvatore Cancemi e il questore La Barbera, nonchè, per tramite del figlio Giovanni, sulla linea da seguire nei rapporti con Bernardo Provenzano.

Proprio perché si tratta di episodi che, se effettivamente verificatisi, minerebbero in radice la credibilità e l’efficienza dell’azione di organi preposti alla vigilanza di un pericolosissimo detenuto, considerato in grado di scatenare feroci sicari con un semplice accenno a messaggi in codice e - con la medesima sottile capacità di farsi comprendere - di influire sulle dinamiche interne a cosa nostra, si impongono nel massimo grado prudenza e circospezione nell’apprezzamento di simili elementi, al punto da escluderne la verosimiglianza se introdotti da incontrollabili propalazioni.

Onorato, per di più, benché già in precedenza diverse volte sentito, ha parlato di quei brevi colloqui con Riina, che sarebbero stati favoriti da un non meglio identificato appuntato il quale avrebbe agito con incredibile audacia eludendo i poteri di disciplina e polizia dell’udienza, per la prima volta in sede di esame al dibattimento; Brusca ha riferito ciò che gli avrebbe riportato il figlio di Riina dopo un colloquio in carcere con il padre. In ogni caso, si tratterebbe di meri indizi, non direttamente correlati al fatto da provare.
Si deve, pertanto, concludere che Riina, dal 15.1.1993, non ha più avuto la possibilità di comunicare con l’ambiente di cosa nostra.
Graviano, al contrario, è stato in grado di far pervenire al proprio reggente Antonino Mangano le lettere che sono state a questi sequestrate nell’appartamento di via Scaglione, in Palermo, dove venne arrestato su indicazione di Pasquale Di Filippo, missive, su cui si tornerà specificamente in seguito, che costituiscono riscontro certo e inequivocabile del perdurare, anche durante la detenzione, dei rapporti con gli uomini del mandamento di Brancaccio.

F) Le dichiarazioni delle persone esaminate ai sensi dell’art.210 c.p.p.


Se, dunque, si conviene, e non si vede come diversamente si potrebbe, sulle premesse che si è detto, sui fondamenti, questi, in estrema sintesi, a partire dalla nota sentenza Marino delle SS.UU., i principi ermeneutici, ormai sedimentati in dottrina e giurisprudenza, sulle dichiarazioni accusatorie dei cd. pentititi e le condizioni in presenza delle quali esse assumono valore probatorio:

- provenienza da un soggetto intrinsecamente affidabile sotto il profilo delle sue personalità, condizioni socio-economico-familiari, esperienze trascorse, relazioni passate con gli accusati, e della genesi remota e prossima della sua risoluzione;

- intrinseca consistenza in termini di contenuto circostanziato, spontaneo, genuino, logicamente coerente, fermo, disinteressato, privo di intenti calunniatori, inedito rispetto alle conoscenze acquisite, così da rivelarsi precise, verosimili, non effetto di coartazione, non dettate da motivi di odio, rancore, vendetta, inimicizia o altro consimile sentimento, ripetute e sostanzialmente conformi durante tutte le fasi del procedimento;

- esistenza di riscontri esterni idonei a confermarne l’attendibilità, la cui natura peraltro non è predeterminabile né nella specie né nella qualità, suscettibile per tal modo di consistere in argomenti di ordine logico ovvero in altre dichiarazioni (cd. convergenza del molteplice) purché reciprocamente autonome e non frutto di collusione od influenza o condizionamento tra coloro che le rendono;

- non necessità che il riscontro fornisca, di per sé, la dimostrazione dell’accusa, altrimenti non vi sarebbe bisogno delle dichiarazioni e la disposizione di cui all’art. 192 II comma sarebbe del tutto inutile;

- frazionabilità e attendibilità limitata a una parte delle accuse;

- convergenza, in ipotesi di pluralità di accuse, non implicante la totale sovrapponibilità delle stesse né derivando dall’eventuale sussistenza di smagliature o discrasie il venir meno della credibilità laddove emerga una consonanza di fondo sui rispettivi nuclei fondamentali.
Costituisce, poi, massima altrettanto consolidata, la pregiudizialità del controllo sull’affidabilità intrinseca rispetto a quello sugli ulteriori passaggi del procedimento di verifica. Ma, circa questa pre-condizione, occorre precisare che le collaborazioni, le chiamate di reo o di correo in materia di mafia devono essere analizzate alla luce dei principi ispiratori della legislazione premiale in tema di reati associativi e di criminalità organizzata, criterio ancor più dirimente in ipotesi di fenomeni riconducibili alla fattispecie ex art. 416 bis c.p. .
“In tema di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese da collaboranti, l’interesse a collaborare - che può animare il collaborante, in considerazione della possibilità di beneficiare delle misure previste dalle leggi speciali sui collaboratori di giustizia - non va confuso con l’interesse concreto a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi. Invero, il generico interesse a fruire dei benefici premiali non intacca la credibilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti” (Cass., I, 12.3.1998-6.5.1998, Di Martino).
Gli affiliati a cosa nostra sono cittadini che si negano in quanto tali.

Votarsi alla mafia significa operare una scelta intorno al modo di essere del cittadino in seno alla società, una scelta che chiaramente si risolve nel ripudio degli ordinamenti e delle istituzioni dello stato, specie di quelli preordinati come strumenti di tutela dei diritti fondamentali della persona. L’individuazione di questo significato consente di fissare il momento in cui la mafia - con qualsivoglia denominazione, in tutti i luoghi e ambienti, nella concretezza di ogni attività - nasce come “valore” nella coscienza di chi, già cittadino, entra a farne parte, diventando per tal modo il più autentico e consapevole antagonista dello Stato. Antagonista insidioso perché portatore di infezione nel corpo sociale, parassita perché profittatore delle condizioni di libertà e di vita civile che lo Stato ha il compito di garantire a tutti i cittadini, nell’esercizio della funzione essenziale di creare e perfezionare l’organizzazione democratica della società. Antagonista disposto con fisiologica naturalezza a mimetizzarsi nell’apparato dei pubblici poteri per farli funzionare a proprio vantaggio, corruttore di coscienze, negatore sicuro e inflessibile della personalità altrui, del rispetto umano, della libertà e della dignità dei propri simili, dell’autorità dello Stato in quanto preposta alla salvaguardia di questi fondamentali interessi. Nemico della legalità dunque e praticante del delitto inevitabilmente adoperato come strumento di oppressione e sopraffazione.


Gli “uomini d’onore”, in particolare i componenti dei “gruppi di fuoco”, compiono, su mandato dei capi deliberato ai vari livelli della gerarchia mafiosa secondo l’importanza del reato da commettere, delitti di sangue in numero impressionante, per tacere delle altre aggressioni e intimidazioni, realizzati con metodi abietti e brutali (uccisioni varie con armi micidiali, strangolamenti, “scomparse” e cioè omicidi con dissoluzione dei cadaveri delle vittime nell’acido), talvolta con effetti di vera e propria devastazione fisica del territorio (“autobombe” di immane potenza deflagrante e cariche ingenti di esplosivo piazzate ovunque possa servire al conseguimento degli scopi dell’organizzazione).

Affrontare un qualunque discorso sulla personalità, sulla condizione umana e sociale, sulle esperienze di vita trascorse di questi autentici professionisti del crimine, i quali si conducono in un’oscena routine di bestiale violenza come si trattasse di un vero e proprio lavoro, esprimendo in ogni momento una logica di totalizzante appartenenza e di assoluta dedizione all’organizzazione, urterebbe il senso comune, il minimo etico generalmente condiviso.


Ecco, allora, che si pone l’esigenza di adattare quel metodo di verifica della credibilità, diretto evidentemente all’indagine sulle motivazioni della scelta operata, modulandone l’applicazione in riferimento ad altre chiavi di lettura, anch’esse, non a caso, individuate dalla più autorevole elaborazione giurisprudenziale. Rileveranno non gli strumenti che attengono alla sfera, per così dire, “morale”, “ideologica”e “sociologica”, ma, più prosaicamente, gli indici sintomatici della risoluzione alla confessione e alla chiamata di correo evidenziati dall’analisi della genesi remota o prossima dell’accusa e dai rapporti con gli accusati.

Il vaglio in punto di attendibilità intrinseca si risolve positivamente quando questa sia riconducibile all’avvenuta presa d’atto dell’incipiente sconfitta dell’organizzazione, alla maturata convinzione dell’inadeguatezza della linea decisa dai capi in un determinato momento storico, alla consapevolezza della serietà e efficacia dell’azione di contrasto dispiegata dallo Stato, anche a un calcolo di convenienza che comporta però un bilancio di previsione in cui agli indubbi benefici e vantaggi che derivano dalla collaborazione si contrappongono i pericoli di vendette, dirette e trasversali, e la non facile accettazione, per sé e i propri familiari, di un futuro rischioso e clandestino.


Inoltre, occorre rifuggire, in presenza di dichiarazioni che, coinvolgendo lo stesso sistema di vita della persona che le rende, collaboratore o dichiarante che sia, e riguardando vicende complesse riferite a periodi di lunga durata, da un metodo di analisi che, a partire da un’assurda pretesa di totale e assoluta linearità e coerenza, amplifichi e valorizzi singole contraddizioni e incongruenze, talora giustificabili in considerazione di difetti di memoria o di inadeguate strutture concettuali e lessicali, estrapolandole dal contesto al fine di neutralizzare e demolire il quadro globale, in cui pure si inseriscono, del contributo di conoscenze apportato.

Anche qui, del resto, soccorre l’insegnamento della S.C. :

“L’esistenza di eventuali imprecisioni della chiamata in correità non è di per sé sufficiente ad escludere l’attendibilità del collaborante allorché, alla luce di altri obiettivi riscontri, il giudice di merito valuti globalmente, con prudente apprezzamento, il materiale indiziario e ritenga, con congrua motivazione, la prevalenza degli elementi che sostengono la credibilità dell’accusa.” (Cass, I, 11.3.1994, n.292, Pistillo)
L’approccio al problema dall’angolo di prospettiva che si è detto, autorizza, a giudizio di questa Corte, la generale conclusione - se si eccettua il deficit strutturale di credibilità in quelle di Onorato - che tutte le dichiarazioni ai sensi dell’art. 210 c.p.p. provengono da persone affidabili nel senso indicato e sono attendibili, che denotano inconfondibili caratteri di precisione, coerenza, costanza, che in merito alle esperienze comuni sono sovrapponibili in misura assai più che riferibile ai soli nuclei essenziali, che non sussiste un pur labile indizio di coartazione o di collusiva concertazione (che avrebbe peraltro richiesto, consideratone il numero, l’organizzazione di vere e proprie riunioni assembleari di pentiti, detenuti da epoche e in luoghi diversi, con articolazione in momenti di riflessione seminariale e gruppi di studio).
Comunque, la quantità di riscontri oggettivi è notevolissima, tanto che ne sarà difficile la completa e ordinata elencazione e rilevante il rischio, nella complessa disamina dei risultati acquisiti, di tralasciarne più d’uno.
Molto si è discusso, recentemente, della necessità, ai fini della piena utilizzabilità per la decisione, che le dichiarazioni accusatorie derivino da conoscenza autonoma e diretta. Allo stato della legislazione, possono essere valorizzate anche quelle de relato pur sempre nel rispetto di criteri logico-argomentativi da adeguatamente motivare.

In ogni modo è opportuno precisare che, in ambito di associazione criminale, specie se verticistica e gerarchizzata come si è visto essere cosa nostra in cui vige tra gli affiliati la regola dell’obbligo di dirsi la verità salvo a verificarne caso per caso l’adempimento, le informazioni riferite come apprese da altri “uomini d’onore”, se ricevibili con cautela laddove ottenute in contesto genericamente mafioso come correnti in un dato momento della vita dell’organizzazione costituendo, per così dire, il portato delle discussioni interne e del “confronto” tra i “consociati”, acquistano, invece, assai più significativo rilievo quando il contenuto delle rivelazioni sia da qualificare come espressione della catena di trasmissione del comando, quando si tratti cioè di ordini, di direttive da seguire, di comunicazioni sulla linea di condotta decise dagli organismi dirigenti.

In simili ipotesi non potrà escludersi il requisito della conoscenza autonoma e diretta e la misura dell’attendibilità sarà data soprattutto dal grado di resistenza delle dichiarazioni al vaglio critico in punto di credibilità del soggetto che le rende e di precisione, dettaglio e coerenza.
Da ultimo, siccome intervenute dopo il deposito degli atti d’indagine e l’indicazione delle prove acquisite nel processo 12/96, devono essere evidenziate, in termini di novità e di inedito di alcuni contributi di conoscenza apportati al già vasto materiale probatorio, le dichiarazioni di Giovanni Brusca, Salvatore Grigoli e Vincenzo Sinacori.

G) La collocazione cronologica dei fatti rilevanti.Ordine di trattazione.


L’arco temporale che viene in considerazione, all’interno del quale sono ricompresi gli avvenimenti che costituiscono l’antefatto, lo sviluppo e la realizzazione dei delitti contestati, abbraccia un periodo dall’inizio 1992 al 14.4.1994, e cioè da un viaggio a Roma, compiuto da esponenti di spicco di cosa nostra su ordine di Riina per lo “studio di fattibilità” di un attentato contro il giudice Falcone e il ministro Martelli - obiettivi primari - e, in subordine, contro il giornalista Costanzo, fino alla strage commessa per uccidere il collaboratore di giustizia Contorno.
Ciascuno di questi avvenimenti sarà analizzato per sommi capi, rinviando - come già avvertito - alla esposizione del racconto degli imputati di reato connesso riportata nella sentenza n. 3/98, limitatamente all’asettico resoconto delle versioni sostenute, oltre che alle trascrizioni.
La motivazione sarà svolta per settore, pur nell’inevitabile reciproca interferenza tra argomenti specie sul piano logico-sistematico, accennando per ciascuno alle dichiarazioni rilevanti con la specifica indicazione, nell’adattamento alla fattispecie della “regola di giudizio” ex art. 192 III co. c.p.p. , degli “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”, con particolare riguardo a quelli di natura oggettiva e, sugli snodi fondamentali dell’evolversi della vicenda e delle dinamiche interne a cosa nostra, ai profili di “convergenza del molteplice”.
Secondo questo criterio saranno trattati in parte II1:
1) il viaggio e la permanenza a Roma nel febbraio 1992;

2) l’omicidio Lima e le stragi di Capaci e via D’Amelio;

3) dall’estate 1992 all’arresto di Salvatore Riina;

4) gli assetti di vertice, gli schieramenti e le decisioni dopo il 15.1.1993;

5) il trasporto da Palermo a Roma di una partita di hashish;

6) la strage di via Fauro;



in parte II2:
7) la strage di via dei Georgofili;

8) le stragi di Roma del 28.7.1993;

9) la strage di via Palestro

10) la strage dell’Olimpico;

11) la strage di Formello;

12) i primi risultati delle indagini e le reazioni degli inquisiti.


Le argomentazioni, raccolte in parte III, su:
1) il mandamento di Brancaccio e la responsabilità di Giuseppe Graviano;

2) la responsabilità di Salvatore Riina;

3) la responsabilità di Giuseppe Monticciolo e Alfredo Bizzoni;
e in parte IV, su:
1) l’enunciazione delle ragioni di inattendibilità delle prove contrarie;

2) la giuridica configurabilità delle fattispecie di reato contestate e la determinazione delle pene;

3) la decisione delle questioni civili;
concluderanno la motivazione della sentenza.
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