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In nome del Popolo italiano La prima Corte di Assise di Firenze


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L’OMICIDIO LIMA E LE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO


Una settimana dopo l’incontro in casa Gugliemini fu ucciso l’on.le Salvo Lima. Di lì a qualche mese sarebbero stati compiuti gli eccidi di Capaci e via D’Amelio. Senz’altro “cose più grosse” del progetto Costanzo.

In rapida successione, ancora, il 27 luglio l’omicidio dell’isp. Giovanni Di Lizio ad opera dei “catanesi”, il 14 settembre il tentato omicidio del commissario Calogero Germanà, il 17 settembre l’omicidio di Ignazio Salvo.
Molti personaggi esaminati ai sensi dell’art. 210 c.p.p. hanno confessato la loro partecipazione a questi fatti: Brusca, Cancemi, Gioacchino La Barbera, Giovanbattista Ferrante, Calogero Ganci, Onorato, Sinacori. In questa sede non interessa entrare nel merito se non per sottolineare che tutti quei delitti costituirono la risposta di cosa nostra alla sentenza 30.1.1992 della S.C. nel processo cd. “maxi”. Questo dato emerge con assoluta evidenza dall’istruzione dibattimentale.
E’ ovvio che i giudici Falcone e Borsellino fossero sempre stati, fin dall’inizio della loro indimenticabile opera di servitori dello Stato, un obiettivo di cosa nostra, e che i cd. “pentiti”, sia per la mentalità già ricordata dei mafiosi sia per il pericolo esiziale che potevano rappresentare per l’organizzazione, dovevano essere uccisi. Riina era addirittura ossessionato dall’idea del pericolo che lucidamente avvertiva provenire dai sempre più numerosi collaboratori di giustizia. Molte sue espressioni, per così dire, icastiche, sono state riferite al riguardo: avrebbero dovuto essere sterminati fino alla ventesima generazione, si sarebbe giocato i denti pur di eliminarli, senza di loro “ ... tutto il mondo si poteva mettere contro di noi, di noi cosa nostra, non riusciranno mai a potere condannare noi ... “ (frase riferita da Cancemi).

Ma il punto è che, in quel determinato momento storico, Riina realizzò che le aspettative che evidentemente riponeva sull’esito in qualche modo favorevole del “maxi” erano andate deluse, e decise di scatenare tutta la forza militare dell’organizzazione contro i nemici storici e contro coloro che a suo giudizio non erano stati capaci, nonostante i “favori” ricevuti in precedenza (in particolare Brusca e Cancemi hanno fatto i nomi dei politici Salvo Lima, Purpura, Martelli, Vizzini e Mannino, “gli amici diventati nemici” secondo Brusca), di “aggiustare” quel processo. Decise, com’è stato detto da Brusca e Sinacori, che “si doveva incominciare ognuno a togliersi i propri sassolini dalle scarpe”.


Sinacori ha dichiarato che Riina, contro la programmata Superprocura, aveva creato la Supercosa, un gruppo ristretto a lui stesso, a Agate, a Sinacori, a Messina Denaro, a Giuseppe e Filippo Graviano (alcuni di loro, come si ricorderà, componenti della “squadra” inviata a Roma per il progetto Costanzo), la cui esistenza avrebbe dovuto restare segreta anche all’interno dell’associazione.

Questa logica di compartimentazione e di predisposizione di adeguate strutture “operative” è anche rivelata dall’episodio dell’incontro tra Brusca e Sinacori in casa Guglielmini. I progetti di Roma e quello di Capaci procedevano separatamente ed erano affidati a gruppi che agivano l’uno all’insaputa dell’altro. Anche La Barbera ha riferito d’aver fatto parte di un gruppo ristretto, insieme a Brusca, Antonino Gioè e Leoluca Bagarella, impiegato, a dire di Brusca per ordine diretto di Riina, per gli omicidi di Salvo, di Milazzo (capomandamento di Alcamo) e della sua fidanzata Bonomo, e del commissario di Castelvetrano Calogero Germanà, fortunatamente sventato per la pronta reazione del funzionario.


Secondo Brusca e Sinacori, anzi, Riina aveva capito già prima della sentenza che si preannunciava per l’organizzazione un periodo non favorevole, situazione di cui imputava la responsabilità a Falcone e Martelli i quali a suo giudizio si adoperavano dal Ministero perché la Cassazione confermasse le decisioni delle Corti palermitane, e, sul finire del 1991, si era cominciato a programmare l’eliminazione dei nemici storici e degli “amici diventati nemici”. Inoltre, sempre secondo Brusca e Sinacori, Riina avrebbe voluto agire “in prevenzione” anche allo scopo di evitare che la recrudescenza dei “delitti eccellenti” non fosse vista in cosa nostra come effetto di un suo personale, immediato interesse, non collegato a quello generale dell’associazione, in relazione all’ergastolo che con quella sentenza gli sarebbe stato confermato. Significative, in questo senso, l’iniziativa di inviare Brusca e Bagarella a Roma, nel 1991, per un’ “inchiesta” sul giudice Falcone con l’indicazione che avrebbe potuto essere sorpreso al ristorante “Sora Lella” (esame Brusca), nonché la riunione tenuta a Enna sul finire del 1991 tra i rappresentanti delle provincie siciliane, di cui hanno parlato Giuseppe Pulvirenti (il quale ha aggiunto che tra i catanesi vi era malumore perché nulla si era ancora fatto per reagire alla condanna all’ergastolo comminata a Santapaola) e Filippo Malvagna, in cui si decise la resa dei conti e la conseguente direttiva ai vari mandamenti di dare inizio alle relative attività preparatorie. Malvagna ha ricordato una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina in quella riunione come riportatagli da Pulvirenti: “bisogna fare la guerra per poi fare la pace”.

3

DALL’ESTATE 1992 ALL’ARRESTO DI SALVATORE RIINA


A)

Il generale CC. Mario Mori, sentito nel processo 12/96 all’udienza del 24.1.1998, ha dichiarato che, dopo la strage di via D’Amelio (all’epoca era colonnello e capo del Reparto Criminalità Organizzata del ROS CC. comandato dal gen Subranni), si era diffuso negli organi dell’antimafia un senso di impotenza e di scoramento. Ha ricordato, per rendere l’immagine, quale fosse l’espressione del volto del giudice Caponnetto e il drammatico commento del magistrato: “E’ finita!”.


Mori decise che era necessaria una forte ripresa dell’attività investigativa, preceduta dalla ricerca di informazioni sugli assetti e le dinamiche interne di cosa nostra, che consentisse, da un lato, risultati tangibili e, dall’altro, strumenti adeguati alla profonda conoscenza del fenomeno che, per usare le sue parole, sembrava “indebellabile”. Così, egli organizzò una struttura particolare di uomini al suo diretto comando che si occupasse a tempo pieno della cattura di Riina, e, su suggerimento del capitano De Donno, stabilì un contatto con Vito Ciancimino, convinto che questi fosse in grado di fornire notizie utili per le indagini che si proponeva di svolgere.
Gli incontri con Ciancimino furono preparati dal figlio di questi , Massimo, e da De Donno, i quali avevano avuto occasione di conoscersi durante la permanenza a Palermo, per motivi di servizio, del capitano. Mori e Ciancimino si videro effettivamente il 5 e il 29 agosto, il 1 ottobre e il 18 ottobre (le date risultano anche dalle annotazioni sull’agenda di Mori acquisita nel processo 12/96 su richiesta del P.m.). Il 19 dicembre Ciancimino venne arrestato.

In proposito hanno deposto sia Mori che De Donno nel processo 12/96, e il generale Subranni, citato dalla difesa, all’udienza del 5.11.1999. Vi sono, poi, le dichiarazioni di Brusca.


E’ la trattativa del “papello” come, secondo Brusca, Riina ebbe a definire il foglio che conteneva le richieste sulla base delle quali egli riteneva di condurre quella che si diceva persuaso (“... si sono fatti sotto ...”) fosse una componenda cercata dagli organi dello Stato. Anche Cancemi si è detto a conoscenza delle richieste che Riina andava preparando. Riguardavano la legge sui collaboratori di giustizia, l’abolizione dell’ergastolo, il trattamento penitenziario in genere.
In effetti Mori, che aveva informato Subranni il quale - pur lasciandogli ampi margini di autonomia e concordando con l’iniziativa - lo avvertì che il personaggio era abile e da trattare con estrema cautela e circospezione (la sostanza dei consigli fu questa anche se Subranni non ha confermato i termini letterali delle raccomandazioni come riferite da Mori: “...ti può mettere sotto scopa ...”), e De Donno si accreditarono presso Ciancimino come rappresentanti dello Stato. Al di là di ogni loro aspettativa, Ciancimino si mostrò disponibile, e il 1 ottobre confermò che era in grado di fare da intermediario con i “corleonesi”. Quando, il successivo 18 ottobre, chiese esplicitamente cosa avevano da offrire, il “bluff” dei due ufficiali venne scoperto. Essi, in realtà, non potevano dare nessuna garanzia, e Mori fece l’unica proposta cui, quale ufficiale di p.g., era legittimato: Riina e Provenzano avrebbero dovuto costituirsi, i loro familiari sarebbero stati protetti. Dunque, una richiesta di resa incondizionata. Ciancimino ebbe una reazione impressionante, scattò in piedi adirato e congedò l’interlocutore dicendo: “Lei mi vuole morto, anzi vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno.”
Il 19 dicembre Ciancimino fu arrestato, in seguito risulta aver collaborato, ma, citato dalla difesa perché deponesse ai sensi dell’art. 210 c.p.p. all’udienza del 13.10.1999, si è avvalso della facoltà di non rispondere.

B)

Il tenore letterale di quella frase e il comportamento tenuto nell’occasione da Ciancimino dimostrano, se ve ne fosse ancora bisogno, quale era la misura del potere di Riina in cosa nostra, e quale la sua capacità di incutere terrore anche in uomini accorti e di esperienza.


Di più, quale fosse la sua determinazione, la logica di aggressione e intimidazione che lo guidava, è rivelato dall’ordine, impartito a Brusca tramite Biondino, di preparare un attentato a un uomo delle istituzioni perché ci voleva “un altro colpetto”, nella direzione cioè di sollecitare la trattativa in corso, che non faceva progressi, e di dimostrare, a questo scopo, la forza decisionale e la temibilità di cosa nostra.
Brusca, che aveva già nel mirino i giudici Grasso e Giordano e che ne conosceva le abitudini, dette incarico a Gioè e La Barbera di organizzare il delitto. La Barbera ha confermato la circostanza, e ha spiegato che il progetto di un’autobomba contro il giudice Grasso non era realizzabile nei termini programmati perchè, nel luogo prescelto (Monreale, sotto casa della suocera del magistrato), il sistema radio di una banca interferiva con il telecomando da utilizzare.

C)

La Corte ritiene che questo sia un passaggio fondamentale: può essere, cioè, datato con certezza, sulla base della nota al 18.10.1992 sull’agenda di Mori e dell’epoca in cui (settembre-ottobre 1992) Brusca, da Biondino, e La Barbera, da Brusca, hanno riferito di aver avuto l’ordine di “un altro colpetto”, il momento preciso in cui Riina si rese conto che la trattativa era fallita.


Non è revocabile in dubbio, infatti, che quella trattativa avvenne e che a condurla fosse Riina. Questi, secondo Brusca, era in contatto con Ciancimino per tramite del suo medico curante dr. Cinà, gli aveva detto che “si erano fatti sotto”, e, d’altra parte, considerata l’importanza di tale iniziativa, solo il capo assoluto di cosa nostra avrebbe potuto assecondarla. L’ordine a Brusca, poi, fu trasmesso da Biondino, il cui strettissimo legame con Riina è dimostrato dal fatto, a tacer d’altro, che furono arrestati insieme.

D)

Nell’arco di quello stesso periodo si svolse un’altra “trattativa” tra Gioè, “uomo d’onore” della famiglia di Altofonte (del mandamento di San Giuseppe Jato retto da Brusca) e a questi particolarmente vicino, e Paolo Bellini, la cui storia personale di pregiudicato, in rapporti anche con esponenti dell’eversione di destra, emerge dalle dichiarazioni rese dallo stesso e dal m.llo Tempesta del NTPA CC nel processo 12/96.


Della vicenda hanno parlato pure Brusca, La Barbera, Cancemi, il gen. Mori, il commissario Messina della DIA di Milano, e, nel corso dell’istruzione dibattimentale svoltasi davanti a questa Corte, Salvatore Cucuzza e Francesco La Marca, mentre Danilo Zicchi si è avvalso della facoltà di non rispondere (le sue precedenti dichiarazioni pertanto, ai sensi dell’art. 111 V co. Cost. , non hanno valore probatorio).
I testi d’accusa isp.ri Putgioni e Bonferrato, e m.llo Leggeri hanno riferito, all’udienza del 30.4.1999, sulle indagini svolte in merito a una macchina polaroid con cui La Marca avrebbe scattato delle fotografie su ordine del suo capomandamento Cancemi ad alcune tele che, su incarico dello stesso Cancemi, aveva recuperato, tramite un certo Lo Presti, da coloro che le avevano rapinate in un palazzo signorile di Palermo (villa Lanza Berlinghieri). Le foto erano poi state consegnate a Cancemi e da questi a Biondino. La macchina polaroid era stata fatta recuperare da La Marca, dopo la sua collaborazione, dando indicazione agli investigatori di rivolgersi alla moglie. Le indagini sulla fabbricazione e commercializzazione della macchina, hanno accertato che l’acquisto non era avvenuto prima del 13.7.1992. Le tele, dopo la collaborazione di Cancemi, erano state consegnate da La Marca al suo nuovo capomandamento Vittorio Mangano.
Le fotografie servivano nel contesto dei rapporti tra Gioè e Bellini.

I due si erano conosciuti in carcere e avevano ripreso a vedersi quando Bellini si era recato in Sicilia per la sua attività di recupero crediti.



Bellini era stato interessato da Tempesta di far ritrovare dei quadri rubati dalla pinacoteca di Modena, e, allo scopo, gli erano state consegnate delle fotografie in una busta intestata del NTPA. Bellini le mostrò a Gioè, il quale rispose che per quelle opere non poteva far nulla; gli consegnò, tuttavia, a sua volta, altre fotografie, di tipo polaroid, raffiguranti quadri e un biglietto con i nomi di alcuni esponenti di primo piano di cosa nostra detenuti (Filippo Calò, Bernardo Brusca, Leggio e qualche altro), dicendosi in grado di consentire il recupero di quegli importanti dipinti a condizione che fosse garantito ai mafiosi i cui nomi erano stati indicati nel biglietto il ricovero in ospedale o comunque un trattamento penitenziario migliore.
Bellini informò Tempesta e questi, resosi conto della natura dei contatti che aveva, informò l’allora colonnello Mori che subito giudicò improponibile la cosa. Il biglietto, consegnato da Tempesta a Mori, fu da questi distrutto. Le fotografie furono conservate da Tempesta e in seguito sequestrate e acquisite agli atti del processo.
I rapporti tra Bellini, il quale aveva ancora cercato di accreditarsi presso funzionari della DIA di Milano ricevendo anche da loro una risposta di netta chiusura, e Gioé cessarono alla fine del 1992, per decisione di Bellini che aveva capito di essersi esposto troppo e temeva per la propria vita. Il timore, in effetti, non era infondato, perchè in cosa nostra, come riferito da Brusca, si sospettava che intendesse infiltrarsi e che agisse per conto dei servizi segreti.
La vicenda presenta diversi profili di opacità: le intenzioni di Bellini, verosimilmente interessato a coltivare la conoscenza con Gioè per trarne vantaggi economici e giudiziari (aveva richiesto a Tempesta di essere lautamente ricompensato per le informazioni che fosse riuscito a ottenere e il differimento di un incombente ordine di carcerazione); altri di natura più propriamente illecita (Brusca ha affermato, ovviamente smentito da Bellini, che vi fu anche una consegna di cocaina nell’ordine di 200 kg non pagata da Bellini); i termini e il contenuto esatti di quanto al riguardo riferito da Tempesta a Mori, il quale ha negato d’essere stato messo a conoscenza dal m.llo che nei discorsi tra Gioè e Bellini era tra l’altro emersa l’inquietante ipotesi di un attentato alla Torre di Pisa; le incongruenze che rilevano nel raffronto delle dichiarazioni sul punto rese da La Marca, Cancemi e Cucuzza; la convinzione espressa da Gioè nella lettera scritta in carcere prima di suicidarsi sul ruolo di infiltrato svolto da Bellini.
Tuttavia, non pare tanto importante addentrarsi nei meandri delle motivazioni, degli interessi, delle cautele dei protagonisti, un coacervo di reciproche interferenze impossibile da chiarire, né ricostruire ogni specifico dettaglio del suo evolversi, quanto stabilire alcuni capisaldi su cui non sorgono perplessità e che si inseriscono con assoluta coerenza nel quadro degli avvenimenti che in quel periodo andavano sviluppandosi.
I rapporti Gioè-Bellini vi furono ed erano costantemente seguiti da Brusca che ne riferiva a Riina.
Quando Bellini, con una mossa audace e spregiudicata, attuata per tener vivo il contatto dopo l’ovvio rifiuto di Mori comunicatogli da Tempesta, fece sapere che solo per un paio dei nomi scritti sul biglietto sarebbe stato possibile ottenere un qualche beneficio, Riina disse a Brusca di interromperla (“o tutti o niente”) autorizzandolo a portarla avanti solo “in proprio” per procurare benefici al padre Bernardo.
Cucuzza, uscito di carcere nel 1994, espresse a Brusca i suoi dubbi, facendosi portatore della posizione dei mafiosi detenuti, circa l’ “opportunità” delle stragi del 1992 (“mah, hanno portato più male che bene” fu il commento di Cucuzza riportato da Brusca). Brusca rispose che, in realtà, si era riusciti a indurre lo Stato a venire a patti (“Totò, guarda che non è come dici tu ... guarda che la situazione poi si è un po’ ... cioè andato alla rovina: però inizialmente guarda che le possibilità delle trattative c’erano ...”), anche instaurando una trattativa ad oggetto dei quadri che però era fallita a causa dell’intervenuta collaborazione di Marchese e del conseguente scompiglio provocato nei ranghi di cosa nostra (“A questo punto lo Stato dice: ma perchè devo trattare se posso venire a capo della situazione ? “).

E)

Allo stesso modo è pacifico, sulla base delle dichiarazioni di Pulvirenti, Malvagna, Brusca, La Barbera, Sinacori e Patti, che Santo Mazzei, già esponente del clan catanese dei cursoti ostile alla famiglia di Santapaola, era stato “combinato” in cosa nostra, su raccomandazione e diretto intervento di Riina e Bagarella, i quali convinsero i catanesi che sarebbe tornato utile all’organizzazione.


Altrettanto certo, per la versione sul punto di Antonio Gullotta, riscontrata da puntuali e inequivoci accertamenti di p.g. su tutti i riferimenti forniti dal collaboratore, e di Brusca, è che Mazzei, insieme a Gullotta stesso, a Roberto Cannavò(anch’egli del clan dei cursoti) e a Salvatore Facella (mafioso di Lercara Friddi residente a Moncalieri; teste Dalle Mura), dopo che quest’ultimo su incarico di Giovanni Bastone (mafioso di Mazara del Vallo residente a Torino; teste Dalle Mura) aveva procurato un proiettile di artiglieria, collocò la bomba, nell’ottobre 1992, nel giardino di Boboli in Firenze, non perché esplodesse ma allo scopo di “dare un atto dimostrativo alle forze dell’ordine per la repressione che c’era contro ... la mafia”. L’episodio venne “rivendicato” con una telefonata a un qualche organo di informazione.
Mazzei si era mosso di sua iniziativa perché aveva ascoltato, dice Brusca, dei discorsi fatti durante un pranzo con Riina e altri mafiosi, a Mazara nell’estate del 1992, a proposito di azioni per indurre lo Stato a scendere a patti e di una bomba a mano da piazzare allo scopo presso gli Uffizi di Firenze. Era stato genericamente interessato di provvedere, e così, recatosi al nord nell’ottobre, aveva collocato a Boboli il proiettile di artiglieria procurato da Facella.
Questo ordigno fu in effetti rinvenuto da inservienti dell’amministarzione del giardino di Boboli il 5.11.1992, e riconosciuto in aula da Gullotta.
Brusca ha sostenuto che Riina era all’oscuro della specifica iniziativa di Mazzei, ma non ha escluso che potesse esserne stato informato da altri, segnatamente da Bagarella. Del resto, si è visto che Mazzei era uomo di Riina e Bagarella, “accettato” da Santapaola e dai catanesi per loro espressa indicazione e volontà.

F)

Dopo l’estate del 1992 e l’introduzione dell’art. 41 bis, ebbe luogo, dunque, una fase, per così dire, di “studio”, caratterizzata, da un lato, dalle discussioni sulle iniziative da intraprendere a fronte dello sconcerto provocato in cosa nostra dalla rinnovata azione di contrasto dell’antimafia, dall’applicazione del cd. “carcere duro”, dalle notizie che giungevano di “uomini d’onore” maltrattati dagli agenti di custodia, e, dall’altro, dall’aprirsi, quanto meno nella valutazione dei vertici dell’organizzazione, di una prospettiva di compromesso con gli organi dello Stato.


Due piani intersecantesi, di contestuale sviluppo e reciproca influenza, che riflettono, rispettivamente, le varie ipotesi di ritorsione, di cui tra breve si dirà, e lo svolgimento delle trattative del “papello” e dei quadri sulle quali si innesta la decisione di Riina di sospendere la linea stragista, i “delitti eccellenti”, che Brusca sintetizza in questi termini:

“Noi non ci siamo più mossi perché Salvatore Riina ci dava questo fermo. Ma se non ci dà il fermo già nel 1992 stesso avremmo commesso già qualche strage, quanto meno in Sicilia”,

e della quale anche i catanesi, secondo ill racconto di Malvagna a proposito della direttiva pervenuta dallo “zu Totò” di contenere anche le “normali” attività illecite, erano stati informati.
Tuttavia sarebbe sbagliato pensare a una stasi, a una logica di tregua unilaterale; si trattò piuttosto di un momentaneo ripiegamento tattico.
L’inesauribile vena criminale di cosa nostra non cessava di produrre idee e programmi delittuosi, e si andavano elaborando, anzi, iniziative che fossero adeguate al livello dello scontro. Si rinvengono nei verbali di esame esemplificazioni agghiaccianti di questo approccio al problema: “o fai quello che ti diciamo noi, o sennò mettiamo tante di quelle bombe che non ci fermiamo più” (Brusca), “gli facciamo vedere noi chi comanda qua in Italia” (La Barbera), “solo così si poteva andare a patto con lo Stato” (Sinacori), “o togli Pianosa, Asinara e 41 bis o noi ti facciamo saltare i monumenti” (P. Di Filippo).

Non solo, dunque, il “colpetto” in funzione di stimolo, e di un’autobomba avrebbe comunque dovuto trattarsi, o l’ “uscita” dell’intraprendente Mazzei, funzionali alla miglior gestione delle trattative in corso, ma anche, in caso di irrigidimento e chiusura della controparte, un’inusitata progressione di violenza e aggressione agli uomini e ai beni dello Stato.


Fu una palestra di menti criminali, un vero e proprio laboratorio di progetti scellerati sulle possibili e maggiormente efficaci varianti di attacco terroristico agli interessi più sensibili del campo avversario.
Così, al disciplinato “soldato” Patti fu indicato come obiettivo da perseguire l’assassinio di una guardia carceraria nel suo territorio, come altri avrebbero provveduto a fare in ogni paese della Sicilia, e di tale “indirizzo” si sono detti a conoscenza pure G. Ferro e La Barbera (il primo, inoltre, ha riferito di un mandato di Riina a uccidere il questore Manganelli espresso in una riunione tenutasi subito dopo l’omicidio del capomandamento di Alcamo, Milazzo; l’altro ascoltò in un’occasione che Brusca e Bagarella discutevano dell’eventualità di uccidere i figli del sen. Andreotti).

La Barbera, Brusca e Sinacori hanno dichiarato che venne preso in considerazione un attentato alla Torre di Pisa (si ricorderà che l’idea era stata di Gioè, definito dal suo capomandamento Brusca come “brillante”, “intuitivo” e dotato di certa “estrosità”, quando durante il rapporto con Bellini questi ebbe a riferirgli dell’indisponibilità dello Stato a trattare).

Brusca aveva pensato di spargere sulle spiagge di Rimini, per colpire l’economia turistica (finalità tenuta presente anche riguardo all’ipotesi di attentato a Pisa), siringhe infettate e di immettere nel circuito della grande distribuzione alimentare cibi tossici (“merendine” avvelenate nei supermercati) o ancora di far commettere furti di opere d’arte importanti.

Il boss pugliese Salvatore Annacondia seppe dal capomafia di Giuliano, Francesco Cocozza - durante un trasferimento da detenuti - che in carcere era stata diffusa la direttiva di attaccare musei e opere d’arte.

Il catanese Maurizio Avola (le cui dichiarazioni peraltro non sono utilizzabili alla luce dell’art. 111 V co. Cost.) apprese di attentati da compiere a tralicci della luce e della RAI, ai traghetti, e contro i militari inviati in Sicilia.
L’enormità di questi progetti potrebbe indurre a ritenerne l’assurdità o l’astrattezza. Ma non è così. Erano cominciate, invece, le “schedature” degli agenti di custodia, i vari mandamenti erano stati attivati, l’esplosivo era largamente disponibile, Brusca si era già mosso per reperire il sangue infetto, l’importanza delle città d’arte e del turismo per gli interessi, anche economici, dello Stato era ben presente alla direzione di cosa nostra il cui vertice era rappresentato dalla figura di Salvatore Riina. Le sue decisioni, sia tattiche che strategiche, venivano accettate senza discutere. Non si può dubitare del fatto che Riina e gli uomini a lui più vicini fossero i promotori e gli istigatori di questa linea di attacco, finalisticamente orientata a piegare le Istituzioni al volere di cosa nostra per mezzo di ogni genere di delitti contro la pubblica incolumità tali da provocare il panico e il terrore diffuso in una pluralità indeterminata di persone.
Del resto, come Riina ragionasse, o meglio quale fosse il suo ordine di idee e la sua totale indifferenza rispetto alle conseguenze delle azioni che giudicava necessarie per gli interessi di cosa nostra, è dimostrato da un episodio che ne rivela appieno la determinazione e il cinismo, raccontato da La Barbera.

Nell’estate 1992 vi fu una riunone tra corleonesi e trapanesi (Riina, Bagarella; Gioè, Messina Denaro, Sinacori, Andrea Gancitano, Andrea Mangiaracina) convocata in una villetta vicino Mazara dove La Barbera accompagnò Brusca, il quale ha confermato la circostanza e il particolare che si dirà. Era la prima volta, e rimase l’unica, che vedeva Riina. Si parlò, a un certo punto, l’argomento introdotto dai trapanesi, di un attentato da compiere contro un avversario di una cosca rivale a Trapani, obiettivo difficile perché aveva una macchina blindata e indossava sempre un giubbotto antiproiettile. Si pensò, allora, a un’ autobomba, e Gancitano obiettò che, colpendo nel centro di Trapani, avrebbero potuto morire persone estranee e anche bambini. Ebbene, Riina commentò: “A Sarajevo muoiono tanti bambini, che problema c’è ?”

G)

Sul finire dell’anno 1992 fallì la trattativa Ciancimino, l’azione di contrasto dello Stato si rafforzò notevolmente, l’applicazione del 41 bis, come temeva Riina, concorse a far sì che qualcuno si facesse “sbirro” e “sbirri” si fecero, in particolare, Antonino Marchese e Giovanni Drago il cui contributo di conoscenze consentì l’esecuzione di decine di arresti e, soprattutto, l’acquisizione da parte degli organi dell’antimafia di informazioni tali da affinare e attualizzare gli strumenti e le tecniche di indagine.


Il potere su cosa nostra necessitava di nuova legittimazione, le scelte compiute dovevavo essere difese, la rappresentatività dei capi rafforzata Tanto più che cominciava a prendere corpo una fronda interna.
Fin dalle stragi del 1992 importanti capimandamento avevano manifestato perplessità sullla linea di scontro frontale. Estremamente significativa, al riguardo, anche alla luce di ciò che accadrà negli schieramenti di vertice dopo l’arresto di Riina, è la frase riferita da Cancemi, pronunciata da Ganci dopo che Riina, poco prima della strage di via D’Amelio, se ne era personalmente e espressamente assunta la responsabilità: “Questo ci vuole consumare a tutti”.

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