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Il nome della rosa


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« Abbone, » disse Guglielmo, « voi vivete isolato in questa splendida e santa abbazia, lontana dalle nequizie del mondo. La vita nelle città è molto più complessa di quanto credete e ci sono gradazioni, lo sapete, anche nell’errore e nel male. Lot fu molto meno peccatore dei suoi concittadini che concepirono pensieri immondi anche sugli angeli inviati da Dio, e il tradimento di Pietro fu nulla rispetto al tradimento di Giuda, infatti uno fu perdonato e l’altro no. Non potete considerare patarini e catari la stessa cosa. I patarini sono un movimento di riforma dei costumi interno alle leggi di santa madre chiesa. Essi vollero sempre migliorare il modo di vita degli ecclesiastici. »

« Sostenendo che non si dovevano prendere i sacramenti dai sacerdoti impuri... »

« E sbagliarono, ma fu l’unico loro errore di dottrina. Non si proposero mai di alterare la legge di Dio... »

« Ma la predicazione patarina di Arnaldo da Brescia, a Roma, più di duecento anni fa, spinse la turba dei rustici a incendiare le case dei nobili e dei cardinali. »

« Arnaldo cercò di trascinare nel suo movimento di riforma i magistrati della città. Quelli non lo seguirono, e trovò consenso tra le turbe dei poveri e dei diseredati. Non fu responsabile dell’energia e della rabbia con cui quelli risposero ai suoi appelli per una città meno corrotta. »

« La città è sempre corrotta. »

« La città è il luogo dove oggi vive il popolo di Dio, di cui voi, di cui noi siamo i pastori. E’ il luogo dello scandalo in cui il prelato ricco predica la virtù al popolo povero e affamato. I disordini dei patarini nascono da questa situazione. Sono tristi, non sono incomprensibili. I catari sono altra cosa. E’ un’eresia orientale, al di fuori della dottrina della chiesa. Io non so se veramente commettano o abbiano commesso i delitti che vengono loro imputati. So che rifiutano il matrimonio, che negano l’inferno. Mi chiedo se molti degli atti che non hanno commesso non siano stati loro attribuiti solo in virtù delle idee (certo nefande) che hanno sostenuto. »

« E voi mi dite che i catari non si sono mescolati ai patarini, e che entrambi non siano altro che due delle facce, innumerevoli, della stessa manifestazione demoniaca? »

« Dico che molte di queste eresie, indipendentemente dalle dottrine che sostengono, trovano successo tra i semplici, perché suggeriscono loro la possibilità di una vita diversa. Dico che molto spesso i semplici non sanno molto di dottrina. Dico che è accaduto sovente che turbe di semplici abbiano confuso la predicazione catara con quella dei patarini e questa in generale con quella degli spirituali. La vita dei semplici, Abbone, non è illuminata dalla sapienza e dal senso vigile delle distinzioni che ci fa saggi. Ed è ossessionata dalla malattia, dalla povertà, fatta balbuziente dall’ignoranza. Spesso per molti di essi l’adesione a un gruppo eretico è solo un modo come un altro di gridare la propria disperazione. Si può bruciare la casa di un cardinale sia perché si vuole perfezionare la vita del clero, sia perché si ritiene che l’inferno, che lui predica, non esista. Lo si fa sempre perché esiste l’inferno terreno, in cui vive il gregge di cui noi siamo pastori. Ma voi sapete benissimo che come essi non distinguono tra chiesa bulgara e seguaci di prete Liprando, spesso anche le autorità imperiali e i loro sostenitori non distinsero tra spirituali ed eretici. Non di rado gruppi ghibellini, per battere il loro avversario, sostennero tra il popolo tendenze catare. A mio parere fecero male. Ma quello che ora so è che gli stessi gruppi, sovente, per sbarazzarsi di questi inquieti e pericolosi avversari troppo ’semplici’, attribuirono agli uni le eresie degli altri, e spinsero tutti sul rogo. Ho visto, vi giuro Abbone, ho visto coi miei occhi, uomini di vita virtuosa, sinceramente seguaci della povertà e della castità, ma nemici dei vescovi, che i vescovi spinsero nelle mani del braccio secolare, fosse esso al servizio dell’impero o delle città libere, accusandoli di promiscuità sessuale, sodomia, pratiche nefande — di cui forse altri ma non loro si erano resi colpevoli. I semplici sono carne da macello, da usare quando servono a mettere in crisi il potere avverso, e da sacrificare quando non servono più. »

« Quindi, » disse l’Abate con evidente malizia, « fra Dolcino e i suoi forsennati, e Gherardo Segalelli e quei turpi assassini furono catari malvagi o fraticelli virtuosi, bogomili sodomiti o patarini riformatori? Mi volete allora dire, Guglielmo, voi che sapete tutto degli eretici, tanto da sembrare uno dei loro, dove sta la verità? »

« Da nessuna parte, talora, » disse con tristezza Guglielmo.

« Vedete che anche voi non sapete più distinguere tra eretico ed eretico? Io ho almeno una regola. So che eretici sono coloro che mettono a repentaglio l’ordine su cui si regge il popolo di Dio. E difendo l’impero perché mi garantisce quest’ordine. Combatto il papa perché sta consegnando il potere spirituale ai vescovi delle città, che si alleano ai mercanti e alle corporazioni, e non sapranno mantenere quest’ordine. Noi lo abbiamo mantenuto per secoli. E quanto agli eretici ho pure una regola, e si riassume nella risposta che diede Arnaldo Amalrico, abate di Citeaux, a chi gli chiedeva cosa fare dei cittadini di Béziers, città sospetta di eresia: uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi. »

Guglielmo abbassò gli occhi e stette alquanto in silenzio. Poi disse: « La città di Béziers fu presa e i nostri non guardarono né a dignità né a sesso né a età e quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così la strage, la città fu saccheggiata e arsa. »

« Anche una guerra santa è una guerra. »

« Anche una guerra santa è una guerra. Per questo forse non dovrebbero esserci guerre sante. Ma cosa dico, sono qui a sostenere i diritti di Ludovico, che pure sta mettendo a fuoco l’Italia. Mi trovo anch’io preso in un gioco di strane alleanze. Strana l’alleanza degli spirituali con l’impero, strana quella dell’impero con Marsilio, che chiede la sovranità per il popolo. E strana quella tra noi due, così diversi per propositi e tradizione. Ma abbiamo due compiti in comune. Il successo dell’incontro, e la scoperta di un assassino. Cerchiamo di procedere in pace. »

L’Abate aprì le braccia. « Datemi il bacio della pace, frate Guglielmo. Con un uomo del vostro sapere potremmo discutere a lungo su sottili questioni di teologia e di morale. Ma non dobbiamo cedere al gusto della disputa come fanno i maestri di Parigi. E’ vero, abbiamo un compito importante che ci attende, e dobbiamo procedere di comune accordo. Ma ho parlato di queste cose perché credo che vi sia un rapporto, capite?, un rapporto possibile, ovvero che altri possano porre un rapporto tra i delitti che qui sono avvenuti e le tesi dei vostri confratelli. Per questo vi ho avvertito, per questo dobbiamo prevenire ogni sospetto o insinuazione da parte degli avignonesi. »

« Non dovrei supporre che la vostra sublimità mi ha suggerito anche una traccia per la mia indagine? Ritenete che all’origine degli eventi recenti possa esserci qualche oscura storia che risale al passato ereticale di qualche monaco? »

L’Abate tacque per alcuni istanti, guardando Guglielmo senza che nessuna espressione trasparisse dal suo viso. Poi disse: « In questa triste vicenda l’inquisitore siete voi. A voi compete essere sospettoso e persino rischiare un sospetto ingiusto. Io sono qui soltanto il padre comune. E, aggiungo, se avessi saputo che il passato di uno dei miei monaci si presta a sospetti veritieri, avrei proceduto già io a sradicare la mala pianta. Quello che so, lo sapete. Quello che non so, è giusto che venga alla luce grazie alla vostra sagacia. Ma in ogni caso informatene sempre e anzitutto me. » Salutò e uscì dalla chiesa.

« La storia diventa più complicata, caro Adso, » disse Guglielmo scuro in volto. « Noi corriamo dietro a un manoscritto, ci interessiamo alle diatribe di alcuni monaci troppo curiosi e alla vicenda di altri monaci troppo lussuriosi, ed ecco che si profila sempre più insistentemente anche un’altra traccia, tutta diversa. Il cellario, dunque... E col cellario è venuto qui quello strano animale di Salvatore... Ma ora dovremo andare a riposare, perché abbiamo progettato di star svegli durante la notte. »

« Ma allora progettate ancora di penetrare in biblioteca, stanotte? Non abbandonate questa prima traccia? »

« Per nulla. E poi chi ha detto che si tratti di due tracce diverse? E infine, questa storia del cellario potrebbe essere solo un sospetto dell’Abate. »

Si mosse verso l’albergo dei pellegrini. Giunto alla soglia si arrestò e parlò come se continuasse il discorso di prima.

« In fondo l’Abate mi ha chiesto di indagare sulla morte di Adelmo quando pensava che accadesse qualcosa di torbido tra i suoi giovani monaci. Ma ora la morte di Venanzio fa nascere altri sospetti, forse l’Abate ha intuito che la chiave del mistero sta nella biblioteca, e su quello non vuole che io indaghi. Ed ecco allora che mi offrirebbe la traccia del cellario per distogliere la mia attenzione dall’Edificio... »

« Ma perché non dovrebbe volere che... »

« Non fare troppe domande. L’Abate mi ha detto sin dall’inizio che la biblioteca non si tocca. Avrà le sue buone ragioni. Potrebbe darsi che anche lui sia coinvolto in qualche vicenda che egli non pensava potesse aver rapporto con la morte di Adelmo, e ora si rende conto che lo scandalo si allarga e può coinvolgere anche lui. E non vuole che si scopra la verità, o almeno non vuole che la scopra io... »

« Ma allora viviamo in un luogo abbandonato da Dio, » dissi sconfortato.

« Ne hai trovati di quelli in cui Dio si sarebbe sentito a proprio agio? » mi domandò Guglielmo guardandomi dall’alto della sua statura.

Poi mi mandò a riposare. Mentre mi coricavo conclusi che mio padre non avrebbe dovuto mandarmi per il mondo, che era più complicato di quanto pensassi. Stavo imparando troppe cose.

« Salva me ab ore leonis, » pregai addormentandomi.

Dopo vespri.

Dove, malgrado il capitolo sia breve, il vegliardo Alinardo dice cose assai interessanti sul labirinto e sul modo di entrarvi.
Mi risvegliai che suonava quasi l’ora della mensa serale. Mi sentivo intorpidito dal sonno, perché il sonno diurno è come il peccato della carne: più se ne è avuto più se ne vorrebbe, eppure ci si sente infelici, sazi e insaziati allo stesso tempo. Guglielmo non era nella sua cella, evidentemente si era levato molto prima. Lo trovai, dopo un breve errare, che usciva dall’Edificio. Mi disse che era stato allo scriptorium, sfogliando il catalogo e osservando il lavoro dei monaci nel tentativo di avvicinarsi al tavolo di Venanzio per riprendere l’ispezione. Ma che per un motivo o per l’altro, ciascuno pareva intenzionato a non lasciarlo curiosare tra quelle carte. Prima gli si era avvicinato Malachia, per mostrargli alcune miniature di pregio. Poi Bencio lo aveva tenuto occupato con pretesti di nessun valore. Dopo ancora, quando si era chinato per riprendere la sua ispezione, Berengario si era messo a girargli intorno offrendo la sua collaborazione.

Infine Malachia, vedendo che il mio maestro pareva seriamente intenzionato a occuparsi delle cose di Venanzio, gli aveva detto chiaro e tondo che forse, prima di frugare tra le carte del morto, era meglio ottenere l’autorizzazione dell’Abate; che lui stesso, pur essendo il bibliotecario, se ne era astenuto, per rispetto e disciplina; e che in ogni caso nessuno si era avvicinato a quel tavolo, come Guglielmo gli aveva chiesto, e nessuno vi si sarebbe avvicinato sino a che l’Abate non fosse intervenuto. Guglielmo gli aveva fatto notare che l’Abate gli aveva dato licenza di indagare per tutta l’abbazia, Malachia aveva domandato non senza malizia se l’Abate gli aveva anche dato licenza di muoversi liberamente per lo scriptorium o, Dio non volesse, la biblioteca. Guglielmo aveva capito che non era il caso di impegnarsi in una prova di forza con Malachia, anche se tutti quei movimenti e quei timori intorno alle carte di Venanzio gli avevano naturalmente fortificato il desiderio di prenderne conoscenza. Ma tale era la sua determinazione di ritornare colà di notte, non sapeva ancora come, che aveva deciso di non creare incidenti. Covava però evidenti pensieri di rivincita che, se non fossero stati ispirati come erano alla sete di verità, sarebbero apparsi molto ostinati e forse riprovevoli.

Prima di entrare in refettorio, facemmo ancora una piccola passeggiata nel chiostro, per dissolvere i fumi del sonno all’aria fredda della sera. Vi si aggiravano ancora alcuni monaci in meditazione. Nel giardino prospiciente il chiostro scorgemmo il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata, che ormai imbecille nel corpo, trascorreva gran parte della propria giornata tra le piante, quando non era a pregare in chiesa. Sembrava non sentire freddo, e sedeva lungo la parte esterna del porticato.

Guglielmo gli rivolse alcune parole di saluto e il vecchio parve lieto che qualcuno si intrattenesse con lui.

« Giornata serena, » disse Guglielmo.

« Per grazia di Dio, » rispose il vecchio.

« Serena nel cielo, ma scura in terra. Conoscevate bene Venanzio? »

« Venanzio chi? » disse il vecchio. Poi una luce si accese nei suoi occhi. « Ah, il ragazzo morto. La bestia si aggira per l’abbazia... »

« Quale bestia? »

« La grande bestia che viene dal mare... Sette teste e dieci corna e sulle corna dieci diademi e sulle teste tre nomi di bestemmia. La bestia che pare un leopardo, coi piedi come quelli dell’orso e la bocca come quella del leone... Io l’ho vista « 

« Dove l’avete vista? In biblioteca? »

« Biblioteca? Perché? Sono anni che non vado più nello scriptorium e non ho mai visto la biblioteca. Nessuno va in biblioteca. Io conobbi coloro che salivano alla biblioteca... »

« Chi, Malachia, Berengario? »
« Oh no... » il vecchio rise con voce chioccia. « Prima. Il bibliotecario che venne prima di Malachia, tanti anni fa... »

« Chi era? »

« Non mi ricordo, è morto, quando Malachia era ancora giovane. E quello che venne prima del maestro di Malachia ed era aiuto bibliotecario giovane quando io ero giovane... Ma nella biblioteca io non misi mai piede. Labirinto... »

« La biblioteca è un labirinto? »

« Hunc mundum tipice laberinthus denotat ille, » recitò assorto il vegliardo. « Intranti largus, redeunti sed nimis artus. La biblioteca è un gran labirinto, segno del labirinto del mondo. Entri e non sai se uscirai. Non bisogna violare le colonne d’Ercole... »

« Quindi non sapete come si entra nella biblioteca quando le porte dell’Edificio sono chiuse? »

« Oh sì, » rise il vecchio, « molti lo sanno. Passi per l’ossario. Puoi passare per l’ossario, ma non vuoi passare per l’ossario. I monaci morti vegliano. »

« Sono quelli i monaci morti che vegliano, non quelli che si aggirano di notte con un lume per la biblioteca? »

« Con un lume? » Il vecchio parve stupito. « Non ho mai sentito questa storia. I monaci morti stanno nell’ossario, le ossa calano a poco a poco dal cimitero e si radunano lì a custodire il passaggio. Non hai mai visto l’altare della cappella che reca all’ossario? »

« E’ la terza a sinistra dopo il transetto, è vero? »

« La terza? Forse. E’ quella con la pietra dell’altare scolpita con mille scheletri. Il quarto teschio a destra, spingi negli occhi... E sei nell’ossario. Ma non ci vai, io non ci sono mai andato. L’Abate non vuole. »

« E la bestia, dove avete visto la bestia? »

« La bestia? Ah, l’Anticristo... Egli sta per venire, il millennio è scaduto, lo attendiamo... »

« Ma il millennio è scaduto da trecento anni, e allora non venne... »

« L’Anticristo non viene dopo che sono scaduti i mille anni. Scaduti i mille anni inizia il regno dei giusti, poi viene l’Anticristo a confondere i giusti, e poi sarà la battaglia finale... »

« Ma i giusti regneranno per mille anni, » disse Guglielmo. « O hanno regnato dalla morte di Cristo sino alla fine del primo millennio, e quindi è allora che doveva venire l’Anticristo o non hanno ancora regnato, e l’Anticristo è lontano. »

« Il millennio non si computa dalla morte di Cristo ma dalla donazione di Costantino. Ora sono i mille anni... »

« E allora finisce il regno dei giusti? »

« Non lo so, non lo so più... Sono stanco. Il calcolo è difficile. Beato di Liébana lo fece, chiedi a Jorge, egli è giovane, ricorda bene... Ma i tempi sono maturi. Non hai udito le sette trombe? »

« Perché le sette trombe? »


« Non hai sentito come è morto l’altro ragazzo, il miniatore? Il primo angelo ha dato fiato alla prima tromba e ne venne grandine e fuoco misto a sangue. E il secondo angelo ha dato fiato alla seconda tromba e la terza parte del mare divenne sangue... Non è morto nel mare di sangue il secondo ragazzo? Attenti alla terza tromba! Morirà la terza parte delle creature viventi nel mare. Dio ci punisce. Il mondo tutto intorno all’abbazia è infestato dall’eresia, mi han detto che è sul trono di Roma un papa perverso che usa delle ostie per pratiche di negromanzia, e ne nutre le sue murene... E da noi qualcuno ha violato l’interdetto, ha rotto i sigilli del labirinto... »

« Chi ve lo ha detto? »

« L’ho udito, tutti sussurrano che il peccato è entrato nell’abbazia. Hai ceci? »

La domanda, diretta a me, mi sorprese. « No, non ho ceci, » dissi confuso.

« La prossima volta portami dei ceci. Li tengo in bocca, vedi la mia povera bocca senza denti, sinché non si ammollano tutti. Stimolano la saliva, aqua fons vitae. Domani mi porterai dei ceci? »

« Domani vi porterò dei ceci, » gli dissi. Ma si era assopito. Lo lasciammo per andare in refettorio.

« Cosa pensate di ciò che ha detto? » domandai al mio maestro.

« Egli gode della divina follia dei centenari. Difficile distinguere il vero dal falso nelle sue parole. Ma credo che ci abbia detto qualcosa sul modo di penetrare nell’Edificio. Ho visto la cappella da cui è uscito Malachia la notte scorsa. Vi è davvero un altare di pietra, e sulla base sono scolpiti dei teschi, stasera proveremo.

Compieta.

Dove si entra nell’Edificio, si scopre un visitatore misterioso, si trova un messaggio segreto con segni da negromante, e scompare, appena trovato, un libro che poi sarà ricercato per molti altri capitoli, né ultima vicissitudine è il furto delle preziose lenti di Guglielmo.


La cena fu mesta e silenziosa. Erano passate poco più di dodici ore da quando si era scoperto il cadavere di Venanzio. Tutti guardavano di sottecchi il suo posto vuoto a tavola. Quando fu l’ora di compieta il corteo che si recò in coro pareva una sfilata funebre. Partecipammo all’ufficio stando nella navata e tenendo d’occhio la terza cappella. La luce era poca, e quando vedemmo Malachia emergere dal buio per raggiungere il suo stallo, non potemmo capire di dove esattamente uscisse. A ogni buon conto ci facemmo nell’ombra, nascondendoci nella navata laterale, perché nessuno vedesse che restavamo lì a ufficio terminato. Io avevo nei mio scapolare il lume che avevo sottratto in cucina durante la cena. L’avremmo acceso poi al gran tripode di bronzo che restava vivo tutta la notte. Avevo uno stoppino nuovo, e molto olio. Avremmo avuto luce per molto tempo.

Ero troppo eccitato da quanto ci apprestavamo a fare per prestar attenzione al rito, il quale finì senza che quasi me ne accorgessi. I monaci si abbassarono i cappucci sul viso e uscirono in lenta fila per recarsi alle loro celle. La chiesa rimase deserta, illuminata dai bagliori del tripode.

« Orsù, » disse Guglielmo. « Al lavoro. »

Ci appressammo alla terza cappella. La base dell’altare era veramente simile a un ossario, una serie di teschi dalle occhiaie vuote e profonde incutevano timore ai riguardanti, posati come apparivano nel mirabile rilievo su un ammasso di tibie. Guglielmo ripeté a bassa voce le parole che aveva udito da Alinardo (quarto teschio a destra, spingi gli occhi). Introdusse le dita nelle occhiaie di quel volto scarnificato, e subito udimmo come un cigolio roco. L’altare si mosse, girando su un pernio occulto, lasciando intravvedere una apertura buia. Illuminandola col mio lume levato, scorgemmo degli scalini umidi. Decidemmo di scenderli, dopo aver discusso se dovevamo richiuderci il passaggio dietro le nostre spalle. Meglio di no, disse Guglielmo, non sapevamo se avremmo poi potuto riaprirlo. E quanto al rischio di essere scoperti, se qualcuno arrivava a quell’ora a manovrare lo stesso meccanismo, era perché sapeva come entrare e non sarebbe stato arrestato da un passaggio chiuso.

Scendemmo una decina e più di scalini e penetrammo in un corridoio sui cui lati si aprivano delle nicchie orizzontali, come più tardi mi accadde di vedere in molte catacombe. Ma era la prima volta che penetravo in un ossario, e ne provai molta paura. Le ossa dei monaci erano state raccolte lì nel corso dei secoli, disseppellite dalla terra, e ammassate nelle nicchie senza tentare di ricomporre la figura dei loro corpi. Però alcune nicchie avevano solo ossa minute, altre solo teschi, ben disposti quasi a piramide, in modo da non precipitare l’uno sull’altro, ed era spettacolo invero terrorizzante, specie con il gioco d’ombre e di luci che il lume creava lungo il nostro cammino. In una nicchia vidi solo mani, tante mani, ormai irrimediabilmente intrecciate l’una con l’altra, in un intrico di dita morte. Lanciai un urlo, in quel luogo di morti, provando per un momento l’impressione che vi fosse qualcosa di vivo, uno squittio, e un rapido movimento nell’ombra.

« Topi, » mi rassicurò Guglielmo.

« Cosa fanno i topi qui? »

« Passano, come noi, perché l’ossario conduce all’Edificio, e quindi alla cucina. E ai buoni libri della biblioteca. E adesso capisci perché Malachia ha il volto così austero. Il suo ufficio lo obbliga a passare di qui due volte al giorno, alla sera e al mattino. Lui sì che non ha di che ridere. »

« Ma perché il vangelo non dice mai che Cristo ridesse? » chiesi senza una buona ragione. « E’ davvero come dice Jorge? »

« Sono state legioni a domandarsi se Cristo abbia riso. La cosa non mi interessa gran che. Credo che non abbia mai riso perché, onnisciente come doveva essere il figlio di Dio, sapeva cosa avremmo fatto noi cristiani. Ma ecco che siamo arrivati. »

E infatti, grazie a Dio, il corridoio era finito, iniziava una nuova serie di scalini, percorsi i quali non avemmo che spingere una porta di legno duro rinforzata di ferro, e ci trovammo dietro al camino della cucina, proprio sotto la scala a chiocciola che montava allo scriptorium. Mentre salivamo ci parve di udire un rumore di sopra.

Ristemmo un attimo in silenzio, poi dissi: « E’ impossibile. Nessuno è entrato prima di noi... »

« Ammesso che questa fosse la sola via d’accesso all’Edificio. Nei secoli passati questa era una rocca, e deve avere più accessi segreti di quanto non sappiamo. Saliamo adagio. Ma abbiamo poco da scegliere. Se spegniamo il lume non sappiamo dove andiamo, se lo teniamo acceso diamo l’allarme a chi si trova di sopra. L’unica speranza è che, se c’è qualcuno, abbia più paura di noi. »

Arrivammo nello scriptorium, emergendo dal torrione meridionale. Il tavolo di Venanzio stava proprio dalla parte opposta. Muovendoci non illuminavamo più di poche braccia di parete alla volta, perché la sala era troppo ampia. Sperammo che nessuno fosse nella corte e vedesse la luce trasparire dalle finestre. Il tavolo sembrava in ordine, ma Guglielmo si chinò subito a esaminare i fogli nello scaffale sottostante ed ebbe una esclamazione di disappunto.

« Manca qualcosa? » chiesi.

« Oggi ho visto qui due libri, e uno era in greco. Ed è quest’ultimo che manca. Qualcuno lo ha tolto, e in gran fretta, perché una pergamena è caduta qui a terra. »

« Ma il tavolo era guardato... »

« Certo. Forse qualcuno vi ha messo le mani solo poco fa. Forse è ancora qui. » Si voltò verso le ombre e la sua voce risuonò tra le colonne: « Se sei qui bada a te! » Mi parve una buona idea: come Guglielmo aveva già detto, è sempre meglio che chi ci incute paura abbia più paura di noi.

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