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Il nome della rosa


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Spinto da questa speranza, quasi rifiutando di riconoscere questo mondo come una valle di lacrime, in cui (come mi hanno insegnato) anche l’ingiustizia è stata predisposta dalla provvidenza per mantenere l’equilibrio delle cose, onde il disegno spesso ci sfugge, Salvatore viaggiò per varie terre, dal suo Monferrato nativo verso la Liguria, e poi su dalla Provenza alle terre del re di Francia.

Salvatore vagò per il mondo, questuando, rubacchiando, fingendosi ammalato, ponendosi al servizio transitorio di qualche signore, di nuovo prendendo la via della foresta, della strada maestra. Dal racconto che mi fece me lo vidi associato a quelle bande di vaganti che poi, negli anni che seguirono, sempre più vidi aggirarsi per l’Europa: falsi monaci, ciarlatani, giuntatori, arcatori, pezzenti e straccioni, lebbrosi e storpiati, ambulanti, girovaghi, cantastorie, chierici senza patria, studenti itineranti, bari, giocolieri, mercenari invalidi, giudei erranti, scampati dagli infedeli con lo spirito distrutto, folli, fuggitivi colpiti da bando, malfattori con le orecchie mozzate, sodomiti, e tra loro artigiani ambulanti, tessitori, calderai, seggiolai, arrotini, impagliatori, muratori, e ancora manigoldi di ogni risma, bari, birboni, baroni, bricconi, gaglioffi, guidoni, trucconi, calcanti, protobianti, paltonieri, e canonici e preti simoniaci e barattieri, e gente che viveva ormai sulla credulità altrui, falsari di bolle e sigilli papali, venditori di indulgenze, falsi paralitici che si sdraiavano alle porte delle chiese, vaganti in fuga dai conventi, venditori di reliquie, perdonatori, indovini e chiromanti, negromanti, guaritori, falsi questuanti, e fornicatori di ogni risma, corruttori di monache e di fanciulle con inganni e violenze, simulatori di idropisia, epilessia, emorroidi, gotta e piaghe, nonché follia melanconica. Ve n’erano che si applicavano impiastri sul corpo per fingere ulcere inguaribili, altri che si riempivano la bocca di una sostanza color sangue per simulare sbocchi di mal sottile, bricconi che fingevano d’esser deboli d’un dei loro membri, portando bastoni senza necessità e contraffacendo il mal caduco, rogne, bubboni, gonfiori, applicando bende, tinture di zafferano, portando ferri alle mani, fasce alla testa, intrufolandosi puzzolenti nelle chiese e lasciandosi cadere di colpo nelle piazze, sputando bava e strabuzzando gli occhi, gettando dalle narici sangue fatto di succo di more e vermiglione, per strappare cibo o danaro alle genti timorate che ricordavano gli inviti dei santi padri all’elemosina: dividi con l’affamato il tuo pane, conduci in casa chi non ha tetto, visitiamo Cristo, accogliamo Cristo, vestiamo Cristo perché come l’acqua purga il fuoco così l’elemosina purga i nostri peccati.

Anche dopo i fatti che narro, lungo il corso del Danubio molti ne vidi e ancora ne vedo di questi ciarlatani che avevano loro nomi e loro suddivisioni in legioni, come i demoni: accapponi, lotori, protomedici, pauperes verecundi, morghigeri, affamiglioli, crociarii, alacerbati, reliquiari, affarinati, falpatori, iucchi, spectini, cochini, appezzenti e attarantati, acconi e admiracti, mutuatori, attremanti, cagnabaldi, falsibordoni, accadenti, alacrimanti e affarfanti.

Era come una melma che scorreva per i sentieri del nostro mondo, e fra essi si insinuavano predicatori in buona fede, eretici in cerca di nuove prede, agitatori di discordia. Era stato proprio papa Giovanni, sempre timoroso dei movimenti dei semplici che predicassero e praticassero la povertà, a scagliarsi contro i predicatori questuanti che, a suo dire, attiravano i curiosi inalberando vessilli dipinti a figure, predicavano ed estorcevano danaro. Era nel vero il papa simoniaco e corrotto equiparando frati questuanti che predicavano la povertà con queste bande di diseredati e di rapinatori? Io in quei giorni, dopo aver un poco viaggiato per la penisola italiana, non avevo più le idee chiare: avevo sentito dei frati di Altopascio che predicando minacciavano scomuniche e promettevano indulgenze, assolvevano da rapine e fratricidi, da omicidi e spergiuri dietro sborso di danaro, davano a intendere che nel loro ospedale si celebravano ogni giorno sino a cento messe, per cui raccoglievano donazioni, e che coi loro beni si dotavano duecento fanciulle povere. E avevo sentito parlare di frate Paolo Zoppo che nella foresta di Rieti viveva in romitorio e si vantava di aver avuto direttamente dallo Spirito Santo la rivelazione che l’atto carnale non era peccato: così seduceva le sue vittime che chiamava sorelle obbligandole a darsi alla sferza sulla nuda carne, facendo in terra cinque genuflessioni in forma di croce, prima che egli presentasse le sue vittime a Dio e pretendesse da loro quello che chiamava il bacio della pace. Ma era vero? E cosa legava questi romiti che si dicevano illuminati ai frati dalla povera vita che percorrevano le vie della penisola facendo veramente penitenza, invisi al clero e ai vescovi di cui flagellavano i vizi e le rapine?

Dal racconto di Salvatore, così come si mescolava alle cose che io già sapevo per mia scienza, queste distinzioni non apparivano alla luce del giorno: tutto sembrava uguale a tutto. Talora mi pareva uno di quegli storpi accattoni di Turenna di cui narra la favola, che all’avvicinarsi della salma miracolosa di san Martino si diedero alla fuga temendo che il santo li guarisse togliendo così loro la fonte dei loro guadagni, e il santo spietatamente li graziò prima che raggiungessero il confine, punendoli della loro malvagità col restituire loro l’uso degli arti. Talora invece il volto ferino del monaco si illuminava di luce dolcissima quando mi raccontava come, vivendo tra quelle bande, aveva ascoltato la parola di predicatori francescani, quanto lui alla macchia, e aveva capito che la vita povera ed errabonda che conduceva non doveva essere presa come una cupa necessità, ma come un gesto gioioso di dedicazione, ed era entrato a far parte di sette e gruppi penitenziali di cui egli storpiava i nomi e definiva in modo assai improprio la dottrina. Ne dedussi che aveva incontrato patarini e valdesi, e forse catari, arnaldisti e umiliati, e che vagando per il mondo era passato di gruppo in gruppo, gradatamente assumendo come missione la sua condizione di vagante, e facendo per il Signore quello che prima faceva per il suo ventre.

Ma come, e sino a quando? A quanto capii, una trentina di anni innanzi, egli si era aggregato a un convento di minoriti in Toscana e ivi aveva indossato il saio di san Francesco, senza prendere gli ordini. Lì, credo, aveva appreso quel tanto di latino che parlava, mescolandolo con le parlate di tutti i posti in cui, povero senza patria, era stato, e di tutti i compagni di vagabondaggio che aveva incontrato, dai mercenari delle mie terre ai bogomili dalmati. Lì si era dato a vita di penitenza, diceva (penitenziagite, mi citava con occhi ispirati, e di nuovo udii la formula che aveva incuriosito Guglielmo), ma a quanto pare anche i minori presso cui stava avevano idee confuse perché, in ira verso il canonico della chiesa vicina, accusato di rapine e altre nefandezze, gli invasero un giorno la casa e lo fecero rotolar dalle scale, sì che il peccatore ne morì, poi saccheggiarono la chiesa. Per il che il vescovo inviò degli armati, i frati si dispersero e Salvatore vagò a lungo nell’alta Italia con una banda di fraticelli, ovvero di minoriti questuanti senza più legge e disciplina.

Di qui riparò nel Tolosano, dove gli avvenne una strana storia, mentre si infiammava al racconto, che udiva, delle grandi imprese dei crociati. Una massa di pastori e di umili, in grande schiera, si riunì un giorno per passare il mare e combattere contro i nemici della fede. Li chiamarono pastorelli. In effetti essi volevano sfuggire alla loro terra maledetta. C’erano due capi, che ispirarono loro delle false teorie, un sacerdote che era stato privato della sua chiesa per la sua condotta e un monaco apostata dell’ordine di san Benedetto. Costoro avevano fatto uscire a tal punto di senno quegli sprovveduti che, correndo a frotte dietro di loro, anche ragazzi di sedici anni, contro il volere dei genitori, portando con sé solo una bisaccia e un bastone, senza danaro, lasciati i loro campi, li seguivano come un gregge, e formavano una gran massa. Ormai non seguivano più né ragione né giustizia, ma solo la forza e la loro volontà. Il trovarsi tutti insieme, finalmente liberi e con una oscura speranza di terre promesse, li rese come ebbri. Percorrevano i villaggi e le città prendendosi tutto, e se uno di essi veniva arrestato essi assalivano le prigioni e lo liberavano. Quando entrarono nella fortezza di Parigi per far uscire alcuni loro compagni che i signori avevano fatto arrestare, poiché il prevosto di Parigi tentava di opporre resistenza, lo colpirono e lo gettarono giù per i gradini della fortezza e infransero le porte del carcere. Poi si schierarono a battaglia nel prato di san Germano. Ma nessuno ardì farsi contro di loro, e uscirono da Parigi dirigendosi verso l’Aquitania. E uccidevano tutti gli ebrei che incontravano qua e là e li spogliavano dei loro beni...

« Perché gli ebrei? » chiesi a Salvatore. E mi rispose: « E perché no? » E mi spiegò che per tutta la vita avevano appreso dai predicatori che gli ebrei erano i nemici della cristianità e accumulavano quei beni che a essi erano negati. Gli chiesi se non era però vero che i beni venivano accumulati dai signori e dai vescovi, attraverso le decime, e che quindi i pastorelli non combattevano i loro veri nemici. Mi rispose che, quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna pur scegliere dei nemici più deboli. Riflettei che per questo i semplici son detti tali. Solo i potenti sanno sempre con grande chiarezza chi siano i loro nemici veri. I signori non volevano che i pastorelli mettessero a repentaglio i loro beni e fu una grande fortuna per loro che i capi dei pastorelli insinuassero l’idea che molte delle ricchezze stavano presso gli ebrei.

Chiesi chi aveva messo in capo alla folla che bisognava attaccare gli ebrei. Salvatore non ricordava. Credo che quando si radunano tante folle seguendo una promessa e chiedendo subito qualcosa, non si sappia mai chi parla tra di loro. Pensai che i loro capi si erano educati nei conventi e nelle scuole vescovili, e parlavano il linguaggio dei signori, anche se lo traducevano in termini comprensibili a pastori. E i pastori non sapevano dove stesse il papa, ma sapevano dove stavano gli ebrei. Insomma, presero d’assedio un’alta e massiccia torre del re di Francia, dove gli ebrei spaventati erano corsi in massa a rifugiarsi. E gli ebrei usciti sotto le mura della torre si difendevano coraggiosamente e spietatamente, lanciando legna e pietre. Ma i pastorelli appiccarono il fuoco alla porta della torre, tormentando gli ebrei asserragliati col fumo e col fuoco. E gli ebrei non potendo salvarsi, preferendo uccidersi piuttosto che morire per mano dei non circoncisi, chiesero a uno di loro, che sembrava il più coraggioso, di ucciderli con la spada. Egli acconsentì, e ne uccise quasi cinquecento. Poi uscì dalla torre coi figli degli ebrei, e chiese ai pastorelli di essere battezzato. Ma i pastorelli gli dissero: tu hai fatto una tale strage della tua gente e ora pretendi di sottrarti alla morte, e lo fecero a pezzi, risparmiando i bambini, che fecero battezzare. Poi si diressero verso Carcassone, compiendo molte sanguinose rapine durante il loro cammino. Allora il re di Francia avvertì che essi avevano passato il limite e ordinò che si opponesse loro resistenza in ogni città in cui passavano e si difendessero persino gli ebrei come fossero uomini del re...

Perché il re divenne così sollecito degli ebrei, a quel punto? Forse perché divenne sospettoso di quello che i pastorelli avrebbero potuto fare in tutto il regno, e che il loro numero crescesse troppo. Allora sentì tenerezza anche per gli ebrei, sia perché gli ebrei erano utili ai commerci del regno, sia perché occorreva ora distruggere i pastorelli, e bisognava che i buoni cristiani tutti trovassero ragione di piangere sui loro delitti. Ma molti cristiani non obbedirono al re, pensando che non era giusto difendere gli ebrei, che erano sempre stati nemici della fede cristiana. E in molte città la gente del popolo che aveva dovuto pagare usura agli ebrei, era felice che i pastorelli li punissero per la loro ricchezza. Allora il re comandò sotto pena di morte di non dare aiuto ai pastorelli. Raccolse un numeroso esercito e li attaccò e molti di loro furono uccisi, altri si sottrassero con la fuga e si rifugiarono nelle foreste dove perirono di stenti. In breve tutti quanti furono annientati. E l’incaricato del re li catturò e li impiccò a venti o trenta per volta agli alberi più grandi, perché la vista dei loro cadaveri servisse di esempio eterno e nessuno ardisse più turbare la pace del regno.

Il fatto singolare è che Salvatore mi raccontò questa storia come se si trattasse di una virtuosissima impresa. E infatti rimaneva convinto che la folla dei pastorelli si era mossa per conquistare il sepolcro di Cristo e liberarlo dagli infedeli, e non mi fu possibile fargli credere che questa bellissima conquista era già stata fatta, ai tempi di Pietro l’Eremita e di santo Bernardo, e sotto il regno di Luigi il santo di Francia. Comunque Salvatore non andò dagli infedeli perché dovette allontanarsi al più presto dalle terre francesi. Passò nel novarese, mi disse, ma su quanto avvenne a questo punto fu molto vago. E infine arrivò a Casale, dove si fece accogliere nel convento dei minoriti (e qui credo avesse incontrato Remigio), proprio ai tempi in cui molti di essi, perseguitati dal papa, cambiavano di saio e cercavano rifugio presso monasteri d’altro ordine, per non finir bruciati. Come infatti ci aveva raccontato Ubertino. A causa delle sue lunghe esperienze in molti lavori manuali (che aveva fatte e per fini disonesti quando vagava libero e per fini santi quando vagava per amor di Cristo), Salvatore fu subito preso dal cellario come proprio aiutante. Ed ecco perché da molti anni stava colaggiù, poco interessato ai fasti dell’ordine, molto all’amministrazione della cantina e della dispensa, libero di mangiare senza rubare e di lodare il Signore senza essere bruciato.

Questa fu la storia che appresi da lui, tra un boccone e l’altro, e mi chiesi cosa avesse inventato e cosa avesse taciuto.

Lo guardai con curiosità, non per la singolarità della sua esperienza, ma anzi proprio perché quanto gli era avvenuto mi pareva epitome splendida di tanti eventi e movimenti che rendevano affascinante e incomprensibile l’Italia di quel tempo.

Cosa era emerso da quei discorsi? L’immagine di un uomo dalla vita avventurosa, capace anche di uccidere un proprio simile senza rendersi conto del proprio delitto. Ma, benché a quel tempo ogni offesa alla legge divina mi sembrasse uguale a un’altra, cominciavo già a capire alcuni dei fenomeni di cui udivo parlare, e comprendevo che un conto è il massacro che una folla, presa da rapimento quasi estatico, e scambiando le leggi del diavolo con quelle del Signore, poteva compiere, e un altro conto è il delitto individuale perpetrato a sangue freddo, nel silenzio e nell’astuzia. E non mi pareva che Salvatore potesse essersi macchiato di un crimine siffatto.

D’altra parte volevo scoprire qualcosa sulle insinuazioni fatte dall’Abate, ed ero ossessionato dall’idea di fra Dolcino, di cui non sapevo quasi nulla. E pure il suo fantasma pareva aleggiare su molte conversazioni che avevo udito in quei due giorni.

Così gli domandai a bruciapelo: « Nei tuoi viaggi non hai mai conosciuto fra Dolcino? »

La reazione di Salvatore fu singolare. Sbarrò gli occhi, se mai avesse potuto averli ancora più sbarrati, si segnò ripetutamente, mormorò alcune frasi rotte, in un linguaggio che quella volta veramente non capii. Ma mi parvero frasi di diniego. Sino ad allora mi aveva guardato con simpatia e fiducia, direi con amicizia. In quell’istante mi guardò quasi con astio. Poi con un pretesto se ne andò.

Ormai non potevo più resistere. Chi era questo frate che incuteva terrore a chiunque lo udisse nominare? Decisi che non potevo restare più a lungo in preda al mio desiderio di sapere. Un’idea mi attraversò la mente. Ubertino! Lui stesso aveva fatto quel nome, la prima sera che lo incontrammo, lui sapeva tutto delle vicende chiare ed oscure di frati, fraticelli e altre genie di quegli ultimi anni. Dove potevo trovarlo a quell’ora? certamente in chiesa, immerso nella preghiera. E lì, visto che godevo di un momento di libertà, mi recai.

Non lo trovai, e anzi non lo trovai sino a sera. E così rimasi con la mia curiosità, mentre accadevano gli altri fatti di cui devo ora raccontare.

Nona.


Dove Guglielmo parla ad Adso del gran fiume ereticale, della funzione dei semplici nella chiesa, dei suoi dubbi sulla conoscibilità delle leggi generali, e quasi per inciso racconta come ha decifrato i segni negromantici lasciati da Venanzio.
Trovai Guglielmo nella fucina, che lavorava con Nicola, entrambi assai assorti dal loro lavoro. Avevano disposto sul banco tanti minuscoli dischi di vetro, forse già pronti per essere inseriti nelle giunture di una vetrata, e alcuni ne avevano ridotto con gli strumenti acconci allo spessore voluto. Guglielmo li provava mettendoseli davanti agli occhi. Nicola dal canto suo stava dando disposizioni ai fabbri perché costruissero la forcella in cui i vetri buoni avrebbero poi dovuto essere incastonati.

Guglielmo brontolava irritato perché sino a quel punto la lente che più lo soddisfaceva era color smeraldo ed egli, diceva, non voleva vedere le pergamene come fossero prati. Nicola si allontanò per sorvegliare i fabbri. Mentre trafficava con i suoi dischetti, gli raccontai del mio dialogo con Salvatore.

« L’uomo ha avuto varie esperienze, » disse, « forse è stato davvero coi dolciniani. Questa abbazia è proprio un microcosmo, quando avremo qui i legati di papa Giovanni e fra Michele saremo davvero al completo.

« Maestro, » gli dissi, « io non capisco più nulla. »

« A proposito di che, Adso? »

« Primo, circa le differenze tra gruppi eretici. Ma di questo vi chiederò dopo. Ora sono afflitto dal problema stesso della differenza. Ho avuto l’impressione che parlando con Ubertino voi tentaste di dimostrargli che sono tutti eguali, santi ed eretici. E invece parlando con l’Abate voi vi sforzavate di spiegargli la differenza tra eretico ed eretico, e tra eretico e ortodosso. Cioè, voi rimproveravate a Ubertino di ritenere diversi coloro che in fondo erano uguali, e all’Abate di ritenere uguali coloro che in fondo erano diversi. »

Guglielmo posò per un istante le lenti sul tavolo. « Mio buon Adso, » disse, « cerchiamo di porre delle distinzioni, e distinguiamo pure nei termini delle scuole di Parigi. Allora, dicono lassù, tutti gli uomini hanno una stessa forma sostanziale, o mi sbaglio? »

« Certo, » dissi, fiero del mio sapere, « sono animali ma razionali, e il loro proprio è di essere capaci di ridere. »

« Benissimo. Però Tommaso è diverso da Bonaventura, e Tommaso è grasso mentre Bonaventura è magro, e persino può accadere che Uguccione sia cattivo mentre Francesco è buono, e Aldemaro è flemmatico mentre Agilulfo è bilioso. O no? »

« Indubbiamente è così. »

« E allora ciò significa che c’è identità, in uomini diversi, quanto alla loro forma sostanziale e diversità quanto agli accidenti, ovvero quanto alle loro terminazioni superficiali. »

« E’ senz’altro così. »

« E allora quando dico a Ubertino che la stessa natura umana, nella complessità delle sue operazioni, presiede sia all’amore del bene che all’amore del male, cerco di convincere Ubertino dell’identità dell’umana natura. Quando poi dico all’Abate che v’è differenza tra un cataro e un valdese, insisto sulla varietà dei loro accidenti. E vi insisto perché accade che si bruci un valdese attribuendogli gli accidenti di un cataro e viceversa. E quando si brucia un uomo si brucia la sua sostanza individua, e si riduce a puro nulla quello che era un concreto atto di esistere, perciostesso buono, almeno agli occhi di Dio che lo manteneva all’essere. Ti pare una buona ragione per insistere sulle differenze? »

« Sì maestro, » risposi con entusiasmo. « E ora ho capito perché parlate così, e apprezzo la vostra buona filosofia! »

« Non è la mia, » disse Guglielmo, « e non so neppure se sia quella buona. Ma l’importante è che tu abbia capito. Veniamo ora al tuo secondo quesito. »

« E’ che, » dissi, « credo di essere un buono a nulla. Non riesco più a distinguere la differenza accidentale tra valdesi, catari, poveri di Lione, umiliati, beghini, pinzocheri, lombardi, gioachimiti, patarini, apostolici, poveri lombardi, arnaldisti, guglielmiti, seguaci del libero spirito e luciferini. Come devo fare? »

« Oh povero Adso, » rise Guglielmo dandomi un affettuoso schiaffetto sulla nuca, « non hai mica torto! Vedi, è come se negli ultimi due secoli, e ancora prima, questo nostro mondo fosse stato percorso da soffi di insofferenza, speranza e disperazione, tutti insieme... Oppure no, non è una buona analogia. Pensa a un fiume, denso e maestoso, che corre per miglia e miglia entro argini robusti, e tu sai dove sia il fiume, dove l’argine, dove la terra ferma. A un certo punto il fiume, per stanchezza, perché ha corso per troppo tempo e troppo spazio, perché si avvicina il mare, che annulla in sé tutti i fiumi, non sa più cosa sia. Diventa il proprio delta. Rimane forse un ramo maggiore, ma molti se ne diramano, in ogni direzione, e alcuni riconfluiscono gli uni negli altri, e non sai più cosa sia origine di cosa, e talora non sai cosa sia fiume ancora, e cosa già mare... »

« Se capisco la vostra allegoria, il fiume è la città di Dio, o il regno dei giusti, che si sta avvicinando al millennio, e in questa incertezza esso non tiene più, nascono falsi e veri profeti e tutto confluisce nella gran piana dove avrà luogo l’Armageddon... »

« Non pensavo proprio a questo. Ma è anche vero che tra noi francescani è sempre viva l’idea di una terza età e dell’avvento del regno dello Spirito Santo. No, piuttosto cercavo di farti capire come il corpo della chiesa, che è stato per secoli anche il corpo della società tutta, il popolo di Dio, è diventato troppo ricco, e denso, e trascina con sé le scorie di tutti i paesi che ha attraversato, e ha perso la propria purezza. I rami del delta sono, se vuoi, altrettanti tentativi del fiume di correre il più presto possibile al mare, ovvero al momento della purificazione. Ma la mia allegoria era imperfetta, serviva solo a dirti come i rami dell’eresia e dei movimenti di rinnovamento, quando il fiume non tiene più, siano molti, e si confondano. Puoi anche aggiungere alla mia pessima allegoria l’immagine di qualcuno che tenta di ricostruire a viva forza gli argini del fiume, ma non ce la fa. E alcuni rami del delta vengono interrati, altri ricondotti per canali artificiali al fiume, altri ancora vengono lasciati scorrere, perché non si può trattenere tutto ed è bene che il fiume perda parte della propria acqua se vuole mantenersi integro nel suo corso, se vuole avere un corso riconoscibile. »

« Capisco sempre di meno. »

« Anch’io. Non sono buono a parlare in modo parabolico. Dimentica questa storia del fiume. Cerca piuttosto di capire come molti dei movimenti che hai nominato sono nati almeno duecento anni fa e sono già morti, altri sono recenti... »

« Ma quando si parla di eretici si nominano tutti insieme. »

« E’ vero, ma questo è uno dei modi in cui l’eresia si diffonde e uno dei modi in cui viene distrutta. »

« Non capisco di nuovo. »

« Mio Dio, come è difficile. Bene. Immagina che tu sia un riformatore dei costumi e raduni alcuni compagni sulla vetta di un monte, per vivere in povertà. E dopo un poco vedi che molti vengono a te, anche da terre lontane, e ti considerano un profeta, o un nuovo apostolo, e ti seguono. Vengono davvero per te o per quello che dici? »

« Non so, lo spero. Perché altrimenti? »

« Perché hanno udito dai loro padri storie di altri riformatori, e leggende di comunità più o meno perfette, e pensano che questa sia quella e quella questa. »

« Così ogni movimento eredita i figli degli altri. »

« Certo, perché vi accorrono in massima parte i semplici, che non hanno sottigliezza dottrinale. Eppure i movimenti di riforma dei costumi nascono in luoghi e modi diversi e con diverse dottrine. Per esempio si confondono sovente i catari e i valdesi. Ma vi è tra essi una grande differenza. I valdesi predicavano una riforma dei costumi all’interno della chiesa, i catari predicavano una chiesa diversa, una diversa visione di Dio e della morale. I catari pensavano che il mondo fosse diviso tra le forze opposte del bene e del male, e avevano costituito una chiesa in cui si distinguevano i perfetti dai semplici credenti, e avevano i loro sacramenti e i loro riti; avevano costituito una gerarchia molto rigida, quasi quanto quella della nostra santa madre chiesa e non pensavano affatto a distruggere ogni forma di potere. Il che ti spiega perché aderirono ai catari anche uomini di comando, possidenti, feudatari. Né pensavano di riformare il mondo, perché l’opposizione tra bene e male per essi non potrà mai essere composta. I valdesi invece (e con loro gli arnaldisti o i poveri lombardi) volevano costruire un mondo diverso su un ideale di povertà, per questo accoglievano i diseredati, e vivevano in comunità del lavoro delle loro mani. I catari rifiutavano i sacramenti della chiesa, i valdesi no, rifiutavano solo la confessione auricolare. »

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