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Il nome della rosa


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Come Guglielmo mi fece osservare dopo, quella tazza poteva significare due cose diverse. O proprio lì in cucina qualcuno aveva dato da bere a Venanzio una pozione velenosa, o il poveretto aveva già ingerito il veleno (ma dove? e quando?) ed era sceso a bere per calmare un’improvvisa arsura, uno spasimo, un dolore che gli bruciava le viscere, o la lingua (ché certamente la sua doveva essere nera come quella di Berengario).

In ogni caso per il momento non si poteva sapere di più. Scorto il cadavere, e terrorizzato, Remigio si era chiesto cosa fare, e aveva risolto di non fare nulla. A chiedere soccorso, avrebbe dovuto ammettere di aver vagato durante la notte per l’Edificio, né avrebbe giovato al confratello ormai perduto. Pertanto aveva risolto di lasciare le cose così come erano, attendendo che qualcuno scoprisse il corpo il mattino dopo, all’apertura delle porte. Era corso a trattenere Salvatore, che già stava facendo penetrare la ragazza nell’abbazia, poi — lui e il suo complice — se ne erano tornati a dormire, se mai sonno si poteva chiamare la veglia agitata che ebbero sino a mattutino. E a mattutino, quando i porcai vennero ad avvertire l’Abate, Remigio credeva che il cadavere fosse stato scoperto dove lui l’aveva lasciato, ed era rimasto allibito scoprendolo nella giara. Chi aveva fatto sparire il cadavere dalla cucina? Su questo Remigio non aveva nessuna idea.

« L’unico che può muoversi liberamente per l’Edificio è Malachia, » disse Guglielmo.

Il cellario reagì con energia: « No, Malachia no. Cioè, non credo... In ogni caso non sono io che ti ho detto qualcosa contro Malachia... »

« Stai tranquillo, qualsiasi sia il debito che ti lega a Malachia. Sa qualcosa di te? »

« Sì, » arrossì il cellario, « e si è comportato da uomo discreto. Fossi in te io sorveglierei Bencio. Aveva strani legami con Berengario e Venanzio. Ma ti giuro, non ho visto altro. Se saprò qualcosa te lo dirò. »

« Per ora può bastare. Tornerò da te se ne avrò bisogno. »

Il cellario, evidentemente sollevato, tornò ai suoi traffici, redarguendo aspramente i villici che frattanto avevano spostato non so quali sacchi di sementi.

In quel mentre ci raggiunse Severino. Portava in mano le lenti di Guglielmo, quelle che gli erano state sottratte due notti prima. « Li ho trovati nel saio di Berengario, » disse. « Li ho visti sul tuo naso, l’altro giorno nello scriptorium. Sono i tuoi, vero? »

« Dio sia lodato, » esclamò gioiosamente Guglielmo. « Abbiamo risolto due problemi! Ho le mie lenti e so finalmente di sicuro che era Berengario l’uomo che ci derubò l’altra notte nello scriptorium! »

Avevamo appena finito di parlare che arrivò di corsa Nicola da Morimondo, più trionfante ancora di Guglielmo. Teneva nelle mani un paio di lenti finite, montate sulla loro forcella: « Guglielmo, » gridava, « ce l’ho fatta da solo, li ho finiti, credo che funzionino! » Poi vide che Guglielmo aveva altre lenti sul volto e rimase di sasso. Guglielmo non volle umiliarlo, si tolse le sue vecchie lenti e misurò le nuove: « Sono migliori delle altre, » disse. « Vuol dire che terrò le vecchie di riserva, e porterò sempre le tue. » Poi si volse a me: « Adso, ora mi ritiro in cella a leggere quelle carte che sai. Finalmente! Aspettami da qualche parte. E grazie, grazie a voi tutti fratelli carissimi. »

Suonava l’ora terza e mi portai in coro, a recitar con gli altri l’inno, i salmi, i versetti e il « Kyrie ». Gli altri pregavano per l’anima del morto Berengario. Io ringraziavo Iddio di averci fatto ritrovare non uno ma due paia di lenti.

Per la grande serenità, dimenticate tutte le brutture che avevo viste e udite, mi assopii, risvegliandomi quando l’ufficio ebbe termine. Mi resi conto che quella notte non avevo dormito e mi turbai pensando che avevo anche usato molto delle mie forze. E a quel punto, uscito all’aperto, il mio pensiero cominciò a essere ossessionato dal ricordo della fanciulla.

Cercai di distrarmi, e mi misi a muovere in fretta per il pianoro. Provavo un senso di lieve vertigine. Battevo le mani intirizzite l’una contro l’altra. Pestavo i piedi per terra. Avevo ancora sonno, eppure mi sentivo sveglio e pieno di vita. Non capivo cosa mi stesse accadendo.

Terza.


Dove Adso si dibatte nei patimenti d’amore, poi arriva Guglielmo col testo di Venanzio, che continua a rimanere indecifrabile anche dopo esser stato decifrato.
In verità, dopo il mio incontro peccaminoso con la fanciulla, gli altri terribili avvenimenti mi avevano fatto quasi dimenticare quella vicenda, e d’altra parte, subito dopo essermi confessato a frate Guglielmo, il mio animo si era sgravato del rimorso che avevo avvertito al risveglio dopo il mio colpevole cedimento, tanto che mi era parso di aver consegnato al frate, con le parole, lo stesso fardello di cui esse erano la voce significativa. A che altro serve infatti il benefico lavacro della confessione, se non a scaricare il peso del peccato, e del rimorso che comporta, nel seno stesso di Nostro Signore, ottenendo con il perdono una nuova aerea leggerezza dell’anima, così da dimenticare il corpo martoriato dalla nequizia? Ma non di tutto mi ero liberato. Ora che passeggiavo al sole pallido e freddo di quella mattinata invernale, circondato dal fervore degli uomini e degli animali, cominciavo a ricordare gli avvenimenti passati in modo diverso. Come se di tutto quanto era accaduto non rimanessero più il pentimento e le parole consolatrici del lavacro penitenziale, ma solo immagini di corpi e di umane membra. Mi balzava alla mente sovreccitata il fantasma di Berengario gonfio di acqua, e rabbrividivo di ribrezzo e pietà. Poi, come per fugare quel lemure, la mia mente si rivolgeva ad altre immagini di cui la memoria fosse fresco ricettacolo, e non potevo evitare di vedere, evidente ai miei occhi (agli occhi dell’anima, ma quasi come se apparisse innanzi agli occhi carnali), l’immagine della fanciulla, bella e terribile come esercito schierato in battaglia.

Mi sono ripromesso (vecchio amanuense di un testo mai scritto prima d’ora ma che per lunghi decenni ha parlato nella mia mente) di essere cronista fedele, e non solo per amore della verità, né per il desiderio (peraltro degnissimo) di ammaestrare i miei lettori futuri; ma anche per liberare la mia memoria appassita e stanca di visioni che per tutta la vita l’hanno affannata. E quindi devo dire tutto, con decenza ma senza vergogna. E devo dire, ora, e a chiare lettere, quello che allora pensai e quasi tentai di nascondere a me stesso, passeggiando per il pianoro, mettendomi talvolta a correre per potere attribuire al moto del corpo i battiti improvvisi del mio cuore, soffermandomi ad ammirare le opere dei villani e illudendomi di distrarmi nella loro contemplazione, aspirando l’aria fredda a pieni polmoni, come fa chi beve del vino per dimenticare timore o dolore.



Invano. Io pensavo alla fanciulla. La mia carne aveva dimenticato il piacere, intenso, peccaminoso e passeggero (cosa vile) che mi aveva dato il congiungermi con lei; ma la mia anima non aveva dimenticato il suo volto, e non riusciva a sentire perverso questo ricordo, anzi palpitava come se in quel volto risplendessero tutte le dolcezze del creato.

Avvertivo, in modo confuso e quasi negando a me stesso la verità di quanto sentivo, che quella povera, lercia, impudente creatura che si vendeva (chissà con quanta proterva costanza) ad altri peccatori, quella figlia di Eva che, debolissima come tutte le sue sorelle, aveva tante volte fatto commercio della propria carne, era tuttavia un qualcosa di splendido e mirifico. Il mio intelletto la sapeva fomite di peccato, il mio appetito sensitivo l’avvertiva come ricettacolo di ogni grazia. E’ difficile dire cosa provassi. Potrei tentare di scrivere che, ancora preso dalle trame del peccato, desideravo, colpevolmente, di vederla apparire a ogni istante, e quasi spiavo il lavoro degli operai per scrutare se dall’angolo di una capanna, dal buio di una stalla, apparisse quella figura che mi aveva sedotto. Ma non scriverei il vero, oppure tenterei di porre un velo alla verità per attenuarne la forza e l’evidenza. Perché la verità è che io « vedevo » la fanciulla, la vedevo nei rami dell’albero spoglio che palpitavano leggermente quando un passero intirizzito volava a cercarvi rifugio; la vedevo negli occhi delle giovenche che uscivano dalla stalla, e la udivo nel belato degli agnelli che incrociavano il mio errare. Era come se tutto il creato mi parlasse di lei, e desideravo, sì, di rivederla, ma ero pur pronto ad accettare l’idea di non rivederla mai più, e di non congiungermi mai più con lei, purché potessi godere del gaudio che mi pervadeva quel mattino, e averla sempre vicina anche se fosse stata, e per l’eternità, lontana. Era, ora cerco di capire, come se tutto l’universo mondo, che chiaramente è quasi un libro scritto dal dito di Dio, in cui ogni cosa ci parla dell’immensa bontà del suo creatore, in cui ogni creatura è quasi scrittura e specchio della vita e della morte, in cui la più umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno, tutto insomma, di altro non mi parlasse se non del volto che avevo a mala pena intravisto nelle ombre odorose della cucina. Indulgevo a queste fantasie perché mi dicevo (o meglio non mi dicevo, perché in quel momento non formulavo pensieri traducibili in parole) che se il mondo intero è destinato a parlarmi della potenza, bontà, e saggezza del creatore, e se quel mattino il mondo intero mi parlava della fanciulla che (per peccatrice che fosse) era pur sempre un capitolo del gran libro del creato, un versetto del grande salmo cantato dal cosmo — mi dicevo (ora dico), che se questo avveniva non poteva non far parte del grande disegno teofanico che regge l’universo, disposto a modo di cetra, miracolo di consonanza e di armonia. Quasi inebriato, godevo allora della presenza di lei nelle cose che vedevo, e in esse desiderandola, nella vista di esse mi appagavo. E pure sentivo come un dolore, perché al tempo stesso soffrivo di un’assenza, pur essendo felice di tanti fantasmi di una presenza. Mi riesce difficile spiegare questo mistero di contraddizione, segno che l’animo umano è assai fragile e non procede mai dirittamente lungo i sentieri della ragione divina, che ha costruito il mondo come un perfetto sillogismo, ma di questo sillogismo coglie solo proposizioni isolate e sovente disconnesse, donde la nostra facilità a cadere vittima delle illusioni del maligno. Era illusione del maligno quella che quella mattina mi rendeva così commosso? Penso oggi che lo fosse, perché ero novizio, ma penso che l’umano sentimento che mi agitava non fosse cattivo in sé, ma solo in riferimento al mio stato. Perché di per sé era il sentimento che muove l’uomo verso la donna affinché l’uno si congiunga con l’altra, come vuole l’apostolo delle genti, ed entrambi siano carne di una sola carne, e insieme procreino nuovi esseri umani e si assistano mutuamente dalla gioventù alla vecchiaia. Solo che l’apostolo così parlò per coloro che cercano il rimedio alla concupiscenza e a chi non voglia bruciare, ricordando però che ben più preferibile è lo stato di castità, a cui io monaco mi ero consacrato. E quindi io pativo quella mattina ciò che era male per me, ma per altri forse era bene, e bene dolcissimo, per cui ora capisco che il mio turbamento non era dovuto alla pravità dei miei pensieri, in sé degni e soavi, ma alla pravità del rapporto tra i miei pensieri e i voti che avevo pronunciato. E quindi facevo male a godere di una cosa buona sotto una certa ragione, cattiva sotto un’altra, e il mio difetto stava nel tentare di conciliare con l’appetito naturale i dettami dell’anima razionale. Ora so che soffrivo del contrasto tra l’appetito elicito intellettivo, dove avrebbe dovuto manifestarsi l’imperio della volontà, e l’appetito elicito sensitivo, soggetto delle umane passioni. Infatti actus appetitus sensitivi in quantum habent transmutationem corporalem annexam, passiones dicuntur, non autem actus voluntatis. E il mio atto appetitivo era per l’appunto accompagnato da un tremore di tutto il corpo, da un impulso fisico a gridare e ad agitarmi. L’angelico dottore dice che le passioni in sé non sono cattive, salvo che van moderate dalla volontà guidata dall’anima razionale. Ma la mia anima razionale era in quel mattino sopita dalla stanchezza la quale teneva a freno l’appetito irascibile, che si rivolge al bene e al male in quanto termini di conquista, ma non l’appetito concupiscibile, che si rivolge al bene e al male in quanto conosciuti. A giustificare la mia irresponsabile leggerezza di allora dirò oggi, e con le parole del dottore angelico, che ero indubbiamente preso di amore, che è passione ed è legge cosmica, perché anche la gravità dei corpi è amore naturale. E da questa passione ero naturalmente sedotto, perché in questa passione appetitus tendit in appetibile realiter consequendum ut sit ibi finis motus. Per cui naturalmente amor facit quod ipsae res quae amantur, amanti aliquo modo uniantur et amor est magis cognitivus quam cognitio. Infatti io ora vedevo la fanciulla meglio di quanto l’avessi vista la sera prima, e la capivo intus et in cute perché in essa capivo me e in me essa stessa. Mi chiedo ora se quello che provavo fosse l’amore di amicizia, in cui il simile ama il simile e vuole solo il bene altrui, o amore di concupiscenza, in cui si vuole il proprio bene e il mancante vuole solo ciò che lo completa. E credo che amore di concupiscenza fosse stato quello della notte, in cui volevo dalla fanciulla qualcosa che non avevo mai avuto, mentre in quella mattina dalla fanciulla non volevo nulla, e volevo solo il suo bene, e desideravo che essa fosse sottratta alla crudele necessità che la piegava a darsi per poco cibo, e fosse felice, né volevo chiederle più nulla ma solo continuare a pensarla e vederla nelle pecore, nei buoi, negli alberi, nella luce serena che avvolgeva di gaudio la cinta dell’abbazia.

Ora so che causa dell’amore è il bene e ciò che è bene si definisce per conoscenza, e non si può amare se non ciò che si è appreso come bene, mentre la fanciulla l’avevo appresa, sì, come bene dell’appetito irascibile, ma come male della volontà. Ma allora ero in preda a tanti e tanto contrastanti moti dell’animo perché ciò che provavo era simile all’amore più santo proprio come lo descrivono i dottori: esso mi produceva l’estasi, in cui amante e amato vogliono la stessa cosa (e per misteriosa illuminazione io in quel momento sapevo che la fanciulla, dovunque essa fosse, voleva le stesse cose che io stesso volevo), e per essa io provavo gelosia, ma non quella cattiva, condannata da Paolo nella prima ai corinzi, che è principium contentionis, e non ammette consortium in amato, ma quella di cui parla Dionigi nei « Nomi Divini », per cui anche Dio è detto geloso propter multum amorem quem habet ad existentia (e io amavo la fanciulla proprio perché essa esisteva, ed ero lieto, non invidioso, che essa esistesse). Ero geloso nel modo in cui per l’angelico dottore la gelosia è motus in amatum, gelosia di amicizia che induce a muoversi contro tutto ciò che nuoce all’amato (e io altro non fantasticavo, in quell’istante, che di liberare la fanciulla dal potere di chi ne stava comprando le carni insozzandola con le proprie passioni nefaste).

Ora so, come dice il dottore, che l’amore può ledere l’amante quando sia eccessivo. E il mio era eccessivo. Ho tentato di spiegare cosa allora provassi, non tento per nulla di giustificare quanto provavo. Parlo di quelli che furono i miei colpevoli ardori di gioventù. Erano male, ma la verità mi impone di dire che allora li avvertii come estremamente buoni. E questo valga ad ammaestrare chi, come me, incapperà nelle reti della tentazione. Oggi, vegliardo, conoscerei mille modi di sfuggire a tali seduzioni (e mi chiedo quanto debba esserne fiero, dappoiché sono libero dalle tentazioni del demone meridiano; ma non libero da altre, tal che mi chiedo se quanto sto ora facendo non sia colpevole acquiescenza alla passione terrestre della rimemorazione, stolido tentativo di sfuggire al flusso del tempo, e alla morte).

Allora, mi salvai quasi per istinto miracoloso. La fanciulla mi appariva nella natura e nelle umane opere che mi circondavano. Cercai quindi, per felice intuito dell’anima, di immergermi nella distesa contemplazione di quelle opere. Osservai il lavoro dei vaccari che stavano portando i buoi fuori della stalla, dei porcai che recavano cibo ai maiali, dei pastori che aizzavano i cani a riunire le pecore, dei contadini che portavano farro e miglio ai mulini e ne uscivano con sacchi di buon cibo. Mi immersi nella contemplazione della natura, cercando di dimenticare i miei pensieri e cercando di guardare solo gli esseri come essi ci appaiono, e di obliarmi nella loro visione, giocondamente.

Come era bello lo spettacolo della natura non ancora toccato dalla sapienza, spesso perversa, dell’uomo!

Vidi l’agnello, a cui è stato dato questo nome quasi in riconoscimento della sua purezza e bontà. Infatti il nome « agnus » deriva dal fatto che questo animale « agnoscit », riconosce la propria madre, e ne riconosce la voce in mezzo al gregge mentre la madre tra tanti agnelli d’identica forma e di identico belato riconosce sempre e soltanto il figlio suo, e lo nutre. Vidi la pecora, che « ovis » è detta « ab oblatione » perché serviva sin dai primi tempi ai riti sacrificali; la pecora che, come è suo costume, sul far dell’inverno, cerca l’erba con avidità e si riempie di foraggio prima che i pascoli siano bruciati dal gelo. E le greggi erano sorvegliate dai cani, così chiamati da « canor » a causa del loro latrato. Animale perfetto tra gli altri, con doti superiori di acutezza, il cane riconosce il proprio padrone, ed è addestrato alla caccia alle fiere nei boschi, alla guardia delle greggi contro i lupi, protegge la casa e i piccoli del padrone suo, e talora in tale funzione di difesa viene ucciso. Il re Garamante, che era stato tradotto in prigionia dai suoi nemici, era stato riportato in patria da una muta di duecento cani che si fecero strada in mezzo alle schiere avversarie; il cane di Giasone Licio, dopo la morte del padrone, continuò a rifiutare cibo sino a morire d’inedia; quello del re Lisimaco si gettò sul rogo del proprio padrone per morire con lui. Il cane ha il potere di risanare le ferite lambendole con la lingua e la lingua dei suoi cuccioli può guarire le lesioni intestinali. Per natura è solito utilizzare due volte lo stesso cibo, dopo averlo vomitato. Sobrietà che è simbolo di perfezione di spirito, così come il potere taumaturgico della sua lingua è simbolo della purificazione dei peccati ottenuta attraverso la confessione e la penitenza. Ma che il cane ritorni a ciò che ha vomitato è anche segno che, dopo la confessione, si ritorna agli stessi peccati di prima, e questa moralità mi fu assai utile quel mattino per ammonire il mio cuore, mentre ammiravo le meraviglie della natura.

Frattanto il mio passo mi portava alle stalle dei buoi, che stavano uscendo in quantità guidati dai loro bovari. Mi parvero subito quali erano e sono, simboli di amicizia e bontà, perché ogni bue sul lavoro si volge a cercare il proprio compagno di aratro, se per caso esso in quel momento sia assente, e a esso si rivolge con affettuosi muggiti. I buoi imparano ubbidienti a ritornare da soli alla stalla quando piove, e quando si riparano alla greppia allungano continuamente il capo per guardare fuori se il maltempo sia cessato, perché ambiscono di ritornare al lavoro. E coi buoi uscivano in quel momento dalle stalle i vitellini che, femmine e maschi, traggono il loro nome dalla parola « viriditas » o anche da « virgo », perché a quella età essi sono ancora freschi, giovani e casti, e male avevo fatto e facevo, mi dissi, a vedere nelle loro movenze graziose una immagine della fanciulla non casta. A queste cose pensai, riappacificato col mondo e con me stesso, osservando il gaio lavoro dell’ora mattutina. E non pensai più alla fanciulla, ovvero mi sforzai di trasformare l’ardore che provavo per essa in un senso di interiore gaiezza e di pace devota.

Mi dissi che il mondo era buono, e ammirevole. Che la bontà di Dio è manifestata anche dalle bestie più orride, come spiega Onorio Augustoduniense. E’ vero, ci sono serpenti così grandi che divorano i cervi e nuotano attraverso l’oceano, vi è la bestia cenocroca dal corpo d’asino, le corna di stambecco, il petto e le fauci di leone, il piede di cavallo ma bisolco come quello del bue, un taglio della bocca che arriva sino alle orecchie, la voce quasi umana e al posto dei denti un solo solido osso. E vi è la bestia manticora, dal volto d’uomo, un triplice ordine di denti, il corpo di leone, la coda di scorpione, gli occhi glauchi, il colore di sangue e la voce simile al sibilo dei serpenti, ghiotta di carne umana. E vi son mostri con otto dita per piede e musi di lupo, unghie adunche, pelle di pecora e latrato di cane, che diventano neri anziché bianchi con la vecchiaia, e di molto eccedono la nostra età. E vi sono creature con occhi sugli omeri e due fori sul petto in luogo di narici, perché mancano del capo, e altre ancora che abitano lungo il fiume Gange, che vivono solo dell’odore di un certo pomo, e quando se ne allontanano, muoiono. Ma anche tutte queste bestie immonde cantano nella loro varietà le lodi del Creatore e la sua saggezza, come il cane, il bue, la pecora, l’agnello e la lince. Come è grande, mi dissi allora, ripetendo le parole di Vincenzo Belovacense, la più umile bellezza di questo mondo, e come piacevole è per l’occhio della ragione il considerare attentamente non solo i modi e i numeri e gli ordini delle cose, così decorosamente stabiliti per tutto l’universo, ma anche il volgere dei tempi che incessantemente si dipanano attraverso successioni e cadute, segnati dalla morte di ciò che è nato. Confesso, da quel peccatore che sono, con l’anima da poco ancora prigioniera della carne, che fui mosso allora da spirituale dolcezza verso il creatore e la regola di questo mondo, e ammirai con gioiosa venerazione la grandezza e la stabilità del creato.


In questa buona disposizione di spirito mi trovò il mio maestro quando, trascinato dai miei piedi e senza rendermene conto, compiuto quasi il periplo dell’abbazia, mi ritrovai dove ci eravamo lasciati due ore innanzi. Lì stava Guglielmo, e quanto mi disse mi distrasse dei miei pensieri e mi volse di nuovo la mente ai tenebrosi misteri dell’abbazia.

Guglielmo pareva molto contento. Aveva in mano il foglio di Venanzio, che finalmente aveva decifrato. Andammo nella sua cella, lontano da orecchie indiscrete, ed egli mi tradusse quello che aveva letto. Dopo la frase in alfabeto zodiacale (secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor), ecco cosa diceva il testo greco:


Il veleno tremendo che dà la purificazione...

L’arma migliore per distruggere il nemico...

Usa le persone umili vili e brutte, trai piacere dal loro difetto... Non debbono morire... Non nelle case dei nobili e dei potenti ma dai villaggi dei contadini, dopo abbondante pasto e libagioni... Corpi tozzi, visi deformi.

Stuprano vergini e giacciono con meretrici, non malvagi, senza timore.

Una verità diversa, una diversa immagine della verità...

I venerandi fichi.

La pietra svergognata rotola per la pianura... Sotto gli occhi.

Bisogna ingannare e sorprendere ingannando, dire le cose all’opposto di quanto si credeva, dire una cosa e intenderne un’altra.

A essi le cicale canteranno da terra.
Niente altro. A mio giudizio, troppo poco, quasi nulla. Sembravano le farneticazioni di un demente, e lo dissi a Guglielmo.

« Potrebbe darsi. E appare senz’altro più demente di quanto non fosse a causa della mia traduzione. Conosco il greco abbastanza approssimativamente. E tuttavia, posto che Venanzio fosse pazzo, o fosse pazzo l’autore del libro, questo non ci direbbe perché tante persone, e non tutte pazze, si sono date da fare, prima per nascondere il libro e poi per recuperarlo... »

« Ma le cose che sono scritte qui, provengono dal libro misterioso? »

« Si tratta senz’altro di cose scritte da Venanzio. Lo vedi anche tu, non si tratta di una pergamena antica. E devono essere appunti presi leggendo il libro, altrimenti Venanzio non avrebbe scritto in greco. Egli ha certamente ricopiato, abbreviandole, delle frasi che ha trovato sul volume sottratto al finis Africae. Lo ha portato nello scriptorium e ha iniziato a leggerlo, annotando ciò che gli pareva degno di nota. Poi è accaduto qualcosa. O si è sentito male, o ha udito qualcuno salire. Allora ha riposto il libro, con gli appunti, sotto al suo tavolo, probabilmente ripromettendosi di riprenderlo la sera dopo. In ogni caso è solo partendo da questo foglio che potremo ricostruire la natura del libro misterioso, ed è solo dalla natura di quel libro che sarà possibile inferire la natura dell’omicida. Perché in ogni delitto commesso per possedere un oggetto, la natura dell’oggetto dovrebbe fornirci una idea sia pur pallida della natura dell’assassino. Se si uccide per un pugno d’oro, l’assassino sarà persona avida, se per un libro, l’assassino sarà ansioso di custodire per sé i segreti di quel libro. Occorre dunque sapere cosa dice il libro che noi non abbiamo. »

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