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Il nome della rosa


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Io arrossii violentemente sentendomi agitato come da un fuoco interno. Ubertino dovette avvertirlo, o forse scorse l’ardore delle mie gote, perché subito aggiunse: « Ma devi imparare a distinguere il fuoco dell’amore soprannaturale dal deliquio dei sensi. E’ difficile anche per i santi. »

« Ma come si riconosce l’amore buono? » chiesi tremando.

« Cos’è l’amore? Non v’è nulla al mondo né uomo né diavolo, né alcuna cosa, che io non consideri così sospetto come l’amore, ché questo penetra l’anima più di qualunque altra cosa. Non esiste nulla che tanto occupi e leghi il cuore come l’amore. Perciò, a meno di non avere quelle armi che la governano, l’anima precipita per l’amore in una immensa rovina. E io credo che senza le seduzioni di Margherita, Dolcino non si sarebbe dannato, né senza la vita proterva e promiscua della Parete Calva, tanti avrebbero sentito il fascino della sua ribellione. Bada, queste cose io non te le dico solo dell’amore cattivo, che naturalmente deve essere sfuggito da tutti come cosa diabolica, io dico questo e con grande paura anche dell’amore buono che corre tra Dio e l’uomo, tra prossimo e prossimo. Sovente avviene che due o tre, uomini o donne, si amino assai cordialmente e nutrano a vicenda singolare affezione, e desiderino vivere sempre vicini, e quando l’una parte desidera, l’altra vuole. E ti confesso che un sentimento del genere io lo provai per donne virtuose come Angela e Chiara. Ebbene, anche ciò è assai riprovevole, per quanto si faccia spiritualmente e per Dio... Perché anche l’amore sentito dall’anima, se non è armato ma viene preso con calore, viene poi a cadere, oppure opera disordinatamente. Oh, l’amore ha diverse proprietà, dapprima l’anima per lui si intenerisce, poi cade inferma... Ma poi avverte il calore vero dell’amore divino e grida, e si lamenta, si fa pietra messa nella fornace per disfarsi in calce, e crepita lambita dalla fiamma... »

« E questo è amore buono? »

Ubertino mi accarezzò il capo, e come lo guardai vidi che aveva gli occhi inteneriti di lacrime: « Sì, questo è infine amore buono. » Staccò la sua mano dalle mie spalle: « Ma come è difficile, » aggiunse, « come è difficile distinguerlo dall’altro. E talora quando la tua anima è tentata dai demoni ti senti come l’uomo impiccato per la gola che, legate le mani sul dorso e bendati gli occhi, rimane appeso alla forca e pure vive, senza nessun ausilio, senza nessun sostegno, senza nessun rimedio, a girare nel vuoto... »

Il suo volto non era più soltanto bagnato dal pianto, ma da un velo di sudore. « Vai via ora, » mi disse in fretta, « ti ho detto quello che volevi sapere. Di qui il coro degli angeli, di là la gola dell’inferno. Vai, e sia lodato il Signore. » Si prosternò di nuovo davanti alla Vergine e lo udii singhiozzare piano. Pregava.
Non uscii dalla chiesa. Il colloquio con Ubertino mi aveva indotto nell’animo, e nelle viscere, uno strano fuoco e una indicibile irrequietezza. Forse per questo mi trovai incline alla disobbedienza e decisi di tornare da solo in biblioteca. Non sapevo neppure io cosa cercassi. Volevo esplorare da solo un luogo ignoto, mi affascinava l’idea di potermici orientare senza l’aiuto del mio maestro. Ci salii come Dolcino era salito sul monte Rubello.

Avevo con me il lume (perché lo avevo portato? forse nutrivo già questo disegno segreto?) e penetrai nell’ossario quasi a occhi chiusi. In breve fui nello scriptorium.

Era una sera fatale, credo, perché mentre curiosavo tra i tavoli, ne scorsi uno sul quale stava aperto un manoscritto che un monaco copiava in quei giorni. Il titolo subito mi attrasse: « Historia fratris Dulcini Heresiarche ». Credo fosse il tavolo di Pietro da Sant’Albano, di cui mi avevano detto che stava scrivendo una monumentale storia dell’eresia (dopo quel che avvenne all’abbazia naturalmente non la scrisse più — ma non anticipiamo gli eventi). Non era quindi anormale che qui stesse quel testo, e altri ve n’erano di argomento affine, sui patarini e sui flagellanti. Ma assunsi come un segno soprannaturale, non so ancora se celeste o diabolico, quella circostanza, e mi piegai a leggere avidamente lo scritto. Non era molto lungo, e nella prima parte diceva, con molti più particolari che ho dimenticato, quanto mi aveva detto Ubertino. Vi si parlava anche dei molti delitti commessi dai dolciniani durante la guerra e l’assedio. E della battaglia finale, che fu cruentissima. Ma vi trovai anche quanto Ubertino non mi aveva raccontato, e detto da chi evidentemente aveva visto tutto e ne aveva l’immaginazione ancora accesa.

Appresi dunque come nel marzo del 1307, il sabato santo, Dolcino, Margherita e Longino, infine presi, furono condotti nella città di Biella e consegnati al vescovo, che attendeva la decisione del papa. Il papa, come apprese la notizia la trasmise al re di Francia Filippo, scrivendo: « Ci sono giunte notizie graditissime, feconde di gioia ed esultanza, perché quel demone pestifero, figlio di Belial e orrendissimo eresiarca Dolcino, dopo lunghi pericoli, fatiche, stragi e frequenti interventi, finalmente coi suoi seguaci è prigioniero nelle nostre carceri, per opera del nostro venerabile fratello Raniero, vescovo di Vercelli, catturato nel giorno della santa cena del Signore, e la numerosa gente che era con lui, infettata dal contagio, fu uccisa quel giorno stesso. » Il papa fu spietato nei confronti dei prigionieri e comandò al vescovo di metterli a morte. Allora, nel luglio dello stesso anno, il primo giorno del mese, gli eretici furono consegnati al braccio secolare. Mentre le campane della città suonavano a stormo, furono messi su di un carro, circondati dai carnefici, seguiti dalla milizia, che percorse tutta la città, mentre a ogni cantone con tenaglie infuocate si laceravano le carni dei rei. Margherita fu bruciata per prima, davanti a Dolcino, il quale non mosse muscolo del volto, così come non aveva emesso un lamento quando le tenaglie gli mordevano le membra. Poi il carro continuò la sua strada, mentre i carnefici infilavano i loro ferri in vasi pieni di faci ardenti. Dolcino subì altri tormenti, e restò sempre muto, salvo quando gli amputarono il naso, perché si strinse un poco nelle spalle, e quando gli strapparono il membro virile, ché a quel punto egli lanciò un lungo sospiro, come un mugolìo. Le ultime cose che disse suonarono a impenitenza, e avvertì che sarebbe risuscitato il terzo giorno. Poi fu bruciato e le sue ceneri furono disperse al vento.

Chiusi il manoscritto con le mani che tremavano. Dolcino aveva commesso molti delitti, mi era stato detto, ma era stato orrendamente bruciato. E si era comportato sul rogo... come? con la fermezza dei martiri o con la protervia dei dannati? Mentre salivo vacillando le scale che portavano alla biblioteca, capii perché ero tanto turbato. Mi sovvenne all’improvviso una scena che avevo visto non molti mesi prima, poco dopo il mio arrivo in Toscana. Mi chiedevo anzi come mai l’avessi quasi dimenticata sino ad allora, come se l’anima mia malata avesse voluto cancellare un ricordo che le gravava sopra come un incubo. Ovvero, non me ne ero dimenticato, perché ogni volta che sentivo parlare di fraticelli rivedevo immagini di quella vicenda, ma subito le ricacciavo nelle latebre del mio spirito, come se fosse stato un peccato essere stato testimone di quell’orrore.

Avevo sentito parlare per la prima volta di fraticelli nei giorni in cui, a Firenze, ne avevo visto ardere uno sul rogo. Era stato poco prima che incontrassi a Pisa frate Guglielmo. Egli stava ritardando il suo arrivo in quella città e mio padre mi aveva dato licenza di visitare Firenze di cui avevamo sentito lodare le bellissime chiese. Mi ero aggirato per la Toscana, per apprendere meglio il volgare italiano, e avevo infine soggiornato una settimana a Firenze, perché molto avevo udito parlare di quella città e desideravo conoscerla.

Fu così che appena vi arrivai sentii parlare di un gran caso che stava agitando tutta la città. Un fraticello eretico, imputato di delitti contro la religione, e tratto davanti al vescovo e altri ecclesiastici, era in quei giorni sottoposto a severa inquisizione. E seguendo coloro che me ne parlavano, mi portai al luogo dove avveniva l’evento, mentre udivo la gente dire che questo fraticello, a nome Michele, era in verità uomo molto pio, che aveva predicato penitenza e povertà, ripetendo le parole del santo Francesco, ed era stato trascinato davanti ai giudici per la malizia di certe donne che, fingendo di confessarsi da lui, gli avevano poi attribuito proposizioni eretiche; e anzi era stato preso dagli uomini del vescovo proprio in casa di quelle donne, fatto questo che mi stupiva, perché un uomo di chiesa non dovrebbe recarsi ad amministrare i sacramenti in luoghi così poco adatti, ma questa pareva essere la debolezza dei fraticelli, il non tener in debita considerazione le convenienze, e forse c’era qualcosa di vero nella voce pubblica che li voleva, oltre che eretici, di dubitevoli costumi (così come sempre si diceva dei catari che fossero bulgari e sodomiti).

Arrivai alla chiesa di San Salvatore dove si teneva il processo, ma non potei entrare, per la gran folla che vi era davanti. Però alcuni stavano issati e attaccati alla inferriata delle finestre e vedevano e udivano quanto vi avveniva, e ne riferivano agli altri di sotto. Stavano allora rileggendo a frate Michele la confessione che aveva fatta il giorno prima, in cui diceva che Cristo e gli apostoli suoi « non ebbero niuna cosa né in speziale né in comune per ragione di proprietà », ma Michele protestava che il notaio vi aveva aggiunto ora « molte false consequenzie » e gridava (e questo lo udii da fuori) « n’avete a render ragione al dì del giudizio! ». Ma gli inquisitori lessero la confessione così come l’avevano redatta e alla fine gli chiesero se voleva umilmente attenersi alle opinioni della chiesa e di tutto il popolo della città. E sentii Michele che gridava a voce alta che egli voleva attenersi a ciò che credeva, e cioè che « voleva tenere Cristo povero crocifisso e papa Giovanni Ventiduesimo eretico, poiché diceva il contrario ». Ne seguì una gran discussione, in cui gli inquisitori, tra cui molti francescani, gli volevano far intendere che le scritture non avevano detto quel che diceva lui, e lui li accusava di negare la loro stessa regola dell’ordine, e quelli gli davano addosso chiedendogli se mai lui credesse di intendere le scritture meglio di loro che ne erano maestri. E fra Michele, molto pertinace davvero, li contestava, sì che quelli prendevano ad assalirlo con provocazioni come « e allora vogliamo che tu tenga Cristo come fosse proprietario e papa Giovanni come cattolico e santo ». E Michele, non deflettendo: « No, eretico. » E quelli dicevano che non avevano mai visto alcuno così duro nella propria nequizia. Ma tra la folla fuori del palazzo ne udii molti che dicevano che egli era come Cristo tra i farisei, e mi avvidi che tra il popolo molti credevano nella santità di frate Michele.

Infine gli uomini del vescovo lo riportarono in prigione in ceppi. E la sera mi dissero che molti dei frati amici del vescovo erano andati a insultarlo e a chiedergli di ritrattare, ma egli rispondeva come uno che fosse sicuro della propria verità. E ripeteva a ciascuno che Cristo era povero e che così avevano detto anche santo Francesco e santo Domenico, e che se a professare questa retta opinione avesse dovuto essere condannato al supplizio, tanto meglio, perché in breve tempo avrebbe potuto vedere ciò che dicono le scritture, e i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse, e Gesù Cristo, e san Francesco, e i gloriosi martiri. E mi dissero che disse: « Se leggiamo con tanto fervore la dottrina di certi santi abati con quanto maggior fervore e gioia dobbiamo desiderare di stare in mezzo a loro. » E a parole del genere gli inquisitori uscivano dal carcere col viso scuro gridando sdegnati (e io li udii): « Ha il diavolo addosso! »

Il giorno dopo sapemmo che la condanna era stata pronunziata, e andato in vescovado potei vedere la pergamena, e parte ne copiai sulla mia tavoletta.

Cominciava « In nomine Domini amen. Hec est quedam condemnatio corporalis et sententia condemnationis corporalis lata, data et in hiis scriptis sententialiter pronumptiata et promulgata... » eccetera, e proseguiva con una severa descrizione dei peccati e delle colpe del detto Michele, che qui in parte riporto perché il lettore giudichi secondo prudenza:
Johannem vocatum fratrem Micchaelem Iacobi, de comitatu Sancti Frediani, hominem male condictionis, et pessime conversationis, vite et fame, hereticum et heretica labe pollutum et contra fidem cactolicam credentem et affirmantem... Deum pre oculis non habendo sed potius humani generis inimicum, scienter, studiose, appensate, nequiter et animo et intentione exercendi hereticam pravitatem stetit et conversatus fuit cum Fraticellis, vocatis Fraticellis della povera vita hereticis et scismaticis et eorum pravam sectam et heresim secutus fuit et sequitur contra fidem cactolicam... et accessit ad dictam civitatem Florentie et in locis publicis dicte civitatis in dicta inquisitione contentis, credidit, tenuit et pertinaciter affirmavit ore er corde... quod Christus redentor noster non habuit rem aliquam in proprio vel comuni sed habuit a quibuscumque rebus quas sacra scriptura eum habuisse testatur, tantum simplicem facti usum.

Ma non erano solo questi i delitti di cui era accusato, e tra gli altri uno mi parve turpissimo, anche se non so (così come andò il processo) se egli avesse davvero affermato tanto, ma si diceva insomma che il detto minorita aveva sostenuto che santo Tommaso d’Aquino non era né santo né godeva della eterna salvezza, bensì era dannato e in stato di perdizione! E la sentenza concludeva comminando la pena, poiché l’accusato non aveva voluto emendarsi:


Costat nobis etiam ex predictis et ex dicta sententia lata per dictum dominum episcopum florentinum, dictum Johannem fore hereticum, nolle se tantis herroribus et heresi corrigere er emendare, et se ad rectam viam fidei dirigere, habentes dictum Johannem pro irreducibili, pertinace et hostinato in dictis suis perversis herroribus, ne ipse Johannes de dictis suis sceleribus et herroribus perversis valeat gloriari, et ut eius pena aliis transeat in exemplum; idcirco, dictum Johannem vocatum fratrem Micchaelem hereticum et scismaticum quod ducatur ad locum iustitie consuetum, et ibidem igne et fiammis igneis accensis concremetur et comburatur, ita quod penitus moriatur er anima a corpore separetur.
E poi che la sentenza fu resa pubblica, vennero ancora uomini di chiesa alla prigione e avvertirono Michele di ciò che sarebbe accaduto, e li udii anzi dire: « Fra Michele, sono state già fatte le mitre coi mantellini, e dipintivi sopra fraticelli accompagnati da diavoli. » Per spaventarlo e costringerlo infine a ritrattare. Ma frate Michele si mise in ginocchio e disse: « Io penso che intorno al rogo vi sarà il nostro padre Francesco e dico di più, credo che vi saranno Gesù e gli apostoli, e i gloriosi martiri Bartolomeo e Antonio. » Che era un modo di rifiutare per l’ultima volta le offerte degli inquisitori.

La mattina dopo fui anch’io sul ponte del vescovado dove si eran radunati gli inquisitori, davanti ai quali fu tratto sempre in ceppi frate Michele. Uno dei fedeli si inginocchiò davanti a lui per ricevere la benedizione, e fu preso dagli uomini d’arme e condotto subito in prigione. Dopo, gli inquisitori rilessero la sentenza al condannato e domandarono ancora se voleva pentirsi. A ogni punto in cui la sentenza diceva che egli era un eretico, Michele rispondeva « eretico non sono, peccatore, sì, ma cattolico » e quando il testo nominava « il venerabilissimo e santissimo papa Giovanni Ventiduesimo » Michele rispondeva « no, ma eretico ». Allora il vescovo comandò che Michele venisse a inginocchiarsi davanti a lui, e Michele disse che non si inginocchiava davanti agli eretici. Lo fecero inginocchiare per forza ed egli mormorò: « Ne sono scusato davanti a Dio. » E siccome era stato portato lì davanti con tutti i suoi paramenti sacerdotali, iniziò un rito in cui brano a brano i paramenti gli venivano levati sino a che rimase in quella vesticciola che a Firenze chiamano cioppa. E come vuole l’uso per il prete che si sconsacra, con un ferro tagliente gli rasero i polpastrelli delle dita e gli rasero i capelli. Poi fu affidato al capitano e ai suoi uomini, che lo trattarono molto duramente e lo misero in ceppi riportandolo in carcere, mentre lui diceva alla folla: « per Dominum moriemur ». Doveva essere bruciato, così appresi, solo il giorno dopo. E in quel giorno andarono anche a chiedergli se voleva confessarsi e comunicarsi. E rifiutò di commettere peccato accettando i sacramenti di chi era in peccato. E in questo, credo, fece male, e si dimostrò corrotto dall’eresia dei patarini.



E infine venne il mattino del supplizio, e venne a prenderlo un gonfaloniere che mi parve persona amica, perché gli chiese che razza d’uomo fosse, e perché si ostinava quando bastava affermare quello che tutto il popolo affermava e accettar l’opinione di santa madre chiesa. Ma Michele, durissimo: « Io credo in Cristo povero crocefisso. » E il gonfaloniere se ne andò allargando le braccia. Arrivarono allora il capitano e i suoi uomini e portarono Michele nel cortile dove c’era il vicario del vescovo che gli rilesse e la confessione e la condanna, Michele intervenne ancora a contestare opinioni false che gli erano attribuite: ed erano invero cose di tanta sottigliezza che io non le ricordo e allora non le compresi bene. Ma su quelle si decideva della morte di Michele, certo, e della persecuzione dei fraticelli. Tanto che io non capivo perché gli uomini della chiesa e del braccio secolare si accanissero così contro persone che volevano vivere in povertà e ritenevano che Cristo non avesse avuto beni terreni. Perché, mi dicevo, se mai, dovrebbero temere uomini che vogliano vivere in ricchezza e sottrarre danaro agli altri, e portare la chiesa nel peccato e introdurvi pratiche di simonia. E parlai di questo a uno che mi stava vicino, perché non resistevo a tacere. E quello sorrise beffardo e mi disse che un frate che pratica la povertà diventa cattivo esempio per il popolo, che poi non si avvezza più ai frati che non la praticano. E che, aggiunse, quella predicazione di povertà metteva cattive idee in testa al popolo, che della sua povertà avrebbe tratto ragione di orgoglio, e l’orgoglio può portare a molti atti orgogliosi. E infine che avrei dovuto sapere che, non era chiaro neppure a lui per qual sillogismo, a predicar la povertà per i frati si stava dalla parte dell’imperatore e questo al papa non piaceva. Tutte ottime ragioni, mi parvero, anche se dette da un uomo di poca dottrina. Salvo che a quel punto non capivo perché fra Michele volesse morire così orrendamente per compiacere l’imperatore, o dirimere una questione tra ordini religiosi. E infatti qualcuno tra i presenti diceva: « Non è un santo, è stato inviato da Ludovico per seminar discordia tra i cittadini, e i fraticelli sono toscani ma dietro a essi stanno i messi dell’impero. » E altri: « Ma è un pazzo, è invasato dal demonio, gonfio di orgoglio e gode del martirio per dannata superbia, a questi frati fan leggere troppe vite dei santi, meglio sarebbe prendessero moglie! » E altri ancora: « No, avremmo bisogno che tutti i cristiani fossero così, pronti a testimoniare la loro fede come al tempo dei pagani. » E nell’ascoltare quelle voci, mentre più non sapevo cosa pensare, mi accadde di poter rivedere in faccia il condannato, che a tratti la folla davanti a me mi nascondeva. E vidi il viso di chi guarda qualcosa che non è di questa terra, come talora lo vidi sulle statue dei santi rapiti in visione. E compresi che, pazzo o veggente che fosse, egli lucidamente voleva morire perché credeva che morendo avrebbe sconfitto il suo nemico, qualsiasi esso fosse. E compresi che il suo esempio ne avrebbe portati a morte altri. E solo rimasi sbigottito da tanta fermezza perché ancora oggi non so se in costoro prevalga un amore orgoglioso per la verità in cui credono, che li porta alla morte, o un orgoglioso desiderio di morte, che li porta a testimoniare la loro verità, qualsiasi essa sia. E ne sono travolto di ammirazione e timore.

Ma torniamo al supplizio, ché ormai stavano tutti avviandosi al luogo della messa a morte.

Il capitano e i suoi lo trassero fuori della porta, con la sua gonnelluccia addosso, e parte dei bottoni sfibbiati, e andava con passo largo e il capo chino, recitando il suo ufficio, che pareva uno dei martiri. E c’era tanta folla da non credersi e molti gridavano: « Non morire! » e lui rispondeva: « Voglio morire per Cristo », « Ma tu non muori per Cristo, » gli dicevano, e lui: « Ma per la verità. » Arrivati a un luogo detto il canto del Proconsolo uno gli gridò di pregare Iddio per loro tutti, ed egli benedisse la folla. E ai Fondamenti di santa Liperata uno gli disse: « Sciocco che sei, credi nel papa! » e lui rispose: « Ne avete fatto un dio di questo vostro papa » e aggiunse: « Questi vostri paperi v’hanno ben conci » (che era un gioco di parole, o arguzia, che faceva diventare i papi come animali, nel dialetto toscano, come mi spiegarono): e tutti si stupirono che andasse alla morte facendo scherzi.

A San Giovanni gli gridarono: « Campa la vita! » e lui rispose: « Scampate dai peccati! »; al Mercato Vecchio gli gridarono: « Campa, campa! » e lui rispose: « Scampate dall’inferno »; al Mercato Nuovo gli urlarono: « Pentiti, pentiti, » e lui rispose: « Pentitevi delle usure. » E giunto a Santa Croce vide i frati del suo ordine che erano sulla scalinata e li rimproverò perché non seguivano la regola di san Francesco. E di quelli alcuni si stringevano nelle spalle ma altri si coprivano per vergogna il viso col cappuccio.

E andando verso la porta della Giustizia molti gli dicevano: « Nega, nega, non voler morire; » e lui: « Cristo morì per noi. » E loro: « Ma tu non sei Cristo, non devi morire per noi! » e lui: « Ma io voglio morire per lui. » Al prato della Giustizia uno gli disse se non poteva fare come un certo frate suo superiore che aveva negato, ma Michele rispose che non aveva negato, e vidi molti tra la folla assentire e incitare Michele a essere forte: così io e molti altri capimmo che quelli erano dei suoi, e ci scostammo.

Si fu infine fuori della porta e davanti a noi apparve la pira, o capannuccio, come là la chiamavano, perché il legno vi era disposto in forma di capanna, e lì si fece un cerchio di cavalieri armati perché la gente non si avvicinasse troppo. E quivi legarono frate Michele alla colonna. E udii ancora uno gridargli: « Ma cosa è questo, per cui vuoi morire? » ed egli rispose: « Questa è una verità che mi abita dentro, della quale non si può dar testimonianza se non di morte. » Appiccarono il fuoco. E frate Michele, che già aveva intonato il « Credo », intonò dopo il « Te Deum ». Ne cantò forse otto versi, poi si piegò come dovesse starnutire, e cadde per terra, perché si erano arsi i legami. Ed era già morto, perché prima che il corpo bruci del tutto già si muore per il gran calore che fa scoppiare il cuore e il fumo che invade il petto.

Poi il capanno bruciò completamente come una torcia e ci fu un gran bagliore, e non fosse stato per il povero corpo carbonizzato di Michele che ancora si intravvedeva tra i legni incandescenti, avrei detto di essere davanti al roveto ardente. E fui così vicino ad avere una visione che (ricordai mentre salivo le scale della biblioteca) mi erano salite spontanee alle labbra alcune parole sul rapimento estatico che avevo letto nei libri di santa Ildegarda: « La fiamma consiste di una splendida chiarezza, di un insito vigore e di un igneo ardore, ma la splendida chiarezza la possiede perché riluca e l’igneo ardore affinché bruci. »

Mi ricordai di alcune frasi di Ubertino sull’amore. L’immagine di Michele sul rogo si confuse con quella di Dolcino, e quella di Dolcino con quella di Margherita la bella. Sentii di nuovo quella irrequietezza che mi aveva preso in chiesa.

Tentai di non pensarci e procedetti decisamente verso il labirinto.

Vi penetravo da solo per la prima volta, le ombre lunghe proiettate dalla lucerna sul pavimento mi terrorizzavano quanto le visioni delle notti precedenti. Temevo a ogni istante di trovarmi davanti a un altro specchio, perché tale è la magìa degli specchi, che anche se sai che sono specchi essi non cessano di inquietarti.

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