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Il nome della rosa


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« E’ così allora, » mormorò Guglielmo. « Ha afferrato qualcosa con le dita e lo ha ingerito... Questo elimina i veleni che hai citato prima, che uccidono penetrando attraverso la pelle. Ma non rende più facili le nostre induzioni. Perché ora dobbiamo pensare, per lui e per Venanzio, a un gesto volontario, non casuale, non dovuto a distrazione o a imprudenza, né indotto con la violenza. Hanno afferrato qualcosa e lo hanno introdotto in bocca, sapendo cosa facevano...

« Un cibo? Una bevanda? »

« Forse. O forse... che so? uno strumento musicale come un flauto... »

« Assurdo, » disse Severino.

« Certo che è assurdo. Ma non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi, per straordinaria che sia. Ma ora cerchiamo di risalire alla materia venefica. Se qualcuno che conosca i veleni quanto te si fosse introdotto qui e avesse usato alcune di queste tue erbe, avrebbe potuto comporre un unguento mortale capace di produrre quei segni sulle dita e sulla lingua? Capace di essere posto in un cibo, in una bevanda, su un cucchiaio, su qualcosa che si mette in bocca? »

« Sì, » ammise Severino, « ma chi? E poi, anche ammessa questa ipotesi, come sarebbe stato propinato il veleno ai nostri due poveri confratelli? »

Francamente anch’io non riuscivo a immaginarmi Venanzio o Berengario che si lasciavano avvicinare da qualcuno che porgeva loro una sostanza misteriosa convincendoli a mangiarla o a berla. Ma Guglielmo non parve turbato da questa stranezza. « A questo penseremo dopo, » disse, « perché ora vorrei che tu cercassi di ricordare qualche fatto che forse non ti è ancora ritornato alla mente, non so, qualcuno che ti abbia fatto domande sulle tue erbe, qualcuno che entri con facilità nell’ospedale... »

« Un momento, » disse Severino, « molto tempo fa, parlo di anni, conservavo in uno di quegli scaffali una sostanza molto potente, che mi era stata data da un confratello che aveva viaggiato in paesi lontani. Non sapeva dirmi di cosa fosse fatta, certo di erbe, e non tutte note. Era, all’apparenza, vischiosa e giallastra, ma mi fu consigliato di non toccarla, perché se fosse venuta anche solo in contatto con le mie labbra mi avrebbe ucciso in breve tempo. Il confratello mi disse che, ingerita anche in dosi minime, provocava nel volgere di mezz’ora un senso di grande spossatezza, poi una lenta paralisi di tutte le membra, e infine la morte. Non voleva portarla con sé e me ne fece dono. La tenni a lungo, perché mi proponevo di esaminarla in qualche modo. Poi un giorno venne sul pianoro una grande bufera. Uno dei miei aiutanti, un novizio, aveva lasciata aperta la porta dell’ospedale, e l’uragano aveva sconvolto tutta la stanza in cui ora siamo. Ampolle rotte, liquidi sparsi sul pavimento, erbe e polveri disperse. Lavorai un giorno a rimettere in ordine le mie cose, e mi feci aiutare solo per spazzare via i cocci e le erbe ormai irrecuperabili. Alla fine mi accorsi che mancava proprio l’ampolla di cui ti parlavo. Dapprima mi preoccupai, poi mi convinsi che si era infranta e confusa con altri detriti. Feci lavare bene il pavimento dell’ospedale, e gli scaffali... »

« E avevi visto l’ampolla poche ore prima dell’uragano? »

« Sì... O meglio, no, ora che ci penso. Stava dietro una fila di vasi, ben nascosta, e non la controllavo ogni giorno.. « 

« Quindi, per quanto ne sai, avrebbe potuto esserti sottratta anche molto tempo prima dell’uragano, senza che tu lo sapessi? »

« Ora che mi ci fai riflettere, sì, indubbiamente. »

« E quel tuo novizio potrebbe averla sottratta e. poi potrebbe aver colto il destro dell’uragano per lasciare di proposito la porta aperta e mettere confusione tra le tue cose. »

Severino apparve molto eccitato: « Certo, sì. Non solo, ma ricordando quanto avvenne, mi stupii molto che l’uragano, per quanto violento, avesse rovesciato tante cose. Potrei benissimo dire che qualcuno ha approfittato dell’uragano per sconvolgere la stanza e produrre più danni di quanto il vento non avesse potuto fare! »

« Chi era il novizio? »


« Si chiamava Agostino. Ma è morto l’anno scorso, cadendo da una impalcatura mentre con altri monaci e famigli ripuliva le sculture della facciata della chiesa. E poi, a ben pensarci, lui aveva giurato e spergiurato di non aver lasciata aperta la porta prima dell’uragano. Fui io, infuriato, che lo ritenni responsabile dell’incidente. Forse era davvero innocente.

« E così abbiamo una terza persona, magari ben più esperta di un novizio, che era a conoscenza del tuo veleno. A chi ne avevi parlato? »

« Questo proprio non lo ricordo. All’Abate, certo, chiedendogli il permesso di trattenere una sostanza così pericolosa. E a qualcun altro forse proprio in biblioteca, perché cercavo degli erbari che mi potessero rivelare qualcosa. »

« Ma non mi hai detto che trattieni presso di te i libri più utili alla tua arte? »

« Sì, e molti, » disse indicando in un angolo della stanza alcuni scaffali carichi di decine di volumi. « Ma allora cercavo certi libri che non potrei trattenere e che anzi Malachia era restio a farmi vedere tanto che dovetti chiederne l’autorizzazione all’Abate. » La sua voce si abbassò e quasi ebbe ritegno a farsi udire da me. « Sai, in un luogo ignoto della biblioteca si conservano anche opere di negromanzia, di magìa nera, ricette di filtri diabolici. Potei consultare alcune di queste opere, per dovere di conoscenza, e speravo di trovare una descrizione di quel veleno e delle sue funzioni. Invano. »

« Quindi ne hai parlato a Malachia. »

« Certo, senz’altro a lui, e forse anche allo stesso Berengario che lo assisteva. Ma non trarre conclusioni affrettate: non ricordo, forse mentre parlavo erano presenti altri monaci, sai, talora lo scriptorium è abbastanza affollato...

« Non sto sospettando di nessuno. Cerco solo di capire cosa può essere accaduto. In ogni caso mi dici che il fatto avvenne qualche anno fa, ed è curioso che qualcuno abbia sottratto con tanto anticipo un veleno che avrebbe poi usato tanto tempo dopo. Sarebbe indizio di una volontà maligna che ha covato a lungo nell’ombra un proposito omicida. »

Severino si segnò con una espressione di orrore sul volto. « Dio ci perdoni tutti! » disse.

Non c’erano altri commenti da fare. Ricoprimmo il corpo di Berengario, che avrebbe dovuto essere preparato per le esequie.

Prima.

Dove Guglielmo induce prima Salvatore e poi il cellario a confessare il loro passato, Severino ritrova le lenti rubate, Nicola porta quelle nuove e Guglielmo con sei occhi va a decifrare il manoscritto di Venanzio.


Stavamo uscendo quando entrò Malachia. Parve contrariato dalla nostra presenza, e accennò a ritirarsi. Dall’interno Severino lo vide e disse: « Mi cercavi? E’ per... » S’interruppe, guardandoci. Malachia gli fece un cenno, impercettibile, come per dire: « Parliamone dopo... » Noi stavamo uscendo, lui stava entrando, ci trovammo tutti e tre nel vano della porta. Malachia disse, in modo piuttosto ridondante:

« Cercavo il fratello erborista... Ho... ho male al capo. »

« Deve essere l’aria chiusa della biblioteca, » gli disse Guglielmo con tono di premurosa comprensione. « Dovreste fare dei suffumigi. »

Malachia mosse le labbra come se volesse ancora parlare, poi rinunziò, abbassò il capo ed entrò, mentre noi ci allontanavamo.

« Cosa va a fare da Severino? » domandai.

« Adso, » mi disse con impazienza il maestro, « impara a ragionare con la tua testa. » Poi cambiò discorso: « Dobbiamo interrogare alcune persone, ora. Almeno, » aggiunse mentre con lo sguardo esplorava il pianoro, « sino a che sono ancora vive. A proposito: d’ora in poi facciamo attenzione a ciò che mangiamo e beviamo. Prendi sempre i tuoi cibi dal piatto comune, e le tue bevande dalla brocca a cui abbiano già attinto gli altri. Dopo Berengario siamo coloro che sanno più cose. Oltre, naturalmente, all’assassino. »

« Ma chi volete interrogare ora? »

« Adso, » disse Guglielmo, « avrai osservato che qui le cose più interessanti avvengono di notte. Di notte si muore, di notte si gira per lo scriptorium, di notte si introducono donne nella cinta... Abbiamo un’abbazia diurna e un’abbazia notturna, e quella notturna pare sciaguratamente più interessante di quella diurna. Pertanto, ogni persona che si aggiri di notte ci interessa, compreso per esempio l’uomo che hai visto ieri sera con la fanciulla. Magari la storia della fanciulla non ha nulla a che vedere con quella dei veleni, e magari sì. In ogni caso ho delle idee sull’uomo di ieri sera, che deve essere persona che sa anche altre cose sulla vita notturna di questo santo luogo. E, lupo nella favola, eccolo per l’appunto che sta passando laggiù. »

Mi additò Salvatore, il quale ci aveva visto a sua volta. Notai una lieve esitazione nel suo passo come se, desiderando evitarci, si fosse arrestato per invertire il cammino. Fu un attimo. Evidentemente si era reso conto che non poteva sottrarsi all’incontro, e riprese la sua marcia. Si rivolse a noi con un vasto sorriso e un « benedicite » alquanto untuoso. Il mio maestro quasi non lo lasciò finire e gli parlò in tono brusco.

« Sai che domani arriva qui l’inquisizione? » gli domandò.

Salvatore non ne parve contento. Con un filo di voce chiese: « E mi? »

« E tu farai bene a dire la verità a me, che sono amico tuo, e sono frate minore come tu sei stato, piuttosto che dirla domani a quelli, che conosci benissimo. »

Assalito così bruscamente, Salvatore parve abbandonare ogni resistenza. Guardò con aria sottomessa Guglielmo come per fargli capire che era pronto a dirgli quel che gli avesse chiesto.

« Questa notte c’era in cucina una donna. Chi era con lei? »

« Oh, femena che vendese como mercandia, no po’ unca bon essere, nì aver cortesia, recitò Salvatore.

« Non voglio sapere se era una brava ragazza. Voglio sapere chi c’era con lei! »

« Deu, quanto son le femene de malveci scaltride! Pensano dì e note como l’omo schernisca... »

Guglielmo lo afferrò bruscamente per il petto: « Chi c’era con lei, tu o il cellario? »

Salvatore capì che non poteva mentire più a lungo. Cominciò a raccontare una strana storia, dalla quale faticosamente apprendemmo che lui, per compiacere il cellario, gli procacciava ragazze al villaggio, facendole entrare nottetempo nella cinta per vie che non ci volle dire. Ma spergiurò che agiva per puro buon cuore, lasciando trasparire un comico rammarico per il fatto che non trovava modo di trarne anche il suo piacere, in modo che la ragazza, dopo aver accontentato il cellario, desse qualcosa anche a lui. Disse tutto questo con viscidi e lubrichi sorrisi, e ammicchii, come a lasciar intendere che parlava a uomini fatti di carne, adusi alle stesse pratiche. E mi guardava di sottecchi, né io potevo rintuzzarlo come avrei voluto, perché mi sentivo legato a lui da un segreto comune, suo complice e compagno di peccato.

Guglielmo decise a quel punto di tentare il tutto per tutto. Gli chiese di colpo: « Hai conosciuto Remigio prima o dopo essere stato con Dolcino? » Salvatore gli si inginocchiò ai piedi pregandolo tra le lacrime di non volerlo perdere e di salvarlo dall’inquisizione, Guglielmo gli giurò solennemente di non dire a nessuno quanto avrebbe saputo, e Salvatore non esitò a consegnare il cellario alla nostra mercé. Si erano conosciuti alla Parete Calva, entrambi della banda di Dolcino, col cellario era fuggito ed entrato nel convento di Casale, con lui si era trasferito tra i cluniacensi. Biascicava implorazioni di perdono, ed era chiaro che da lui non si sarebbe potuto sapere di più. Guglielmo decise che valeva la pena di prendere di sorpresa Remigio, e lasciò Salvatore, che corse a rifugiarsi in chiesa.

Il cellario era dalla parte opposta dell’abbazia, davanti ai granai, e stava contrattando con alcuni villici della valle. Ci guardò con apprensione, e cercò di mostrarsi molto indaffarato, ma Guglielmo insistette per parlare con lui. Sino ad allora avevamo avuto con quell’uomo pochi contatti; lui era stato cortese con noi, noi con lui. Quella mattina Guglielmo gli si rivolse come avrebbe fatto con un confratello del suo ordine. Il cellario parve imbarazzato di quella confidenza e rispose da principio con molta prudenza.

« Per le ragioni del tuo ufficio tu sei evidentemente costretto ad aggirarti per l’abbazia anche quando gli altri dormono, immagino, » disse Guglielmo.

« Dipende, » rispose Remigio, « talora vi sono piccole faccende da sbrigare e vi debbo dedicare qualche ora di sonno. »

« Non ti è accaduto nulla, in questi casi, che possa indicarci chi si aggirasse, senza avere le tue giustificazioni, tra la cucina e la biblioteca? »

« Se avessi visto qualcosa l’avrei detto all’Abate. »

« Giusto, » convenne Guglielmo, e cambiò bruscamente discorso: « Il villaggio a valle non è molto ricco, vero? »

« Sì e no, » rispose Remigio, « vi abitano dei prebendari che dipendono dall’abbazia e costoro condividono la nostra ricchezza, nelle annate grasse. Per esempio il giorno di San Giovanni hanno ricevuto dodici moggi di malto, un cavallo, sette buoi, un toro, quattro giovenche, cinque vitelli, venti pecore, quindici maiali, cinquanta polli e diciassette alveari. E poi venti maiali affumicati, ventisette forme di strutto, mezza misura di miele, tre misure di sapone, una rete da pesca... »

« Ho capito, ho capito, » interruppe Guglielmo, « ma ammetterai che questo non mi dice ancora quale sia la situazione del villaggio, quali tra gli abitanti siano prebendari dell’abbazia, e quanta terra abbia da coltivare in proprio chi non è prebendario... »

« Oh, per questo, » disse Remigio, « una famiglia normale laggiù possiede anche cinquanta tavole di terreno. »

« Quanto è una tavola? »

« Naturalmente, quattro trabucchi quadri. »

« Trabucchi quadri? Quanto sono? »

« Trentasei piedi quadri a trabucco. O se vuoi, ottocento trabucchi lineari fanno un miglio piemontese. E calcola che una famiglia — nelle terre verso mezzanotte — può coltivare olivi per almeno mezzo sacco di olio. »

« Mezzo sacco? »

« Sì, un sacco fa cinque emine, e una emina fa otto coppe. »

« Ho capito, » disse scoraggiato il mio maestro. « Ogni paese ha le sue misure. Voi per esempio il vino lo misurate a boccali? »

« O a rubbie. Sei rubbie, una brenta e otto brente un boccale. Se vuoi, un rubbo è di sei pinte da due boccali. »

« Credo di aver le idee chiare, » disse Guglielmo rassegnato.

« Desideri sapere altro? » chiese Remigio, con un tono che mi parve di sfida.

« Sì! Ti domandavo su come vivano a valle, perché meditavo oggi in biblioteca sulle prediche alle donne di Umberto da Romans, e in particolare su quel capitolo « Ad mulieres pauperes in villulis ». Dove dice che esse più di altre sono tentate ai peccati della carne, a causa della loro miseria, e saggiamente dice che esse peccant enim mortaliter, cum peccant cum quocumque laico, mortalius vero quando cum Clerico in sacris ordinibus constituto, maxime vero quando cum Religioso mundo mortuo. Tu sai meglio di me che anche in luoghi santi come le abbazie le tentazioni del demone meridiano non mancano mai. Mi chiedevo se nei tuoi contatti con la gente del villaggio fossi venuto ad apprendere che alcuni monaci, Dio non volesse, abbiano indotto alcune fanciulle in fornicazione.

Benché il mio maestro dicesse queste cose con tono quasi distratto, il mio lettore avrà capito come quelle parole turbassero il povero cellario. Non so dire se impallidì, ma dirò che tanto mi attendevo che impallidisse che lo vidi impallidire.

« Mi chiedi cose che, se le sapessi, avrei già detto all’Abate, » rispose umilmente. « In ogni caso se, come immagino, queste notizie servono alla tua indagine, non ti tacerò nulla di quanto possa apprendere. Anzi, ora che mi fai pensare, a proposito della tua prima domanda... La notte in cui morì il povero Adelmo, io circolavo per la corte... sai, una storia di galline... voci che avevo raccolto su un qualche maniscalco che nottetempo andava a rubacchiare nel pollaio... Ecco, quella notte mi accadde di vedere — da lontano, non potrei giurare — Berengario che rientrava al dormitorio costeggiando il coro, come se provenisse dall’Edificio... Non me ne stupii, perché tra i monaci si mormorava da tempo su Berengario, forse l’hai saputo.. « 

« No, dimmi. »

« Bene, come dire? Berengario era sospettato di nutrire passioni che... non si convengono a un monaco... »

« Vuoi forse suggerirmi che aveva rapporti con ragazze del villaggio, come ti stavo domandando? »

Il cellario tossì imbarazzato, ed ebbe un sorriso piuttosto laido: « Oh no... passioni ancora più sconvenienti... »

« Perché un monaco che si diletti carnalmente con fanciulle del villaggio esercita invece passioni in qualche modo convenienti? »

« Non ho detto questo, ma tu mi insegni che c’è una gerarchia nella depravazione come c’è nella virtù. La carne può essere tentata secondo natura e... contro natura.

« Tu mi stai dicendo che Berengario era mosso da desideri carnali per uomini del suo sesso? »

« Io dico che così si mormorava di lui... Ti comunicavo queste cose come, prova della mia sincerità e della mia buona volontà... »

« E io ti ringrazio. E convengo con te che il peccato di sodomia è ben peggiore di altre forme di lussuria, sulle quali francamente non sono portato a investigare...

« Miserie, miserie, quand’anche si verificassero, » disse con filosofia il cellario.

« Miserie, Remigio. Siamo tutti peccatori. Non cercherei mai la pagliuzza nell’occhio del fratello, tanto temo di avere una gran trave nel mio. Ma ti sarò grato per tutte le travi di cui mi vorrai parlare in futuro. Così ci intratterremo su grandi e robusti tronchi di legno e lasceremo che le pagliuzze volteggino nell’aria. Quanto dicevi che è un trabucco? »

« Trentasei piedi quadri. Ma non affannarti. Quando vorrai sapere qualcosa di preciso verrai da me. Fai conto di avere in me un amico fedele. »

« Tale io ti considero, » disse Guglielmo con calore. « Ubertino mi ha detto che un tempo appartenevi al mio stesso ordine. Non tradirei mai un antico confratello, specie in questi giorni in cui si sta attendendo l’arrivo di una legazione pontificia condotta da un grande inquisitore, famoso per aver bruciato tanti dolciniani. Dicevi che un trabucco fa trentasei piedi quadri? »

Il cellario non era uno sciocco. Decise che non valeva più la pena di giocare al gatto e al topo, tanto più che si accorgeva di essere il topo.

« Frate Guglielmo, » disse, « vedo che tu sai molte più cose di quanto io non immaginassi. Non tradirmi, e io non ti tradirò. E’ vero, sono un povero uomo carnale, e cedo alle lusinghe della carne. Salvatore mi ha detto che tu o il tuo novizio ieri sera li avete sorpresi in cucina. Tu hai viaggiato molto, Guglielmo, sai che neppure i cardinali di Avignone sono modelli di virtù. So che non è per questi piccoli e miserabili peccati che stai interrogandomi. Ma capisco anche che hai appreso qualcosa sulla mia storia di un tempo. Ho avuto una vita bizzarra, come accadde a molti di noi minoriti. Anni fa ho creduto nell’ideale di povertà, ho abbandonato la comunità per darmi a vita randagia. Ho creduto alla predicazione di Dolcino, come molti altri come me. Non sono un uomo colto, ho ricevuto gli ordini ma so appena dir messa. So poco di teologia. E forse non riesco neppure ad affezionarmi alle idee. Vedi, un tempo ho tentato di ribellarmi ai signori, ora li servo e per il signore di queste terre comando a quelli come me. O ribellarsi o tradire, è data poca scelta a noi semplici. »

« Talora i semplici capiscono le cose meglio dei dotti, » disse Guglielmo.

« Forse, » rispose il cellario con una alzata di spalle. « Ma non so neppure perché ho fatto quello che ho fatto, allora. Vedi, per Salvatore era comprensibile, veniva dai servi della gleba, da una infanzia di carestie e di malattie... Dolcino rappresentava la ribellione, e la distruzione dei signori. Per me è stato diverso, ero di famiglia cittadina, non sfuggivo alla fame. E’ stata... non so come dire, una festa dei folli, un bel carnevale... Sui monti con Dolcino, prima che fossimo ridotti a mangiare la carne dei nostri compagni morti in battaglia, prima che ne morissero tanti di stenti che non si poteva mangiarli tutti, e si gettavano in pasto agli uccelli e alle fiere sulle pendici del Rebello... o forse anche in questi momenti... respiravamo un’aria... posso dire di libertà? Non sapevo prima cosa fosse la libertà, i predicatori ci dicevano: ’La verità vi farà liberi.’ Ci sentivamo liberi, pensavamo che fosse la verità. Pensavamo che tutto quello che facevamo fosse giusto... »

« E laggiù avete preso... a unirvi liberamente con una donna? » chiesi, e non so neppure perché, ma mi ossessionavano dalla notte innanzi le parole di Ubertino, e quello che avevo letto nello scriptorium, e gli stessi casi che mi erano accaduti. Guglielmo mi guardò incuriosito. probabilmente non si attendeva che fossi così ardimentoso, e impudente. Il cellario mi fissò come se fossi uno strano animale.

« Sul Rebello, » disse, « c’era gente che per tutta l’infanzia avevan dormito, in dieci e più, in pochi cubiti di stanza, fratelli e sorelle, padri e figlie. Cosa vuoi che fosse per loro accettare questa nuova situazione? Facevano per elezione quello che prima avevano fatto per necessità. E poi di notte, quando temi l’arrivo delle squadre nemiche e ti stringi vicino al tuo compagno, sulla terra, per non sentire freddo... Gli eretici: voi monacelli che venite da un castello e finite in una abbazia, credete che sia un modo di pensare, ispirato dal demonio. Invece è un modo di vivere, ed è... ed è stata... una esperienza nuova... Non c’erano più padroni e Dio, ci dicevano, era con noi. Non dico che avessimo ragione, Guglielmo, e infatti mi vedi qui, perché li abbandonai ben presto. Ma è che non ho mai capito le vostre dispute dotte sulla povertà di Cristo e l’uso e il fatto e il diritto... Te l’ho detto, è stato un gran carnevale, e a carnevale si fanno le cose alla rovescia. Poi diventi vecchio, non diventi saggio, ma diventi ghiottone. E qui faccio il ghiottone... Puoi condannare un eretico, ma vuoi condannare un ghiottone? »

« Basta così, Remigio, » disse Guglielmo. « Non ti interrogo per quello che è successo allora, ma per quello che è accaduto di recente. Aiutami, e io non cercherò certo la tua rovina. Non posso e non voglio giudicarti. Ma mi devi dire cosa sai sui fatti dell’abbazia. Giri troppo, di notte e di giorno, per non sapere qualcosa. Chi ha ucciso Venanzio? »

« Non lo so, te lo giuro. So quando è morto, e dove. »

« Quando? Dove? »

« Lasciami raccontare. Quella notte, un’ora dopo compieta, sono entrato in cucina... »

« Da dove, e per quali ragioni? »

« Dalla porta verso l’orto. Ho una chiave che da tempo mi son fatto fare dai fabbri. La porta della cucina è l’unica che non sia sbarrata dall’interno. E le ragioni... non contano, hai detto tu stesso che non vuoi accusarmi per le debolezze della mia carne... » Sorrise imbarazzato. « Ma non vorrei nemmeno che credessi che passo i miei giorni nella fornicazione... Quella sera cercavo cibo da regalare alla ragazza che Salvatore doveva far entrare nella cinta... »

« Da dove? »

« Oh, la cinta delle mura ha altre entrate, oltre al portale. Le conosce l’Abate, le conosco io... Ma quella sera la ragazza non venne, la rimandai indietro proprio a causa di quello che scoprii, e che sto per raccontarti. Ecco perché tentai di farla tornare ieri notte. Se voi foste giunti un poco dopo avreste trovato me invece di Salvatore, fu lui ad avvertirmi che c’era gente nell’Edificio, e io tornai nella mia cella... »

« Torniamo alla notte tra domenica e lunedì. »

« Ecco: io entrai in cucina e vidi per terra Venanzio, morto. »

« In cucina? »

« Sì, vicino all’acquaio. Forse era appena disceso dallo scriptorium. »

« Nessuna traccia di lotta? »

« Nessuna. O meglio, vicino al corpo c’era una tazza infranta, e segni di acqua per terra. »

« Perché sai che era acqua? »

« Non lo so. Ho pensato che fosse acqua. Cosa poteva essere? »

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