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Il nome della rosa


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« E’ vero, » disse Ubertino. « Michele, Michele, non sai che vergogne ho dovuto vedere ad Avignone! »

« Cerchiamo di essere onesti, » disse Michele. « Sappiamo che anche i nostri hanno commesso degli eccessi. Ho avuto notizie di francescani che attaccavano in armi i conventi domenicani e denudavano i frati nemici per imporre loro la povertà... E’ per questo che non osai oppormi a Giovanni ai tempi dei casi di Provenza... Voglio addivenire con lui a un accordo, non umilierò il suo orgoglio, gli chiederò solo che non umilii la nostra umiltà. Non gli parlerò di danaro, gli chiederò solo di consentire con una sana interpretazione delle scritture. E questo dovremo fare coi legati suoi, domani. Alla fin fine sono uomini di teologia, e non tutti saranno rapaci come Giovanni. Quando degli uomini saggi avranno deliberato su un’interpretazione scritturale, egli non potrà... »

« Egli? » interruppe Ubertino. « Ma tu non conosci ancora le sue follie in campo teologico. Egli vuole legare davvero tutto di sua mano, in cielo e in terra. In terra abbiamo visto cosa fa. Quanto al cielo... Ebbene, egli non ha ancora espresso le idee che ti dico, non pubblicamente almeno, ma io so di certo che ne ha mormorato coi suoi fidi. Egli sta elaborando alcune proposizioni folli, se non perverse, che cambierebbero la sostanza stessa della dottrina, e toglierebbero ogni forza alla nostra predicazione! »

« Quali? » domandarono molti.

« Chiedete a Berengario, egli lo sa, me ne aveva parlato lui. » Ubertino si era rivolto a Berengario Talloni, che era stato negli anni scorsi uno dei più decisi avversari del pontefice nella sua stessa corte. Venuto da Avignone, si era da due giorni ricongiunto col gruppo degli altri francescani e con loro era arrivato all’abbazia.

« E’ una storia oscura e quasi incredibile, » disse Berengario. « Pare dunque che Giovanni abbia in mente di sostenere che i giusti non godranno della visione beatifica sino a dopo il Giudizio. E’ da tempo che sta riflettendo sul versetto nove del capitolo sesto dell’Apocalisse, là dove si parla dell’apertura del quinto sigillo: dove appaiono sotto l’altare quelli che sono stati uccisi per testimoniare la parola di Dio e chiedono giustizia. A ciascuno viene data una veste bianca dicendo loro di pazientare ancora un poco... Segno, ne argomenta Giovanni, che essi non potranno vedere Dio nella sua essenza se non al compimento del giudizio finale. »

« Ma a chi ha detto queste cose? » domandò Michele esterrefatto.

« Sinora a pochi intimi, ma la voce si è diffusa, dicono che stia preparando un intervento aperto, non subito, forse tra qualche anno, sta consultandosi coi suoi teologi... »

« Ah ah! » ghignò Girolamo masticando.

« Non solo, sembra che voglia andare oltre e sostenere che neppure l’inferno sarà aperto prima di quel giorno... Nemmeno per i demoni. »

« Gesù Signore aiutaci! » esclamò Girolamo. « E cosa racconteremo allora ai peccatori se non possiamo minacciarli di un inferno immediato, subito appena morti!? »

« Siamo nelle mani di un pazzo, » disse Ubertino. « Ma non capisco perché voglia sostenere queste cose... »

« Va in fumo tutta la dottrina delle indulgenze, » lamentò Girolamo, « e neppure lui potrà più venderne. Perché un prete che ha peccato di bestialità deve pagare tante lire d’oro per evitare un castigo tanto remoto? »

« Non tanto remoto, » disse con forza Ubertino, « i tempi sono vicini! »

« Lo sai tu caro fratello, ma i semplici non lo sanno. Ecco come stanno le cose! » gridò Girolamo che non aveva più l’aria di godere del proprio cibo. « Che idea nefasta, gliela devono aver messa in capo questi frati predicatori... Ah! » e scosse il capo.

« Ma perché? » ripeté Michele da Cesena.

« Non credo ci sia una ragione, » disse Guglielmo. « E’ una prova che egli si concede, un atto d’orgoglio. Vuole essere veramente colui che decide per il cielo e per la terra. Sapevo di queste mormorazioni, me lo aveva scritto Guglielmo di Occam. Vedremo alla fine se la spunterà il papa o la spunteranno i teologi, la voce tutta della chiesa, i desideri stessi del popolo di Dio, i vescovi... »

« Oh, su materie dottrinali egli potrà piegare anche i teologi, » disse triste Michele.

« Non è detto, » rispose Guglielmo. « Viviamo in tempi in cui i sapienti di cose divine non hanno timore a proclamare che il papa sia un eretico. I sapienti di cose divine sono a loro modo la voce del popolo cristiano. Contro cui neppure il papa potrà ormai andare. »

« Peggio, peggio ancora, » mormorò Michele spaventato. « Da un lato un papa folle, dall’altro il popolo di Dio che, sia pure per bocca dei suoi teologi, pretenderà tra poco di interpretare liberamente le scritture... »

« Perché, cosa avete fatto voi di diverso a Perugia? » domandò Guglielmo.

Michele si scosse come punto sul vivo: « Per questo voglio incontrare il papa. Nulla noi possiamo su cui anch’egli non concordi. »

« Vedremo, vedremo, » disse Guglielmo in modo enigmatico.

Il mio maestro era davvero molto acuto. Come faceva a prevedere che Michele stesso avrebbe poi deciso di appoggiarsi ai teologi dell’impero e al popolo per condannare il papa? Come faceva a prevedere che, quando quattro anni dopo Giovanni avrebbe enunciato per la prima volta la sua incredibile dottrina, ci sarebbe stata una sollevazione da parte di tutta la cristianità? Se la visione beatifica era tanto ritardata, come avrebbero potuto i defunti intercedere per i viventi? E dove sarebbe finito il culto dei santi? Proprio i minoriti avrebbero iniziato le ostilità condannando il papa, e Guglielmo di Occam sarebbe stato in prima fila, severo e implacabile nelle sue argomentazioni. La lotta sarebbe durata per tre anni, sinché Giovanni, giunto vicino alla morte, avrebbe fatto parziale ammenda. Lo udii descrivere anni dopo, come apparve nel concistoro del dicembre 1334, più piccolo di quanto fosse mai apparso sino ad allora, rinsecchito dall’età, novantenne e moribondo, pallido in viso, e avrebbe detto (la volpe, così abile nel giocare sulle parole non solo per violare i propri giuramenti ma anche per rinnegare le proprie ostinazioni): « Noi confessiamo e crediamo che le anime separate dal corpo e completamente purificate siano in cielo, in paradiso con gli angeli, e con Gesù Cristo, e che esse vedano Dio nella sua divina essenza, chiaramente e faccia a faccia... » e poi con una pausa, nessuno seppe mai se dovuta alla difficoltà del respiro o alla volontà perversa di sottolineare l’ultima clausola come avversativa, « nella misura in cui lo stato e la condizione dell’anima separata lo permetta. » La mattina dopo, era di domenica, si fece mettere su una sedia allungata e dal dorso reclinato, accolse il bacio della mano dai suoi cardinali, e morì.

Ma nuovamente divago, e racconto altre cose da quelle che dovrei raccontare. Anche perché in fondo, il resto di quella conversazione a tavola non aggiunge molto alla comprensione delle vicende di cui narro. I minoriti si accordarono sul contegno da tenere per il giorno dopo. Valutarono uno per uno i loro avversari. Commentarono con preoccupazione la notizia, data da Guglielmo, dell’arrivo di Bernardo Gui. E ancora più il fatto che a presiedere la legazione avignonese sarebbe stato il cardinal Bertrando del Poggetto. Due inquisitori erano troppi: segno che si voleva usare contro i minoriti l’argomento dell’eresia.

« Tanto peggio, » disse Guglielmo, « noi tratteremo da eretici loro. »

« No, no, » disse Michele, « procediamo con cautela, non dobbiamo compromettere alcun accordo possibile. »

« Per quanto riesco a pensare, » disse Guglielmo, « pur avendo lavorato per la realizzazione di questo incontro, e tu lo sai Michele, io non credo che gli avignonesi vengano qui per trarne alcun risultato positivo. Giovanni ti vuole ad Avignone solo e non garantito. Ma l’incontro avrà almeno una funzione, di farti capire questo. Sarebbe stato peggio se tu fossi andato prima di avere questa esperienza. »

« Così tu ti sei dato da fare, e per molti mesi, per realizzare una cosa che credi inutile, » disse amaramente Michele.

« Mi era stato richiesto, e da te e dall’imperatore, » disse Guglielmo. « E infine, non è mai inutile conoscere meglio i propri nemici. »

A quel punto vennero ad avvertirci che stava entrando entro le mura la seconda delegazione. I minoriti si alzarono e andarono incontro agli uomini del papa.

Nona.

Dove arrivano il cardinale del Poggetto, Bernardo Gui e gli altri uomini di Avignone, e poi ciascuno fa cose diverse.


Uomini che già si conoscevano da tempo, uomini che senza conoscersi avevano udito parlare l’uno dell’altro, si salutavano nella corte con apparente mansuetudine. Al fianco dell’Abate il cardinal Bertrando del Poggetto si muoveva come chi abbia familiarità col potere, quasi che fosse un secondo pontefice egli stesso, e distribuiva a tutti, specie ai minoriti, cordiali sorrisi, auspicando mirabili intese dall’incontro del giorno dopo, e recando esplicitamente i voti di pace e bene (usò intenzionalmente questa espressione cara ai francescani) da parte di Giovanni Ventiduesimo.

« Bravo, bravo, » disse a me, quando Guglielmo ebbe la bontà di presentarmi come suo scrivano e discepolo. Poi mi chiese se conoscessi Bologna e me ne lodò la bellezza, il buon cibo e la splendida università, invitandomi a visitarla, invece di tornare un giorno, mi disse, tra quelle mie genti tedesche che stavano facendo tanto soffrire il nostro signor papa. Poi mi porse l’anello da baciare mentre già volgeva il suo sorriso verso qualcun altro.

D’altra parte la mia attenzione si rivolse subito al personaggio di cui più avevo udito parlare in quei giorni: Bernardo Gui, come lo chiamavano i francesi, o Bernardo Guidoni o Bernardo Guido come lo chiamavano altrove.

Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta.

Nello scambio generale dei saluti, non fu come gli altri affettuoso o cordiale, ma sempre e appena appena cortese. Quando vide Ubertino, che già conosceva, fu con lui molto deferente, ma lo fissò in modo tale da indurre in me un brivido di inquietudine. Quando salutò Michele da Cesena ebbe un sorriso difficile da decifrare, e mormorò senza calore: « Lassù vi si attende da molto tempo », frase in cui non riuscii a cogliere né un cenno d’ansia, né un’ombra di ironia, né un’ingiunzione, né peraltro una sfumatura di interesse. Si incontrò con Guglielmo, e come apprese chi era lo guardò con educata ostilità: ma non perché il volto tradisse i suoi sentimenti segreti, ne ero certo (anche se ero incerto se egli mai nutrisse sentimento alcuno), ma perché certamente voleva che Guglielmo lo sentisse ostile. Guglielmo ricambiò la sua ostilità sorridendogli in modo esageratamente cordiale e dicendogli: « Da tempo desideravo conoscere un uomo la cui fama mi è stata di lezione e di monito per tante importanti decisioni che hanno ispirato la mia vita. » Sentenza senz’altro elogiativa e quasi adulatoria per chi non sapesse, come invece Bernardo sapeva bene, che una delle decisioni più importanti della vita di Guglielmo era stata quella di abbandonare il mestiere dell’inquisitore. Ne trassi l’impressione che, se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche segreta imperiale, Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo colto da morte accidentale e subitanea; e siccome Bernardo aveva al proprio comando in quei giorni uomini d’arme, temetti per la vita del mio buon maestro.

Bernardo doveva già essere stato informato dall’Abate circa i delitti commessi all’abbazia. Infatti, fingendo di non raccogliere il veleno contenuto nella frase di Guglielmo, gli disse: « Pare che in questi giorni, per richiesta dell’Abate, e per assolvere il compito affidatomi ai termini dell’accordo che ci vede qui riuniti, dovrò occuparmi di vicende tristissime in cui si avverte il pestifero odore del demonio. Ve ne parlo perché so che in tempi lontani, in cui mi sareste stato più vicino, anche voi accanto a me — e a quelli come me — vi siete battuto su quel campo che vedeva confrontate a battaglia le schiere del bene contro le schiere del male. »

« Infatti, » disse quietamente Guglielmo, « ma poi io sono passato dall’altra parte. »

Bernardo sostenne bravamente il colpo: « Potete dirmi qualcosa di utile su queste cose delittuose? »

« Sfortunatamente no, » rispose civilmente Guglielmo. « Non ho la vostra esperienza in cose delittuose. »

Da quel momento in poi persi le tracce di ciascuno. Guglielmo, dopo un’altra conversazione con Michele e Ubertino, si ritirò nello scriptorium. Chiese a Malachia di poter esaminare certi libri e non giunsi a sentirne il titolo. Malachia lo guardò in modo strano, ma non poté negarglieli. Caso curioso, non dovette cercarli in biblioteca. Erano già tutti sul tavolo di Venanzio. Il mio maestro si immerse nella lettura e decisi di non disturbarlo.

Scesi in cucina. Lì vidi Bernardo Gui. Forse voleva rendersi conto della disposizione dell’abbazia e girava dappertutto. Lo udii che interrogava i cucinieri e altri servi, parlando bene o male il volgare del luogo (mi ricordai che era stato inquisitore in Italia settentrionale). Mi parve domandasse informazioni sui raccolti, sull’organizzazione del lavoro nel monastero. Ma anche ponendo le questioni più innocenti, guardava il suo interlocutore con occhi penetranti, poi poneva di colpo una nuova domanda, e a questo punto la sua vittima impallidiva e balbettava. Ne conclusi che, in qualche modo singolare, egli stava inquisendo, e si avvaleva di un’arma formidabile che ogni inquisitore nell’esercizio della sua funzione possiede e manovra: la paura dell’altro. Perché ogni inquisito di solito dice all’inquisitore, per il timore di essere sospettato di qualcosa, ciò che può servire a rendere sospetto qualcun altro.

Per tutto il resto del pomeriggio, a mano a mano che mi muovevo, vidi Bernardo procedere così, vuoi presso i mulini, vuoi nel chiostro. Ma quasi mai affrontò dei monaci, sempre dei fratelli laici o dei contadini. Il contrario di quanto aveva fatto sino ad allora Guglielmo.

Vespri.

Dove Alinardo sembra dare informazioni preziose e Guglielmo rivela il suo metodo per arrivare a una verità probabile attraverso una serie di sicuri errori.


Più tardi Guglielmo discese dallo scriptorium di buon umore. Mentre attendevamo che si facesse l’ora di cena trovammo nel chiostro Alinardo. Ricordando la sua richiesta, sin dal giorno prima mi ero procurato dei ceci in cucina, e gliene offrii. Mi ringraziò infilandoseli nella bocca sdentata e bavosa. « Hai visto ragazzo, » mi disse, « anche l’altro cadavere giaceva là dove il libro lo annunziava... Attendi ora la quarta tromba! »

Gli chiesi come mai pensava che la chiave per la sequenza dei crimini stesse nel libro della rivelazione. Mi guardò stupito: « Il libro di Giovanni offre la chiave di tutto! » E aggiunse, con una smorfia di rancore: « Io lo sapevo, io lo dicevo da gran tempo... Fui io, sai, a proporre all’Abate... quello di allora, di raccogliere quanti più commenti all’Apocalisse fosse possibile. Io dovevo diventare bibliotecario... Ma poi l’altro riuscì a farsi mandare a Silos, dove trovò i manoscritti più belli, e tornò con un bottino splendido... Oh, lui sapeva dove cercare, parlava anche la lingua degli infedeli... E così egli ricevette la biblioteca in custodia, e non io. Ma Dio lo punì, e lo fece entrare anzitempo nel regno delle tenebre. Ah, ah... » rise in modo cattivo, quel vecchio che sino ad allora mi era parso, immerso nella serenità della sua canizie, simile a un fanciullo innocente.

« Chi era quello di cui parlate? » chiese Guglielmo.

Ci guardò attonito. « Di chi parlavo? Non ricordo... fu tanto tempo fa. Ma Dio punisce, Dio cancella, Dio oscura anche i ricordi. Molti atti di superbia furono commessi nella biblioteca. Specie da quando cadde in mano agli stranieri. Dio punisce ancora... »

Non riuscimmo a trargli altre parole e lo abbandonammo al suo queto e rancoroso delirio. Guglielmo si disse molto interessato da quel colloquio: « Alinardo è un uomo da ascoltare, ogni volta che parla dice qualcosa d’interessante. »

« Cosa ha detto questa volta? »

« Adso, » disse Guglielmo, « risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno, o due, o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possano essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata enunciata. Certo, se sai, come dice il filosofo, che l’uomo, il cavallo e il mulo sono tutti senza fiele e tutti vivono a lungo, puoi tentare di enunciare il principio per cui gli animali senza fiele vivono a lungo. Ma immagina il caso degli animali con le corna. Perché hanno le corna? Improvvisamente ti accorgi che tutti gli animali con le corna non hanno denti nella mandibola superiore. Sarebbe una bella scoperta, se non ti rendessi conto che, ahimè, ci sono animali senza denti nella mandibola superiore e che tuttavia non hanno le corna, come il cammello. Infine ti accorgi che tutti gli animali senza denti nella mandibola superiore hanno due stomaci. Bene, puoi immaginare che chi non ha denti sufficienti mastichi male e dunque abbia bisogno di due stomaci per poter digerire meglio il cibo. Ma le corna? Allora provi a immaginare una causa materiale delle corna, per cui la mancanza di denti provvede l’animale con una eccedenza di materia ossea che deve spuntare da qualche altra parte. Ma è una spiegazione sufficiente? No, perché il cammello non ha denti superiori, ha due stomaci, ma non le corna. E allora devi immaginare anche una causa finale. La materia ossea fuoriesce in corna solo negli animali che non hanno altri mezzi di difesa. Invece il cammello ha una pelle durissima e non ha bisogno delle corna. Allora la legge potrebbe essere... »

« Ma cosa c’entrano le corna? » domandai con impazienza, « e perché vi occupate di animali con le corna? »

« Io non me ne sono mai occupato, ma il vescovo di Lincoln se ne era occupato molto, seguendo una idea di Aristotele. Onestamente, io non so se le ragioni che ha trovato siano quelle buone, né ho mai controllato dove il cammello abbia i denti e quanti stomaci abbia: ma era per dirti che la ricerca delle leggi esplicative, nei fatti naturali, procede in modo tortuoso. Di fronte ad alcuni fatti inspiegabili tu devi provare a immaginare molte leggi generali, di cui non vedi ancora la connessione coi fatti di cui ti occupi: e di colpo, nella connessione improvvisa di un risultato, un caso e una legge, ti si profila un ragionamento che ti pare più convincente degli altri. Provi ad applicarlo a tutti i casi simili, a usarlo per trarne previsioni, e scopri che avevi indovinato. Ma sino alla fine non saprai mai quali predicati introdurre nel tuo ragionamento e quali lasciar cadere. E così faccio ora io. Allineo tanti elementi sconnessi e fingo delle ipotesi. Ma ne devo fingere molte, e numerose sono quelle così assurde che mi vergognerei di dirtele. Vedi, nel caso del cavallo Brunello, quando vidi le tracce, io finsi molte ipotesi complementari e contraddittorie: poteva essere un cavallo in fuga, poteva essere che su quel bel cavallo l’Abate fosse sceso lungo il pendio, poteva essere che un cavallo Brunello avesse lasciato i segni sulla neve e un altro cavallo Favello, il giorno prima, i crini nel cespuglio, e che i rami fossero stati spezzati da degli uomini. Io non sapevo quale fosse l’ipotesi giusta sino a che non vidi il cellario e i servi che cercavano con ansia. Allora capii che l’ipotesi di Brunello era la sola buona, e cercai di provare se fosse vera, apostrofando i monaci come feci. Vinsi, ma avrei anche potuto perdere. Gli altri mi hanno creduto saggio perché ho vinto, ma non conoscevano i molti casi in cui sono stato stolto perché ho perso, e non sapevano che pochi secondi prima di vincere io non ero sicuro che non avessi perduto. Ora, sui casi dell’abbazia, ho molte belle ipotesi, ma non c’è nessun fatto evidente che mi permetta di dire quale sia la migliore. E allora, per non apparire sciocco dopo, rinuncio ad apparire astuto ora. Lasciami ancora pensare, sino a domani, almeno. »

Capii in quel momento quale fosse il modo di ragionare del mio maestro, e mi parve assai difforme da quello del filosofo che ragiona sui principi primi, così che il suo intelletto assume quasi i modi dell’intelletto divino. Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne proponeva molte e diversissime tra loro. Rimasi perplesso.

« Ma allora, » ardii commentare, « siete ancora lontano dalla soluzione... »

« Ci sono vicinissimo, » disse Guglielmo, « ma non so a quale. »

« Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande? »

« Adso, se l’avessi insegnerei teologia a Parigi.

« A Parigi hanno sempre la risposta vera? »

« Mai, » disse Guglielmo, « ma sono molto sicuri dei loro errori. »

« E voi, » dissi con infantile impertinenza, « non commettete errori? »

« Spesso, » rispose. « Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di nessuno. »

Ebbi l’impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile.

In quel momento, lo confesso, disperai del mio maestro e mi sorpresi a pensare: « Meno male che è arrivata l’inquisizione. » Parteggiai per la sete di verità che animava Bernardo Gui.

E con queste colpevoli disposizioni di spirito, più turbato di Giuda la notte del giovedì santo, entrai con Guglielmo nel refettorio a consumare la cena.

Compieta.

Dove Salvatore parla di una magìa portentosa.
La cena per la legazione fu superba. L’Abate doveva conoscere molto bene e le debolezze degli uomini e gli usi della corte papale (che non dispiacquero, debbo dirlo, neppure ai minoriti di fra Michele). I maiali ammazzati da poco, ci doveva essere del sanguinaccio all’uso di Montecassino, ci disse il cuciniere. Ma la sciagurata fine di Venanzio aveva costretto a buttare tutto il sangue dei maiali, sino a che non si fosse proceduto a scannarne d’altri. Inoltre credo che in quei giorni ripugnasse a tutti uccidere creature del Signore. Ma avemmo del salmì di piccioncini, macerato nel vino di quelle terre, e coniglio in porchetta, pagnottini di santa Chiara, riso con le mandorle di quei monti ovvero il biancomangiare delle vigilie, crostini di borragine, ulive ripiene, formaggio fritto, carne di pecora con salsa cruda di peperoni, fave bianche, e dolciumi squisiti, dolce di san Bernardo, paste di san Niccolò, occhietti di santa Lucia, e vini, e liquori d’erbe che misero di buon umore persino Bernardo Gui, di solito così austero: liquore di citronella, nocino, vino contro la gotta e vino di genziana. Sembrava una riunione di ghiottoni, se ogni sorsata o ogni boccone non fosse stato accompagnato da devote letture.

Alla fine tutti si alzarono molto lieti, alcuni accampando vaghi malori per non scendere a compieta. Ma l’Abate non se ne adontò. Non tutti hanno il privilegio e gli obblighi che conseguono all’essersi consacrati al nostro ordine.

Mentre i monaci si avviavano mi attardai curioso per la cucina, dove stavano apparecchiando per la chiusura notturna. Vidi Salvatore che sgattaiolava verso l’orto con un fagotto in braccio. Incuriosito lo seguii e lo chiamai. Egli cercò di schermirsi, poi alle mie domande rispose che recava nel fagotto (che si muoveva come abitato da cosa viva) un basilisco.

« Cave basilischium! Est lo reys dei serpenti, tant pleno del veleno che ne riluce tuto fuori! Che dicam, il veleno, il puzzo ne vien fuori che te ancide! Ti attosca... Et ha macule bianche sul dosso, et caput come gallo, et metà va dritta sopre la terra et metà va per terra come gli altri serpentes. E lo ancide la bellula... »

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