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Il nome della rosa


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Il cellario smise di tremare, si guardò intorno come se uscisse da un sogno: « No, » disse, « coi delitti dell’abbazia non c’entro. Ho confessato tutto quello che ho fatto, non fatemi confessare quello che non ho fatto... »

« Ma cosa rimane che tu non possa avere fatto? Ora ti dici innocente? O agnello, o modello di mansuetudine! Lo avete udito, ha avuto un tempo le mani lorde di sangue e ora è innocente! Forse ci siamo sbagliati, Remigio da Varagine è un modello di virtù, un figlio fedele della chiesa, un nemico dei nemici di Cristo, ha sempre rispettato l’ordine che la mano vigile della chiesa si è affannata a imporre a villaggi e città, la pace dei commerci, le botteghe degli artigiani, i tesori delle chiese. Egli è innocente, non ha commesso nulla, tra le mie braccia, fratello Remigio, ché io ti possa consolare delle accuse che i malvagi hanno elevato contro di te! » E mentre Remigio lo guardava con occhi sperduti, come quasi di colpo stesse credendo in una assoluzione finale, Bernardo si ricompose e si rivolse in tono di comando al capitano degli arcieri.

« Mi ripugna ricorrere a mezzi che la chiesa ha sempre criticato quando vengono praticati dal braccio secolare. Ma c’è una legge che domina e dirige anche i miei personali sentimenti. Chiedete all’Abate un luogo dove si possano predisporre gli strumenti di tortura. Ma che non si proceda subito. Per tre giorni resti in una cella, in ceppi mani e piedi. Poi gli si mostrino gli strumenti. Soltanto. E al quarto giorno si proceda. La giustizia non è mossa dalla fretta, come credevano gli pseudi apostoli, e quella di Dio ha secoli a disposizione. Si proceda piano, e per gradi. E soprattutto, ricordate quanto è stato detto ripetutamente: che si evitino le mutilazioni e il pericolo di morte. Una delle provvidenze che questo procedimento riconosce all’empio, è proprio che la morte venga assaporata, e attesa, ma non venga prima che la confessione sia stata piena, e volontaria, e purificatrice. »

Gli arcieri si chinarono a sollevare il cellario, ma questi puntò i piedi a terra e fece resistenza, accennando di voler parlare. Ottenutane licenza, parlò, ma le parole gli uscivano a fatica dalla bocca e il suo discorso era come il biascicare di un ubriaco e aveva qualcosa di osceno. Solo man mano che parlava ritrovò quella sorta di selvaggia energia che aveva animato la sua confessione poco prima.



« No signore. La tortura no. Io sono un uomo vile. Ho tradito allora, ho rinnegato per undici anni in questo monastero la mia fede di un tempo, riscuotendo le decime da vignaiuoli e da contadini, ispezionando le stalle e gli stabbi perché fiorissero ad arricchir l’Abate, ho collaborato di buon grado alla amministrazione di questa fabbrica dell’Anticristo. E mi trovavo bene, avevo dimenticato i giorni della rivolta, mi crogiolavo nei piaceri della gola e in altri ancora. Io sono un vile. Ho venduto oggi i miei antichi confratelli di Bologna, ho venduto allora Dolcino. E da vile, travestito come uno degli uomini della crociata, ho assistito alla cattura di Dolcino e di Margherita, quando li portarono il sabato santo nel castello del Bugello. Mi aggirai intorno a Vercelli per tre mesi, sino a che non arrivò la lettera di papa Clemente con l’ordine della condanna. E vidi Margherita tagliata a pezzi davanti agli occhi di Dolcino, e gridava, scannata che era, povero corpo che una notte avevo toccato anch’io... E mentre il suo cadavere straziato bruciava, furono su Dolcino, e gli strapparono il naso e i testicoli con tenaglie infuocate, e non è vero quello che han detto dopo, che non emise neppure un gemito. Dolcino era alto e robusto, aveva una gran barba da diavolo e i capelli rossi che gli cadevano in anelli sugli omeri, era bello e potente quando ci guidava con un cappello a larghe falde, e la piuma, e la spada cinta sulla veste talare, Dolcino faceva paura agli uomini e faceva gridare di piacere le donne... Ma quando lo torturarono gridava di dolore anche lui, come una donna, come un vitello, perdeva sangue da tutte le ferite mentre lo portavano da un angolo all’altro, e continuavano a ferirlo poco, per mostrare quanto a lungo potesse vivere un emissario del demonio, e lui voleva morire, chiedeva che lo finissero, ma morì troppo tardi, quando giunse sul rogo, ed era un solo ammasso di carne sanguinante. Io lo seguivo e mi rallegravo con me stesso per essere sfuggito a quella prova, ero orgoglioso della mia astuzia, e quel cialtrone di Salvatore era con me, e mi diceva: come abbiam fatto bene fratel Remigio a comportarci da persone avvedute, non c’è nulla che sia più brutto della tortura! Avrei abiurato mille religioni, quel giorno. E sono anni, tanti anni che mi dico quanto fui vile, e quanto fui felice di essere vile, e tuttavia speravo sempre di poter mostrare a me stesso che non ero così vile. Oggi tu mi hai dato questa forza, signor Bernardo, sei stato per me quello che gli imperatori pagani sono stati per i più vili del martiri. Mi hai dato il coraggio di confessare quello in cui ho creduto con l’anima, mentre il corpo se ne ritraeva. Però non impormi troppo coraggio, più di quanto ne possa sopportare questa mia carcassa mortale. La tortura no. Dirò tutto quello che vuoi tu, meglio il rogo subito, si muore soffocati prima di bruciare. La tortura come a Dolcino, no. Tu vuoi un cadavere e per averlo hai bisogno che assuma su di me la colpa per altri cadaveri. Cadavere sarò presto, in ogni caso. E quindi ti do quanto chiedi. Ho ucciso Adelmo da Otranto per odio alla sua giovinezza e alla sua bravura nel giocare su mostri simili a me, vecchio, grasso, piccolo e ignorante. Ho ucciso Venanzio da Salvemec perché era troppo sapiente e leggeva libri che io non capivo. Ho ucciso Berengario da Arundel per odio alla sua biblioteca, io che ho fatto teologia bastonando i parroci troppo grassi. Ho ucciso Severino da Sant’Emmerano... perché? perché collezionava le erbe, io che sono stato sul monte Rebello dove le erbe le mangiavamo senza interrogarci sulle loro virtù. In verità potrei uccidere anche gli altri, compreso il nostro Abate: col papa o con l’impero, egli fa sempre parte dei miei nemici e l’ho sempre odiato, anche quando mi dava da mangiare perché gli davo da mangiare. Ti basta? Ah, no, vuoi sapere anche come ho ucciso tutta quella gente... Ma li ho uccisi... vediamo... Evocando le potenze infernali, con l’aiuto di mille legioni ottenute al mio comando con l’arte che mi ha insegnato Salvatore. Per uccidere qualcuno non è necessario colpire, il diavolo lo fa per voi, se sapete comandare al diavolo. »

Guardava gli astanti con aria complice, ridendo. Ma era ormai il riso di un dissennato, anche se, come mi fece osservare dopo Guglielmo, questo dissennato aveva avuto l’accortezza di trascinare nella propria rovina Salvatore, per vendicarsi della sua delazione.

« E come potevi comandare al diavolo? » incalzava Bernardo, che assumeva questo delirio come legittima confessione.

« Lo sai anche tu, non si commercia tanti anni con gli indemoniati senza assumere il loro abito! Lo sai anche tu, scannatore di apostoli! Prendi un gatto nero, non è vero? che non abbia neppure un pelo bianco (e tu lo sai) e gli leghi le quattro zampe, poi lo porti a mezzanotte a un crocicchio, quindi gridi ad alta voce: o grande Lucifero imperatore dell’inferno, io ti prendo e ti introduco nel corpo del mio nemico così come ora tengo prigioniero questo gatto, e se porterai il mio nemico a morte, il giorno dopo a mezzanotte, in questo stesso posto, io ti offrirò questo gatto in sacrificio, e tu farai quanto ti comando per i poteri della magìa che io ora esercito secondo il libro occulto di san Cipriano, nel nome di tutti i capi delle maggiori legioni dell’inferno, Adramelch, Alastor e Azazele, che io ora prego con tutti i loro fratelli... » Il labbro gli tremava, gli occhi sembravano usciti dall’orbita, e cominciò a pregare — ovvero, pareva che pregasse, ma elevava le sue implorazioni a tutti i baroni delle legioni infernali... « Abigor, pecca pro nobis... Amon, miserere nobis... Samael, libera nos a bono... Belial eleyson... Focalor, in corruptionem meam intende... Haborym, damnamus dominum... Zaebos, anum meum aperies... Leonardo, asperge me spermate tuo et inquinabor... »

« Basta, basta! » urlavano i presenti segnandosi. E: « Oh Signore, perdonaci tutti! »

Il cellario ora taceva. Pronunziati che ebbe i nomi di tutti questi diavoli, cadde a faccia in giù versando saliva biancastra, dalla bocca distorta e dalla chiostra digrignante dei denti. Le sue mani, pur mortificate dalle catene, si aprivano e si serravano in modo convulso, i suoi piedi scalciavano l’aria irregolarmente a tratti. Avvertendo che ero stato preso da un tremito d’orrore, Guglielmo mi posò la mano sulla testa, mi afferrò quasi alla nuca stringendola, e ridandomi la calma: « Impara, » mi disse, « sotto tortura, o minacciato di tortura, un uomo non solo dice ciò che ha fatto ma anche ciò che avrebbe voluto fare, anche se non lo sapeva. Remigio ora vuole la morte con tutta l’anima sua. »

Gli arcieri condussero via il cellario ancora in preda a convulsioni. Bernardo radunò le proprie carte. Poi fissò gli astanti, immobili in preda a grande turbamento.

« L’interrogatorio è finito. L’imputato, reo confesso, sarà condotto ad Avignone, dove avrà luogo il processo definitivo, a salvaguardia scrupolosa della verità e della giustizia, e solo dopo quel regolare processo sarà bruciato. Egli, Abbone, non vi appartiene più, né appartiene più a me, che sono stato solo l’umile strumento della verità. Lo strumento della giustizia sta altrove, i pastori han fatto il loro dovere, ora ai cani, che separino la pecora infetta dal gregge e la purifichino col fuoco. Il miserabile episodio che ha visto quest’uomo colpevole di tanti efferati delitti, si è concluso. Ora l’abbazia viva in pace. Ma il mondo... » e qui alzò la voce e si diresse al gruppo dei legati, « il mondo non ha ancora trovato pace, il mondo è dilaniato dall’eresia, che trova ricetto persino nelle sale dei palazzi imperiali! Che i miei fratelli ricordino questo: un cingulum diaboli lega i perversi settatori di Dolcino agli onorati maestri del capitolo di Perugia. Non dimentichiamolo, davanti agli occhi di Dio le farneticazioni di quel miserabile che abbiamo appena consegnato alla giustizia non sono diverse da quelle dei maestri che banchettano alla mensa del tedesco scomunicato di Baviera. La fonte delle nefandezze degli eretici sgorga da molte predicazioni, anche onorate, ancora impunite. E’ dura passione e umile calvario quello di chi è stato chiamato da Dio, come la mia persona peccatrice, a individuare il serpe dell’eresia dovunque si annidi. Ma compiendo quest’opera santa si impara che non è eretico soltanto chi pratica l’eresia allo scoperto. I sostenitori dell’eresia si possono individuare attraverso cinque indizi probanti. Primo, coloro che li visitano di nascosto mentre sono tenuti in prigione; secondo, coloro che piangono la loro cattura e sono stati loro intimi amici in vita (difficile infatti che non sappia dell’attività dell’eretico chi lo ha frequentato a lungo); terzo, coloro che sostengono che gli eretici sono stati condannati ingiustamente, anche quando sia stata dimostrata la loro colpa; quarto, coloro che guardano male e criticano coloro che perseguitano gli eretici e predicano con successo contro di loro, e lo si può desumere dagli occhi, dal naso, dalla espressione che cercano di nascondere, mostrando di odiare coloro verso i quali provano amarezza e di amare coloro della cui disgrazia tanto si dolgono. Quinto segno è infine il fatto che si raccolgano le ossa incenerite degli eretici bruciati e se ne faccia oggetto di venerazione... Ma io attribuisco altissimo valore anche a un sesto segno, e ritengo palesemente amici degli eretici coloro nei cui libri (anche se essi non offendono apertamente l’ortodossia) gli eretici abbiano trovato le premesse onde sillogizzare nel loro modo perverso. »

Diceva, e guardava Ubertino. Tutta la legazione francescana capì bene a cosa Bernardo alludesse. Ormai l’incontro era fallito, nessuno avrebbe più ardito riprendere la discussione del mattino, sapendo che ogni parola sarebbe stata ascoltata pensando agli ultimi e sciagurati avvenimenti. Se Bernardo era stato inviato dal papa per impedire una ricomposizione tra i due gruppi, ci era riuscito.

Vespri.


Dove Ubertino si da alla fuga, Bencio incomincia a osservare le leggi e Guglielmo fa alcune riflessioni sui vari tipi di lussuria incontrati quel giorno.
Mentre l’assemblea sfollava lentamente dalla sala capitolare Michele si avvicinò a Guglielmo, ed entrambi furono raggiunti da Ubertino. Tutti insieme uscimmo all’aperto, discutendo quindi nel chiostro, protetti dalla nebbia che non accennava a scemare, anzi era resa ancor più densa dalla tenebra.

« Non credo occorra commentare quanto è avvenuto, » disse Guglielmo. « Bernardo ci ha sconfitto. Non chiedetemi se quell’imbecille di dolciniano è davvero colpevole di tutti quei delitti. Per quel che ne capisco, no, senz’altro. Il fatto è che siamo al punto di prima. Giovanni ti vuole da solo ad Avignone, Michele, e questo incontro non ti ha fornito le garanzie che cercavamo. Anzi, ti ha dato una immagine di come ogni tua parola, laggiù, potrebbe essere stravolta. Da cui si deduce, mi pare, che tu non debba andare. »

Michele scosse la testa: « Invece andrò. Non voglio uno scisma. Tu Guglielmo oggi hai parlato chiaro, e hai detto cosa vorresti. Ebbene, non è ciò che voglio io, e mi rendo conto che le delibere dei capitolo di Perugia sono state usate dai teologi imperiali oltre i nostri intendimenti. Io voglio che l’ordine francescano sia accettato, nei suoi ideali di povertà, dal papa. E il papa dovrà capire che solo se l’ordine assume su di sé l’ideale della povertà, si potranno riassorbire le sue diramazioni ereticali. Io non penso all’assemblea del popolo o al diritto delle genti. Io devo impedire che l’ordine si dissolva in una pluralità di fraticelli. Andrò ad Avignone, e se sarà necessario farò atto di sottomissione a Giovanni. Transigerò su tutto, meno che sul principio di povertà. »

Intervenne Ubertino: « Lo sai che rischi la vita? »

« E così sia, » rispose Michele, « meglio che rischiare l’anima. »

Rischiò seriamente la vita e, se Giovanni era nel giusto (ciò che ancora non credo), perse anche l’anima. Come ormai tutti sanno, Michele andò dal papa, la settimana che seguì i fatti che ora narro. Gli tenne testa per quattro mesi, sino a che nell’aprile dell’anno seguente Giovanni convocò un concistoro in cui lo trattò da folle, temerario, testardo, tiranno, fautore d’eresia, serpe nutrito dalla chiesa nel suo stesso seno. E c’è da pensare che ormai, secondo il modo in cui lui vedeva le cose, Giovanni avesse ragione, perché in quei quattro mesi Michele era divenuto amico dell’amico del mio maestro, l’altro Guglielmo, quello di Occam, e ne aveva condiviso le idee — non molto diverse, se pure ancora più estreme, di quelle che il mio maestro condivideva con Marsilio e aveva espresso quella mattina. La vita di questi dissidenti divenne precaria, ad Avignone, e alla fine di maggio Michele, Guglielmo di Occam, Bonagrazia da Bergamo, Francesco d’Ascoli e Henri de Talheim si diedero alla fuga, inseguiti dagli uomini del papa a Nizza, Tolone, Marsiglia e Aigues Mortes, dove furono raggiunti dal cardinale Pierre de Arrablay che cercò invano di indurli a tornare, senza vincere le loro resistenze, il loro odio verso il pontefice, la loro paura. In giugno arrivarono a Pisa, accolti in trionfo dagli imperiali, e nei mesi seguenti Michele avrebbe denunciato pubblicamente Giovanni. Troppo tardi, ormai. Le fortune dell’imperatore stavano scemando, da Avignone Giovanni tramava per dare ai minoriti un nuovo superiore generale, ottenendo infine la vittoria. Meglio avrebbe fatto Michele quel giorno a non decidere di andar dal papa: avrebbe potuto curare la resistenza dei minoriti da vicino, senza perdere tanti mesi alla mercé del suo nemico, indebolendo la sua posizione... Ma forse così aveva predisposto l’onnipotenza divina — né so ora più chi tra tutti coloro fosse nel giusto, e dopo tanti anni anche il fuoco delle passioni si spegne, e con esso quello che si credeva essere la luce della verità. Chi di noi è più capace di dire se avessero ragione Ettore o Achille, Agamennone o Priamo quando si dibattevano per la bellezza di una donna che ora è cenere di cenere?

Ma mi perdo in malinconiche divagazioni. Devo invece dire della fine di quel triste colloquio. Michele aveva deciso, e non ci fu modo di convincerlo a desistere. Salvo che si poneva ora un altro problema, e Guglielmo lo enunciò senza ambagi: Ubertino stesso non era più al sicuro. Le frasi che gli aveva rivolto Bernardo, l’odio che per lui ormai nutriva il papa, il fatto che mentre Michele rappresentava ancora un potere con cui trattare, Ubertino era rimasto invece a far parte per se stesso...

« Giovanni vuole Michele a corte e Ubertino all’inferno. Se conosco bene Bernardo, entro domani, e complice la nebbia, Ubertino sarà stato ucciso. E se qualcuno si chiederà da chi, l’abbazia potrà ben sopportare un altro delitto, e si dirà che erano diavoli evocati da Remigio coi suoi gatti neri, o qualche dolciniano superstite che ancora si aggira tra queste mura...

Ubertino era preoccupato: « E allora? » chiese.

« Allora, » disse Guglielmo. « vai a parlare con l’Abate. Chiedigli una cavalcatura, delle provviste, una lettera per qualche abbazia lontana, oltre le Alpi. E approfitta della nebbia e del buio per partire subito. »

« Ma gli arcieri non guardano ancora le porte? »

« L’abbazia ha altre uscite, e l’Abate le conosce. Basta che un servo ti attenda a uno dei tornanti inferiori con una cavalcatura e, uscendo da qualche passaggio nella cinta, tu avrai solo da fare un tratto di bosco. Devi farlo subito, prima che Bernardo si riabbia dall’estasi del suo trionfo. Io debbo occuparmi di qualcosa d’altro, avevo due missioni, una è fallita, che almeno non fallisca l’altra. Voglio mettere le mani su un libro, e su di un uomo. Se tutto va bene, tu sarai fuori di qui prima che io cerchi ancora di te. E dunque addio. » Aprì le braccia. Commosso, Ubertino lo abbracciò stretto: « Addio Guglielmo, sei un inglese pazzo e arrogante, ma hai un gran cuore. Ci rivedremo? »

« Ci rivedremo, » lo rassicurò Guglielmo, « Dio lo vorrà. »

Dio, poi, non lo volle. Come già dissi. Ubertino morì misteriosamente ucciso due anni dopo. Vita dura e avventurosa, quella di questo vecchio combattivo e ardente. Forse non tu un santo, ma spero che Dio abbia premiato quella sua adamantina sicurezza di essere tale. Più divento vecchio e più mi abbandono alla volontà di Dio, e sempre meno apprezzo l’intelligenza che vuole sapere e la volontà che vuole fare: e riconosco come unico elemento di salvezza la fede, che sa attendere paziente senza troppo interrogare. E Ubertino ebbe certamente molta fede nel sangue e nell’agonia di Nostro Signore crocefisso.

Forse pensavo a queste cose anche allora e il mistico vecchio se ne accorse, o indovinò che le avrei pensate un giorno. Mi sorrise con dolcezza e mi abbracciò, senza l’ardore con cui mi aveva afferrato talvolta nei giorni precedenti. Mi abbracciò come un avo abbraccia il nipote, e nello stesso spirito lo ricambiai. Poi si allontanò con Michele per cercare dell’Abate.

« E ora? » domandai a Guglielmo.

« E ora torniamo ai nostri delitti. »

« Maestro, » dissi, « oggi sono successe cose molto gravi per la cristianità ed è fallita la vostra missione. Eppure sembrate più interessato alla soluzione di questo mistero che non allo scontro tra il papa e l’imperatore. »

« I folli e i bambini dicono sempre la verità, Adso. Sarà perché come consigliere imperiale il mio amico Marsilio è più bravo di me, ma come inquisitore sono più bravo io. Persino più bravo di Bernardo Gui, Dio mi perdoni. Perché a Bernardo non interessa scoprire i colpevoli, bensì bruciare gli imputati. E io invece trovo il diletto più gaudioso nel dipanare una bella e intricata matassa. E sarà ancora perché in un momento in cui, come filosofo, dubito che il mondo abbia un ordine, mi consola scoprire, se non un ordine, almeno una serie di connessioni in piccole porzioni degli affari del mondo. Infine c’è probabilmente un’altra ragione: ed è che in questa storia forse sono in gioco cose più grandi e importanti che non la battaglia tra Giovanni e Ludovico... »

« Ma è una storia di rubamenti e vendette tra monaci di poca virtù! » esclamai dubbioso.

« Intorno a un libro proibito, Adso, intorno a un libro proibito, » rispose Guglielmo.
Ormai i monaci stavano avviandosi a cena. Il pasto era già a metà quando sl sedette accanto a noi Michele da Cesena avvertendoci che Ubertino era partito. Guglielmo trasse un sospiro di sollievo.

Alla fine della cena evitammo l’Abate che si stava intrattenendo con Bernardo e individuammo Bencio, che ci salutò con un mezzo sorriso, tentando di arrivare alla porta. Guglielmo lo raggiunse e lo costrinse a seguirci in un angolo della cucina.

« Bencio, » gli chiese Guglielmo, « dov’è il libro? »

« Quale libro? »

« Bencio, nessuno di noi due è uno sciocco. Parlo del libro che cercavamo oggi da Severino e che io non ho riconosciuto e che tu hai riconosciuto benissimo e sei andato a riprendere...

« Cosa vi fa pensare che lo abbia preso? »

« Lo penso, e lo pensi anche tu. Dov’è? »

« Non posso dirlo. »

« Bencio, se non me lo dici ne parlerò all’Abate. »

« Non posso dirlo per ordine dell’Abate, » disse Bencio con aria virtuosa. « Oggi, dopo che ci siamo visti, è accaduto qualcosa che dovete sapere. Dopo la morte di Berengario mancava un aiuto bibliotecario. Oggi pomeriggio Malachia mi ha proposto di prendere il suo posto. Proprio mezz’ora fa l’Abate ha acconsentito, e da domani mattina, spero, sarò iniziato ai segreti della biblioteca. E’ vero, ho preso il libro stamane, e l’avevo nascosto nel pagliericcio della mia cella senza neppure guardarlo, perché sapevo che Malachia mi sorvegliava. E a un certo punto Malachia mi ha fatto la proposta che vi ho detto. E allora ho fatto quel che deve fare un aiuto bibliotecario: gli ho consegnato il libro. »

Non potei trattenermi dall’intervenire, e con violenza.

« Ma Bencio, ieri, e l’altro ieri tu... voi dicevate che eravate arso dalla curiosità di conoscere, che non volevate più che la biblioteca celasse dei misteri, che uno scolaro deve sapere... »

Bencio taceva arrossendo, ma Guglielmo mi arrestò: « Adso, da qualche ora Bencio è passato dall’altra parte. Ora lui è il custode di quei segreti che voleva conoscere, e mentre li custodisce avrà tutto il tempo che vorrà per conoscerli. »

« Ma gli altri? » domandai. « Bencio parlava a nome di tutti i sapienti! »

« Prima, » disse Guglielmo. E mi trascinò via lasciando Bencio in preda alla confusione.

« Bencio, » mi disse poi Guglielmo, « è vittima di una grande lussuria, che non è quella di Berengario né quella del cellario. Come molti studiosi, ha la lussuria del sapere. Del sapere per se stesso. Escluso da una parte di questo sapere, voleva impadronirsene. Ora se ne è impadronito. Malachia conosceva il suo uomo e ha usato il mezzo migliore per riavere il libro e suggellare le labbra di Bencio. Tu mi chiederai a che pro controllare tanta riserva di sapere se si accetta di non metterlo a disposizione di tutti gli altri. Ma proprio per questo ho parlato di lussuria. Non era lussuria la sete di conoscenza di Ruggiero Bacone, che voleva impiegare la scienza per rendere più felice il popolo di Dio e quindi non cercava il sapere per il sapere. Quella di Bencio è solo curiosità insaziabile, orgoglio dell’intelletto, un modo come un altro, per un monaco, di trasformare e pacificare le voglie dei propri lombi, o l’ardore che fa di un altro un guerriero della fede, o dell’eresia. Non c’è solo la lussuria della carne. E’ lussuria quella di Bernardo Gui, stravolta lussuria di giustizia che si identifica con una lussuria di potere. E’ lussuria di ricchezza quella del nostro santo e non più romano pontefice. Era lussuria di testimonianza e trasformazione e penitenza e morte quella del cellario da giovane. Ed è lussuria di libri quella di Bencio. Come tutte le lussurie, come quella di Onan che spargeva il proprio seme per terra, è lussuria sterile, e non ha nulla a che vedere con l’amore, neppure quello carnale... »

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