Ana səhifə

Il nome della rosa


Yüklə 3.63 Mb.
səhifə31/88
tarix25.06.2016
ölçüsü3.63 Mb.
1   ...   27   28   29   30   31   32   33   34   ...   88

Fu a quel punto che si alzò con veemenza frate Girolamo, vescovo di Caffa, con la barba che gli tremava dall’ira anche se le sue parole cercavano di apparire concilianti. E iniziò una argomentazione che mi parve alquanto confusa. « Quello che vorrò dire al santo padre, e me medesimo che lo dirò, pongo sin d’ora sotto alla sua correzione, perché credo veramente che Giovanni sia vicario di Cristo e per questa confessione fui preso dai saraceni. E inizierò citando un fatto riportato da un grande dottore, sulla disputa che sorse un giorno tra monaci su chi fosse il padre di Melchisedec. E allora l’abate Copes, interrogato su questo, si percosse il capo e disse: guai a te Copes perché cerchi solo quelle cose che Dio non ti comanda di cercare e sei negligente in quelle che lui ti comanda. Ecco, come si deduce limpidamente dal mio esempio, è così chiaro che Cristo e la Beata Vergine e gli apostoli non ebbero nulla né in speciale né in comune, che meno chiaro sarebbe riconoscere che Gesù tu uomo e Dio al tempo stesso, e però mi pare chiaro che chi negasse la prima evidenza dovrebbe poi negar la seconda! »

Disse trionfalmente, e vidi Guglielmo che alzava gli occhi al cielo. Sospetto reputasse il sillogismo di Girolamo alquanto difettoso, e non so dargli torto, ma più difettosa ancora mi parve l’adiratissima e contraria argomentazione di Giovanni Dalbena, il quale disse che chi afferma qualcosa sulla povertà di Cristo afferma ciò che si vede (o non si vede) per l’occhio, mentre a definire la sua umanità e divinità interviene la fede, per cui le due proposizioni non possono essere messe alla pari. Nella risposta, Girolamo fu più acuto dell’avversario:

« Oh no, caro fratello, » disse, « mi par vero proprio il contrario, perché tutti i vangeli dichiarano che Cristo era uomo e mangiava e beveva e, per via dei suoi evidentissimi miracoli, era anche Dio, e tutto questo balza proprio all’occhio! »

« Anche i maghi e gli indovini fecero dei miracoli, » disse con sufficienza il Dalbena.

« Sì, » ribatté Girolamo, « ma per operazione d’arte magica. E tu vuoi uguagliare i miracoli di Cristo all’arte magica? » Il consesso mormorò sdegnato che non voleva così. « E infine, » continuò Girolamo che ormai si sentiva vicino alla vittoria, « messere il cardinale del Poggetto vorrebbe considerare eretica la credenza nella povertà di Cristo quando su questa proposizione si regge la regola di un ordine come quello francescano, tale che non v’è regno dove i suoi figli non siano andati predicando e spargendo il loro sangue dal Marocco sino all’India? »

« Anima santa di Pietro Ispano, » mormorò Guglielmo, « proteggici tu. »

« Fratello dilettissimo, » vociferò allora il Dalbena facendo un passo avanti, « parla pure del sangue dei tuoi frati, ma non dimenticare che questo tributo è stato pagato anche dai religiosi di altri ordini... »

« Salva la riverenza al signor cardinale, » gridò Girolamo, « nessun domenicano è mai morto tra gli infedeli, mentre solo ai tempi miei nove minori sono stati martirizzati! »

Rosso in viso si alzò allora il domenicano vescovo di Alborea: « Allora io posso dimostrare che prima che i minori fossero in Tartaria, il papa Innocenzo vi mandò tre domenicani! »

« Ah sì? » cachinnò Girolamo. « Ebbene io so che da ottant’anni i minori sono in Tartaria e hanno quaranta chiese per tutto il paese, mentre i domenicani hanno solo cinque posti sulla costa e in tutto saranno quindici frati! E questo risolve la questione! »

« Non risolve alcuna questione, » gridò l’Alborea, « perché questi minoriti che partoriscono pinzocheri come le cagne partoriscon cagnolini, attribuiscono tutto a sé, millantan martiri e poi hanno belle chiese, paramenti sontuosi e comperano e vendono come tutti gli altri religiosi! »

« No, messere mio, no, » intervenne Girolamo, « essi non comperano e vendono essi stessi, ma attraverso i procuratori della sedia apostolica, e i procuratori detengono il possesso mentre i minori hanno solo l’uso! »

« Davvero? » sogghignò l’Alborea, « e quante volte allora tu hai venduto senza procuratori? So la storia di alcuni poderi che... »

« Se l’ho fatto ho sbagliato, » interruppe precipitosamente Girolamo, « non riversare sull’ordine quella che può essere stata una mia debolezza! »

« Ma venerabili fratelli, » intervenne allora Abbone, « il nostro problema non è se siano poveri i minoriti, ma se fosse povero Nostro Signore... »

« Ebbene, » si fece udire a questo punto ancora Girolamo, « ho su tale questione un argomento che taglia come la spada... »

« Santo Francesco proteggi i tuoi figli... » disse sfiduciatamente Guglielmo.

« L’argomento è, » continuò Girolamo, « che gli orientali e i greci, ben più familiari di noi con la dottrina dei santi padri, tengono per ferma la povertà di Cristo. E se quegli eretici e scismatici sostengono così limpidamente una così limpida verità, vorremmo esser noi più eretici e scismatici di loro e negarla? Questi orientali, se udissero alcuni di noi predicare contro questa verità, li lapiderebbero! »

« Cosa mi dici mai, » motteggiò l’Alborea, « e perché allora non lapidano i domenicani che predicano proprio contro di questo? »

« I domenicani? Ma laggiù non li ho mai visti! »

L’Alborea, paonazzo in volto, osservò che codesto frate Girolamo era stato in Grecia forse quindici anni, mentre lui vi era stato sin dalla fanciullezza. Girolamo ribatté che lui, il domenicano Alborea, forse era stato anche in Grecia, ma a fare vita di delicatezza in bei palazzi vescovili, mentre lui, francescano, vi era stato non quindici bensì ventidue anni e aveva predicato davanti all’imperatore a Costantinopoli. Allora l’Alborea, a corto di argomenti, tentò di superare lo spazio che lo separava dai minoriti, manifestando ad alta voce, e con parole che non oso riferire, la sua ferma intenzione di strappare la barba al vescovo di Caffa, di cui metteva in dubbio la virilità, e che proprio secondo la logica del contrappasso voleva punire, usando quella barba a mo’ di flagello.

Gli altri minoriti corsero a far barriera in difesa del loro confratello, gli avignonesi ritennero utile dar man forte al domenicano e ne seguì (Signore, abbi misericordia dei migliori tra i tuoi figli!) una rissa che l’Abate e il cardinale cercarono invano di sedare. Nel tumulto che ne seguì minoriti e domenicani si dissero reciprocamente cose molto gravi, come se ciascuno fosse un cristiano in lotta coi saraceni. Gli unici che rimasero ai loro posti furono da un lato Guglielmo, dall’altro Bernardo Gui. Guglielmo pareva triste e Bernardo lieto, se di letizia si poteva parlare per il pallido sorriso che increspava il labbro dell’inquisitore.

« Non ci sono argomenti migliori, » chiesi al mio maestro, mentre l’Alborea si accaniva sulla barba del vescovo di Caffa, « per dimostrare o negare la povertà di Cristo? »

« Ma tu puoi affermare entrambe le cose, mio buon Adso, » disse Guglielmo, « e non potrai mai stabilire sulla base dei vangeli se Cristo considerasse di sua proprietà, e quanto, la tunica che portava e che poi magari gettava via quando era consunta. E, se vuoi, la dottrina di Tommaso d’Aquino sulla proprietà è più ardita di quella di noi minoriti. Noi diciamo: non possediamo nulla e tutto abbiamo in uso. Lui diceva: consideratevi pure possessori purché, se qualcuno manca di ciò che voi possedete, gliene concediate l’uso, e per obbligo, non per carità. Ma la questione non è se Cristo fosse povero, è se debba essere povera la chiesa. E povera non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene. »

« Ecco dunque, » dissi, « perché l’imperatore tiene tanto ai discorsi dei minoriti sulla povertà. »

« Infatti. I minoriti fanno il gioco imperiale contro il papa. Ma per Marsilio e per me il gioco è doppio, e vorremmo che il gioco dell’impero facesse il nostro gioco e servisse alla nostra idea dell’umano governo. »

« E questo lo direte quando dovrete parlare? »

« Se lo dico compio la mia missione, che era di manifestare le opinioni dei teologi imperiali. Ma se lo dico la mia missione fallisce, perché io avrei dovuto facilitare un secondo incontro ad Avignone, e non credo che Giovanni accetti che io vada laggiù a dire queste cose. »

« E allora? »

« E allora sono preso tra due forze contrastanti, come un asino che non sappia da quale di due sacchi di fieno mangiare. E’ che i tempi non sono maturi. Marsilio farnetica di una trasformazione impossibile, ora, e Ludovico non è migliore dei suoi predecessori, anche se per ora rimane l’unico baluardo contro un miserabile come Giovanni. Forse dovrò parlare, a meno che costoro non finiscano prima con l’ammazzarsi l’un l’altro. In ogni caso scrivi Adso, ché almeno rimanga traccia di quanto sta oggi accadendo. »

« E Michele? »

« Temo che perda il proprio tempo. Il cardinale sa che il papa non cerca una mediazione, Bernardo Gui sa che dovrà fare fallire l’incontro; e Michele sa che andrà ad Avignone in qualsiasi caso, perché non vuole che l’ordine rompa ogni rapporto col papa. E rischierà la vita. »

Mentre così parlavamo — e davvero non so come potessimo udirci l’uno con l’altro — la disputa aveva raggiunto il suo culmine. Erano intervenuti gli arcieri, a un cenno di Bernardo Gui, a impedire che le due schiere venissero definitivamente a contatto. Ma quali assedianti e assediati, da ambo le parti delle mura di una rocca, essi si lanciavano contestazioni e improperi, che qui riferisco a caso, senza più riuscire ad attribuirne la paternità, e fermo restando che le frasi non furono pronunciate a turno, come avverrebbe in una disputa nelle mie terre, ma all’uso mediterraneo, l’una che si accavalla all’altra, come le onde di un mare rabbioso.

« Il vangelo dice che Cristo aveva una borsa! »

« Taci tu con questa borsa che dipingete persino sui crocefissi! Cosa dici allora del fatto che Nostro Signore quando era a Gerusalemme tornava ogni sera a Betania? »

« E se Nostro Signore voleva andare a dormire a Betania, chi sei tu per sindacare la sua decisione?

« No, vecchio caprone, Nostro Signore tornava a Betania perché non aveva danaro per pagarsi un ostello a Gerusalemme! »

« Bonagrazia, il caprone sei tu! E cosa mangiava Nostro Signore a Gerusalemme? »

« E tu diresti che il cavallo che riceve biada dal padrone per sopravvivere ha la proprietà della biada? »

« Vedi che paragoni Cristo a un cavallo... »

« No, sei tu che paragoni Cristo a un prelato simoniaco della tua corte, ricettacolo di sterco! »

« Sì? E quante volte la santa sede ha dovuto accollarsi dei processi per difendere i vostri beni? »

« I beni della chiesa, non i nostri! Noi li avevamo in uso! »

« In uso per mangiarveli, per farvi le belle chiese con le statue d’oro, ipocriti, vascelli d’iniquità, sepolcri imbiancati, sentine di vizio! Lo sapete bene che è la carità, e non la povertà, il principio della vita perfetta! »

« Questo lo ha detto quel ghiottone del vostro Tommaso! »

« Bada a te, empio! Colui che chiami ghiottone è un santo di santa romana chiesa! »

« Santo dei miei sandali, canonizzato da Giovanni per far dispetto ai francescani! Il vostro papa non può far santi, perché è un eretico! Anzi, è un eresiarca! »
« Questa bella proposizione la conosciamo già! E’ la dichiarazione del fantoccio di Baviera a Sachsenhausen, preparata dal vostro Ubertino! »

« Bada come parli, maiale, figlio della prostituta di Babilonia e di altre sgualdrine ancora! Tu sai che quell’anno Ubertino non era dall’imperatore ma stava proprio ad Avignone, al servizio del cardinal Orsini, e il papa lo stava inviando messaggero in Aragona! »

« Lo so, lo so che faceva voto di povertà alla mensa del cardinale, come lo fa ora nell’abbazia più ricca della penisola! Ubertino, se non c’eri tu, chi ha suggerito a Ludovico l’uso dei tuoi scritti? »

« E’ colpa mia se Ludovico legge i miei scritti? Certo non può leggere i tuoi che sei un illetterato! »

« Io un illetterato? Era letterato il vostro Francesco, che parlava con le oche? »

« Hai bestemmiato! »

« Sei tu che bestemmi, fraticello da barilotto! »

« Io non ho mai fatto il barilotto, e tu lo sai!!! »

« Sì che lo facevi coi tuoi fraticelli, quando ti infilavi nel letto di Chiara da Montefalco! »

« Che Dio ti fulmini! Io ero inquisitore a quel tempo, e Chiara era già spirata in odore di santità! »

« Chiara spirava odor di santità, ma tu aspiravi un altro odore quando cantavi il mattutino alle monache! »

« Continua, continua, l’ira di Dio ti raggiungerà come raggiungerà il tuo padrone, che ha dato ricetto a due eretici come quell’ostrogoto di Eckhart e quel negromante inglese che chiamate Branucerton! »

« Venerabili fratelli, venerabili fratelli! » gridavano il cardinale Bertrando e l’Abate.

Terza.


Dove Severino parla a Guglielmo di uno strano libro e Guglielmo parla ai legati di una strana concezione del governo temporale.
Il diverbio stava ancora infuriando quando uno dei novizi di guardia alla porta entrò, passando per quella confusione come chi attraversa un campo battuto dalla grandine, e venne a sussurrare a Guglielmo che Severino gli voleva parlare con urgenza. Uscimmo nel nartece affollato di monaci curiosi i quali cercavano di cogliere attraverso le grida e i rumori qualcosa di ciò che avveniva all’interno. In prima fila vedemmo Aymaro d’Alessandria che ci accolse col suo solito sogghigno di commiserazione per la stoltezza dell’universo mondo: « Certo che da quando sono sorti gli ordini mendicanti la cristianità è diventata più virtuosa, » disse.

Guglielmo lo scostò, non senza malagrazia, e si diresse su Severino, che ci attendeva in un angolo. Era ansioso, voleva parlarci in privato, ma non si poteva trovare un luogo tranquillo in quella confusione. Volevamo uscire all’aperto, ma dalla soglia della sala capitolare si affacciava Michele da Cesena che incitava Guglielmo a rientrare perché, diceva, il diverbio si stava componendo, e si doveva continuare la serie degli interventi.

Guglielmo, diviso tra altri due sacchi di fieno, incitò Severino a parlare e l’erborista cercò di non farsi udire dagli astanti.

« Berengario è stato certamente all’ospedale, prima di andare ai balnea, » disse.

« Come lo sai? » Alcuni monaci si avvicinavano, incuriositi dal nostro confabulare. Severino parlò a voce ancor più bassa, guardandosi attorno.

« Tu mi avevi detto che quell’uomo... doveva avere qualcosa con sé... Bene, ho trovato qualcosa nel mio laboratorio, confuso tra gli altri libri... un libro non mio, uno strano libro... »

« Deve essere quello, » disse Guglielmo trionfante, « portamelo subito. »

« Non posso, » disse Severino, « dopo ti spiego, ho scoperto... credo di aver scoperto qualcosa di interessante... Devi venire tu, ti devo mostrare il libro... con cautela... » Non continuò. Ci accorgemmo che, silenzioso come suo costume, Jorge era sorto quasi d’improvviso accanto a noi. Teneva le mani in avanti come se, non aduso a muoversi in quel luogo, cercasse di capire dove andava. Una persona normale non avrebbe potuto intendere i sussurri di Severino, ma avevamo appreso da tempo che l’udito di Jorge, come quello di tutti i ciechi, era particolarmente acuto.

Il vegliardo parve tuttavia non aver udito nulla. Si mosse anzi in una direzione opposta alla nostra, toccò uno dei monaci e chiese qualcosa. Quello lo prese con delicatezza per il braccio e lo condusse fuori. In quel momento riapparve Michele che di nuovo sollecitò Guglielmo, e il mio maestro prese una risoluzione: « Ti prego, » disse a Severino, « torna subito da dove vieni. Chiuditi dentro e attendimi. « Tu, » disse a me, « segui Jorge. Anche se ha inteso qualcosa, non credo si faccia portare all’ospedale. In ogni caso sappimi dire dove va. »

Fece per rientrare nella sala, e scorse (come scorsi anch’io) Aymaro che si faceva largo tra la ressa dei presenti per seguire Jorge che usciva. Qui Guglielmo commise una imprudenza, perché questa volta ad alta voce, da un capo all’altro del nartece, disse a Severino, ormai sulla soglia esterna: « Mi raccomando. Non consentire a nessuno che... quelle carte... tornino da dove sono uscite! » Io, che stavo accingendomi a seguire Jorge, vidi in quell’istante, addossato allo stipite della porta esterna, il cellario, che aveva udito le parole di Guglielmo e guardava alternativamente il mio maestro e l’erborista, con il volto contratto dalla paura. Scorse Severino che usciva all’aperto e lo seguì. Io, sulla soglia, temevo di perdere di vista Jorge, che già stava per essere ingoiato dalla nebbia: ma anche i due, in opposta direzione, stavano per scomparire nella caligine. Calcolai rapidamente cosa dovevo fare. Mi era stato ordinato di seguire il cieco, ma perché si temeva andasse verso l’ospedale. Invece la direzione che stava prendendo, col suo accompagnatore, era un’altra, perché stava attraversando il chiostro, diretto alla chiesa, o all’Edificio. Al contrario il cellario stava certamente seguendo l’erborista e Guglielmo era preoccupato di quanto avrebbe potuto accadere nel laboratorio. Perciò fu quei due che mi misi a seguire, chiedendomi tra l’altro dove fosse andato Aymaro, se pure non era uscito per ragioni assai diverse dalle nostre.

Stando a distanza ragionevole non perdevo di vista il cellario, il quale stava rallentando il passo, perché si era accorto che lo stavo seguendo. Non poteva capire se l’ombra che gli stava alle calcagna fossi io, come io non potevo capire se l’ombra a cui stavo alle calcagna fosse lui, ma come io non avevo dubbi su di lui, lui non aveva dubbi su di me.

Costringendolo a controllarmi, gli impedii di serrare troppo dappresso Severino. Così quando la porta dell’ospedale apparve nella nebbia, essa era già chiusa. Severino era ormai entrato, fossero rese grazie al cielo. Il cellario si voltò ancora una volta a guardare me, che stavo ormai fermo come un albero dell’orto, poi parve prendere una decisione e mosse verso la cucina. Mi parve di aver assolto alla mia missione, Severino era un uomo di senno, si sarebbe guardato da solo senza aprire a nessuno. Non avevo altro da fare e soprattutto ero bruciato dalla curiosità di vedere quel che avveniva nella sala capitolare. Perciò decisi di tornare per riferire. Forse feci male, avrei dovuto restare ancora di guardia, e avremmo risparmiato tante altre sventure. Ma questo lo so ora, non lo sapevo allora.

Mentre rientravo, quasi mi scontrai con Bencio che sorrideva con aria complice: « Severino ha trovato qualcosa lasciato da Berengario non è vero? »

« Cosa ne sai tu? » gli risposi sgarbatamente, trattandolo come un coetaneo, in parte per l’ira e in parte a causa del suo volto giovane ora atteggiato a malizia quasi fanciullesca.

« Non sono uno sciocco, » rispose Bencio, « Severino corre a dire qualcosa a Guglielmo, tu controlli che nessuno lo segua... »

« E tu osservi troppo noi, e Severino, » dissi irritato.

« Io? Certo che vi osservo. E’ dall’altro ieri che non perdo d’occhio né i balnea né l’ospedale. Se solo avessi potuto vi sarei già entrato. Darei un occhio della testa per sapere cosa Berengario ha trovato in biblioteca. »

« Tu vuoi sapere troppe cose senza averne il diritto! »

« Io sono uno scolaro e ho diritto di sapere, io sono venuto dai confini del mondo per conoscere la biblioteca e la biblioteca rimane chiusa come se contenesse cose cattive e io...

« Lasciami andare, » dissi brusco.

« Ti lascio andare, tanto mi hai detto ciò che volevo. »

« Io? »


« Si dice anche tacendo. »

« Ti consiglio di non entrare nell’ospedale, » gli dissi.

« Non entro, non entro, stai tranquillo. Ma nessuno mi proibisce di guardare dal di fuori. »

Non lo ascoltai più e rientrai. Quel curioso, mi parve, non rappresentava un gran pericolo. Mi riaccostai a Guglielmo e lo misi brevemente al corrente dei fatti. Egli annuì in segno di approvazione, poi mi fece cenno di tacere. La confusione stava ormai scemando. I legati di ambo le parti si stavano ormai scambiando il bacio della pace. L’Alborea lodava la fede dei minoriti, Girolamo esaltava la carità dei predicatori, tutti inneggiavano alla speranza di una chiesa non più agitata da lotte intestine. Chi degli uni celebrava la fortezza, chi degli altri la temperanza, tutti invocavano la giustizia e si richiamavano alla prudenza. Mai vidi tanti uomini così sinceramente intesi al trionfo delle virtù teologali e cardinali.


Ma già Bertrando del Poggetto stava invitando Guglielmo a esprimere le tesi dei teologi imperiali. Guglielmo si alzò, di mala voglia: da un lato stava avvertendo che l’incontro non aveva alcuna utilità, dall’altro aveva fretta di andarsene e il libro misterioso gli premeva, ormai, più che non le sorti dell’incontro. Ma era chiaro che non poteva sottrarsi al proprio dovere.

Cominciò dunque a parlare tra molti « eh » e « oh », forse più del solito e più del dovuto, come per far capire che era assolutamente incerto sulle cose che stava per dire, ed esordì affermando che comprendeva benissimo il punto di vista di coloro che avevano parlato prima di lui, e che d’altra parte quella che altri chiamava la « dottrina » dei teologi imperiali non era più di qualche sparsa osservazione che non pretendeva di imporsi come verità di fede.

Disse quindi che, data l’immensa bontà che Dio aveva manifestato nel creare il popolo dei suoi figli, amandoli tutti senza distinzioni, sin da quelle pagine del Genesi in cui ancora non si faceva menzione di sacerdoti e di re, considerando anche che il Signore aveva dato ad Adamo e ai suoi discendenti la potestà sulle cose di questa terra, purché obbedissero alle leggi divine, era da sospettarsi che allo stesso Signore non fosse estranea l’idea che nelle cose terrene il popolo sia legislatore e prima causa effettiva della legge. Per popolo, disse, sarebbe stato bene intendere l’universalità dei cittadini, ma poiché tra i cittadini si debbono considerare anche i fanciulli, gli ottusi, i malviventi e le donne, forse si poteva addivenire in modo ragionevole a una definizione di popolo come parte migliore dei cittadini, benché egli sul momento non ritenesse opportuno pronunziarsi su chi effettivamente appartenesse a tale parte.

Tossicchiò, si scusò coi presenti suggerendo che indubbiamente quel giorno l’atmosfera era molto umida, e ipotizzò che il modo in cui il popolo avrebbe potuto esprimere la sua volontà poteva coincidere con una assemblea generale elettiva. Disse che gli pareva sensato che una tale assemblea potesse interpretare, mutare o sospendere la legge, perché se a far la legge è uno solo, egli potrebbe far male per ignoranza o per malizia, e aggiunse che non era necessario ricordare ai presenti quanti di tali casi si erano dati recentemente. Mi avvidi che i presenti, piuttosto perplessi alle sue parole precedenti, non potevano che assentire a queste ultime, perché ciascuno stava evidentemente pensando a una persona diversa, e ciascuno riteneva pessima la persona a cui pensava.

Bene, continuò Guglielmo, se uno solo le leggi può farle male non saranno meglio i molti? Naturalmente, sottolineò, si stava parlando di leggi terrene, concernenti il buon andamento delle cose civili. Dio aveva detto ad Adamo di non mangiare dell’albero del bene e del male, e quella era la legge divina; ma poi lo aveva autorizzato, che dico?, incoraggiato a dare nomi alle cose, e su quello aveva lasciato libero il suo suddito terrestre. Infatti benché alcuni, ai tempi nostri, dicano che nomina sunt consequentia rerum, il libro del Genesi è peraltro assai chiaro su questo punto: Dio condusse all’uomo tutti gli animali per vedere come li avrebbe chiamati, e in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ciascun essere vivente, quello doveva essere il suo nome. E benché certamente il primo uomo fosse stato così accorto da chiamare, nella sua lingua edenica, ogni cosa e animale secondo la sua natura, ciò non toglie che egli non esercitasse una sorta di diritto sovrano nell’immaginare il nome che a suo giudizio meglio corrispondesse a quella natura. Perché infatti è ormai noto che diversi sono i nomi, che gli uomini impongono per designare i concetti, e uguali per tutti sono solo i concetti, segni delle cose. Così che certamente viene la parola « nomen » da « nomos », ovvero legge, dato che appunto i « nomina » vengono dati dagli uomini « ad placitum », e cioè per libera e collettiva convenzione.

1   ...   27   28   29   30   31   32   33   34   ...   88


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət