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Il nome della rosa


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« Saremo indulgenti quanto ci sarà concesso dal nostro ufficio, » disse l’inquisitore, « e valuteremo con paterna benevolenza, la buona volontà con cui ci hai aperto l’animo tuo. Vai, vai, torna a meditare nella tua cella e spera nella misericordia del Signore. Ora abbiamo a dibattere una questione di ben altro momento. Dunque Remigio, tu portavi con te delle lettere di Dolcino e le desti al confratello tuo che ha cura della biblioteca... »

« Non è vero, non è vero! » gridò il cellario, come se quella difesa avesse ancora qualche efficacia. E giustamente Bernardo lo interruppe: « Ma non è da te che ci serve un assenso, bensì da Malachia da Hildesheim. »

Fece chiamare il bibliotecario, e non era tra i presenti. Io sapevo che stava nello scriptorium, o intorno all’ospedale, a cercare Bencio e il libro. Andarono a cercarlo, e quando apparve, turbato e cercando di non guardare in viso nessuno, Guglielmo mormorò con disappunto: « E ora Bencio potrà fare ciò che vuole. » Ma si sbagliava perché vidi il volto di Bencio spuntare al di sopra delle spalle di altri monaci, che si affollavano alle porte della sala per seguire l’interrogatorio. Lo indicai a Guglielmo. Pensammo allora che la curiosità per quell’evento fosse ancora più forte della sua curiosità per il libro. Apprendemmo dopo che, a quel punto, egli aveva già concluso un suo ignobile mercato.

Malachia apparve dunque davanti ai giudici, senza mai incrociare gli occhi suoi con quelli del cellario.

« Malachia, » disse Bernardo, « stamattina, dopo la confessione resa nella notte da Salvatore, vi ho domandato se avevate ricevuto dall’imputato qui presente delle lettere... »

« Malachia! » urlò il cellario, « poco fa mi hai giurato che non farai nulla contro di me! »

Malachia si volse appena verso l’imputato, a cui dava le spalle, e disse a voce bassissima che quasi non lo udivo: « Non ho spergiurato. Se potevo fare qualcosa contro di te, l’avevo già fatto. Le lettere erano state consegnate al signor Bernardo questa mattina, prima che tu uccidessi Severino... »

« Ma tu sai, tu devi sapere che io non ho ucciso Severino! Tu lo sai perché eri già là! »

« Io? » domandò Malachia. « Io sono entrato laggiù dopo che ti hanno scoperto. »

« E quand’anche, » interruppe Bernardo, « cosa cercavi tu da Severino, Remigio? »

Il cellario si voltò a guardare Guglielmo con occhi smarriti, poi guardò Malachia, poi ancora Bernardo: « Ma io... io ho udito stamane frate Guglielmo qui presente dire a Severino di custodire certe carte... io da ieri notte, dopo la cattura di Salvatore, temevo che si parlasse di quelle lettere... »

« Allora tu sai qualcosa di quelle lettere! » esclamò trionfalmente Bernardo. Il cellario ormai era in trappola. Si trovava stretto tra due urgenze, scagionarsi dall’accusa di eresia e allontanar da sé il sospetto di omicidio. Risolse probabilmente di fronteggiare la seconda accusa, d’istinto, perché ormai agiva senza regola, e senza consiglio: « Parlerò delle lettere dopo... giustificherò... dirò come ne venni in possesso... Ma lasciate che spieghi cosa è accaduto stamane. Io pensavo che di quelle lettere si sarebbe parlato, quando vidi Salvatore cadere nelle mani del signor Bernardo, è anni che la memoria di quelle lettere mi tormenta il cuore... Allora quando udii Guglielmo e Severino parlare di alcune carte... non so, preso dalla paura, pensai che Malachia se ne fosse sbarazzato e le avesse date a Severino... volevo distruggerle e così andai da Severino... la porta era aperta e Severino era già morto, mi sono messo a frugare tra le sue cose per cercare le lettere... avevo solo paura... »

Guglielmo mi sussurrò all’orecchio: « Povero stupido, intimorito da un pericolo si è cacciato a testa bassa in un altro... »

« Ammettiamo che tu dica quasi — dico quasi — la verità, » intervenne Bernardo. « Tu pensavi che Severino avesse le lettere e le hai cercate da lui. E perché hai pensato che le avesse? E perché hai ucciso prima anche gli altri confratelli? Forse pensavi che quelle lettere da tempo circolassero tra le mani di molti? Forse si usa in questa abbazia dar la caccia alle reliquie degli eretici bruciati? »

Vidi l’Abate trasalire. Non v’era nulla di più insidioso dell’accusa di raccoglier reliquie di eretici, e Bernardo era molto abile a mescolare i delitti all’eresia, e il tutto alla vita dell’abbazia. Fui interrotto nelle mie riflessioni dal cellario che gridava che egli non aveva nulla a che vedere con gli altri delitti. Bernardo indulgentemente lo tranquillizzò: non era quella per il momento la questione su cui si stava discutendo, egli era interrogato per delitto di eresia, e non tentasse (e qui la sua voce si fece severa) di distogliere l’attenzione dai suoi trascorsi eretici parlando di Severino o cercando di rendere sospetto Malachia. Che si tornasse dunque alle lettere.

« Malachia da Hildesheim, » disse rivolto al testimone, « voi non siete qui come accusato. Stamane avete risposto alle mie domande e alla mia richiesta senza tentare di nascondere nulla. Ora ripeterete qui ciò che mi avete detto stamane e non avrete nulla da temere. »

« Ripeto quanto ho detto stamane, » disse Malachia. « Dopo poco tempo che era giunto quassù Remigio cominciò a occuparsi delle cucine, e avemmo frequenti contatti per ragioni di lavoro... io come bibliotecario son incaricato della chiusura notturna di tutto l’Edificio, e quindi anche delle cucine... non ho motivo di celare che diventammo fraterni amici, né io avevo motivo di nutrire sospetti contro costui. Ed egli mi raccontò che aveva con sé alcuni documenti di natura segreta, confidatigli in confessione, che non dovevano cadere in mani profane, e che non ardiva tenere presso di sé. Siccome io custodivo l’unico luogo del monastero interdetto a tutti gli altri, mi chiese di conservargli quelle carte lontano da ogni sguardo curioso, e io acconsentii, non presumendo che i documenti fossero di natura eretica, e non li lessi neppure, collocandoli... collocandoli nel più inattingibile dei penetrali della biblioteca, e da allora mi ero scordato di questo fatto, sino a che questa mattina il signor inquisitore me ne ha fatto cenno, e allora sono andato a ritrovarli e glieli ho consegnati... »

L’Abate prese la parola, corrucciato: « Perché non mi hai informato di questo tuo patto col cellario? La biblioteca non è riservata a cose di proprietà dei monaci! » L’Abate aveva messo in chiaro che l’abbazia non aveva nulla a che vedere con quella vicenda.
« Signore, » rispose confuso Malachia, « mi era parsa cosa di poca importanza. Ho peccato senza malizia. »

« Certo, certo, » disse Bernardo in tono cordiale, « siamo tutti convinti che il bibliotecario ha agito in buona fede, e la franchezza con cui ha collaborato con questo tribunale ne è la prova. Prego fraternamente la magnificenza vostra di non fargli carico di quella antica imprudenza. Noi crediamo a Malachia. E gli chiediamo solo che ci confermi ora sotto giuramento che le carte che ora gli mostro sono quelle che lui mi diede stamane e sono quelle che Remigio da Varagine gli consegnò anni fa, dopo il suo arrivo all’abbazia. » Mostrava due pergamene che aveva tratto dai fogli posati sul tavolo. Malachia le guardò e disse con voce ferma: « Giuro su Dio padre onnipotente, sulla santissima Vergine e su tutti i santi che così è ed è stato. »

« Mi basta, » disse Bernardo. « Andate pure, Malachia da Hildesheim. »

Mentre Malachia usciva a testa bassa, poco prima che arrivasse alla porta, si udì una voce levarsi dal gruppo del curiosi ammassati sul fondo della sala: « Tu gli nascondevi le lettere e lui ti mostrava il culo dei novizi in cucina! » Scoppiarono alcune risate. Malachia uscì rapido dando spintoni a destra e a sinistra, io avrei giurato che la voce era quella di Aymaro, ma la frase era stata gridata in falsetto. L’Abate, paonazzo in volto, urlò di far silenzio e minacciò tremende punizioni per tutti. intimando ai monaci di sgombrare la sala. Bernardo sorrideva lubricamente, il cardinal Bertrando, da un lato della sala, si chinava all’orecchio di Jean d’Anneaux e gli diceva qualcosa, a cui l’altro reagiva coprendosi la bocca con la mano e chinando la testa come se tossisse. Guglielmo mi disse: « Il cellario non era solo un peccatore carnale per il bene suo, ma faceva anche il ruffiano. Ma di questo a Bernardo non importa nulla, se non quel tanto che mette in imbarazzo Abbone, mediatore imperiale... »

Fu interrotto proprio da Bernardo che ora si rivolgeva a lui: « Mi interesserebbe poi sapere da voi, frate Guglielmo, di quali carte stavate parlando stamane con Severino, quando il cellario vi udì e ne trasse abbaglio. »

Guglielmo sostenne il suo sguardo: « Ne trasse abbaglio, appunto. Parlavamo di una copia del trattato sull’idrofobia canina di Ayyub al Ruhawi, libro mirabile di dottrina che voi certo conoscete per fama e che vi sarà stato spesso di molta utilità... L’idrofobia, dice Ayyub, si riconosce per venticinque segni evidenti... »

Bernardo, che apparteneva all’ordine dei domini canes, non giudicò opportuno affrontare una nuova battaglia. « Si trattava dunque di cose estranee al caso in questione, » disse rapidamente. E proseguì l’istruttoria.

« Torniamo a te, frate Remigio minorita, ben più pericoloso di un cane idrofobo. Se frate Guglielmo in questi giorni avesse posto più attenzione alla bava degli eretici che non a quella dei cani, forse avrebbe scoperto anche lui quale serpe si annidava nell’abbazia. Torniamo a queste lettere. Ora sappiamo per certo che furono in tue mani e che ti curasti di nasconderle come fossero cosa velenosissima, e che addirittura hai ucciso... » arrestò con un gesto un tentativo di diniego « ... e dell’uccisione parleremo dopo... che hai ucciso, dicevo, perché io non le avessi mai. Allora riconosci queste carte come cosa tua? »

Il cellario non rispose, ma il suo silenzio era abbastanza eloquente. Per cui Bernardo incalzò: « E cosa sono queste carte? Sono due pagine stilate di pugno dall’eresiarca Dolcino, pochi giorni prima di essere preso, e che egli affidava a un suo accolito perché le portasse agli altri suoi settatori ancora sparsi per l’Italia. Potrei leggervi tutto quello che in esse si dice, e come Dolcino, paventando la sua fine imminente, affidi un messaggio di speranza — egli dice ai suoi confratelli — nel demonio! Egli li consola avvisando che, per quanto le date che egli qui annuncia non concordino con quelle delle sue lettere precedenti, dove aveva promesso per l’anno 1305 la distruzione completa di tutti i preti a opera dell’imperatore Federico, tuttavia questa distruzione non sarebbe stata lontana. Ancora una volta l’eresiarca mentiva, perché venti e più anni sono passati da quel giorno e nessuna delle sue nefaste predizioni si è avverata. Ma non è sulla risibile presunzione di queste profezie che dobbiamo discutere, bensì sul fatto che Remigio ne fosse latore. Puoi ancora negare, frate eretico e impenitente, che hai avuto commercio e contubernio con la setta degli pseudo apostoli? »

Il cellario ormai non poteva più negare. « Signore, » disse, « la mia gioventù è stata popolata di errori funestissimi. Quando appresi della predicazione di Dolcino, già sedotto com’ero dagli errori dei frati di povera vita, credetti nelle sue parole e mi unii alla sua banda. Sì, è vero, fui con loro nel bresciano e nel bergamasco, fui con loro a Como e in Valsesia, con loro mi rifugiai alla Parete Calva e in val di Rassa, e infine sul monte Rebello. Ma non presi parte a nessuna malefatta, e quando essi commisero saccheggi e violenze, io portavo ancora in me lo spirito di mansuetudine che fu proprio dei figli di Francesco e proprio sul monte Rebello dissi a Dolcino che non mi sentivo più di partecipare alla loro lotta, ed egli mi diede il permesso di andare, perché, disse, non voleva dei pavidi con sé, e mi chiese solo di portargli quelle lettere a Bologna... »

« A chi? » chiese il cardinal Bertrando.

« Ad alcuni suoi settatori, di cui mi pare di ricordar il nome, e come lo ricordo ve lo dico, signore, » si affrettò ad assicurare Remigio. E pronunziò i nomi di alcuni che il cardinal Bertrando mostrò di conoscere, perché sorrise con aria di soddisfazione, facendo un cenno di intesa a Bernardo.

« Molto bene, » disse Bernardo, e prese nota di quei nomi. Poi chiese a Remigio: « E come mai ora ci consegni i tuoi amici?’

« Non sono miei amici, signore, prova ne sia che le lettere non le consegnai mai. Anzi, feci di più, e lo dico ora dopo aver tentato di dimenticarlo per tanti anni: per poter lasciare quei luoghi senza essere preso dall’esercito del vescovo di Vercelli che ci attendeva al piano, riuscii a mettermi in contatto con alcuni di loro, e in cambio di un salvacondotto gli indicai dei buoni passaggi per poter assalire le fortificazioni di Dolcino, per cui parte del successo delle forze della chiesa fu dovuto alla mia collaborazione... »

« Molto interessante. Questo ci dice che non solo fosti eretico, ma anche che fosti vile e traditore. Il che non cambia la tua situazione. Come oggi per salvarti hai tentato di accusare Malachia, che pure ti aveva reso un servizio, così allora per salvarti consegnasti i tuoi compagni di peccato nelle mani della giustizia. Ma hai tradito i loro corpi, non hai mai tradito i loro insegnamenti, e hai conservato queste lettere come reliquie, sperando un giorno di avere il coraggio, e la possibilità. senza correr rischi, di consegnarle, per renderti di nuovo bene accetto agli pseudo apostoli. »

« No signore, no, » diceva il cellario, coperto di sudore, le mani tremanti. « No, vi giuro che... »

« Un giuramento! » disse Bernardo. « Ecco un’altra prova della tua malizia! Vuoi giurare perché tu sai che io so che gli eretici valdesi sono pronti a ogni astuzia, e persino alla morte, pur di non giurare! E se sono spinti dalla paura fingono di giurare e borbottano falsi giuramenti! Ma io lo so bene che tu non sei della setta dei poveri di Lione, volpe maledetta, e cerchi di convincermi che non sei ciò che non sei affinché io non dica che tu sei ciò che sei! Allora giuri? Giuri per essere assolto ma sappi che un solo giuramento non mi basta! Posso esigerne uno, due, tre, cento, quanti ne vorrò. So benissimo che voi pseudo apostoli accordate dispense a chi giura il falso per non tradire la setta. E così ogni giuramento sarà una nuova prova della tua colpevolezza! »

« Ma allora cosa devo fare? » urlò il cellario, cadendo ginocchioni.

« Non prosternarti come un beghino! Non devi fare nulla. Ormai io solo so cosa si dovrà fare, » disse Bernardo con un sorriso tremendo. « Tu non devi che confessare. E sarai dannato e condannato se confesserai, e sarai dannato e condannato se non confesserai, perché sarai punito come spergiuro! Allora confessa, almeno per abbreviare questo dolorosissimo interrogatorio, che turba le nostre coscienze e il nostro senso della mitezza e della compassione! »

« Ma cosa debbo confessare? »

« Due ordini di peccati. Che sei stato della setta di Dolcino, che ne hai condiviso le proposizioni eretiche, e i costumi e le offese alla dignità dei vescovi e dei magistrati cittadini, che impenitente continui a condividerne le menzogne e le illusioni, anche dopo che l’eresiarca è morto e che la setta è stata dispersa, anche se non del tutto debellata e distrutta. E che, corrotto nell’intimo dell’animo tuo dalle pratiche che apprendesti nella setta immonda, sei colpevole dei disordini contro Dio e gli uomini perpetrati in questa abbazia, per ragioni che ancora mi sfuggono ma che non dovranno neppure esser del tutto chiarite, una volta che si sia luminosamente dimostrato (come stiamo facendo) che l’eresia di coloro che predicarono e predicano la povertà, contro gli insegnamenti del signor papa e delle sue bolle, non può che portare a opere delittuose. Questo dovranno apprendere i fedeli e questo mi basterà. Confessa. »

Fu chiaro a questo punto cosa Bernardo volesse. Per nulla interessato a sapere chi avesse ucciso gli altri monaci, voleva solo dimostrare che Remigio in qualche modo condivideva le idee propugnate dai teologi dell’imperatore. E dopo aver mostrato la connessione tra quelle idee, che erano anche quelle del capitolo di Perugia, e quelle dei fraticelli e dei dolciniani, e aver mostrato che un solo uomo, in quell’abbazia, partecipava di tutte quelle eresie, ed era stato l’autore di molti delitti, in quel modo egli avrebbe recato un colpo invero mortale ai propri avversari. Guardai Guglielmo e capii che aveva capito, ma non poteva farci nulla, anche se lo aveva previsto. Guardai l’Abate e lo vidi scuro in volto: si rendeva conto, in ritardo, di essere stato tratto anch’egli in una trappola, e che la sua stessa autorità di mediatore si stava sfaldando, ora che stava per apparire come il signore di un luogo in cui tutte le infamie del secolo si erano date convegno. Quanto al cellario ormai non sapeva più quale fosse il delitto di cui poteva ancora scagionarsi. Ma forse in quel momento egli non fu capace di nessun calcolo, il grido che uscì dalla sua bocca era il grido della sua anima e in esso e con esso egli scaricava anni di lunghi e segreti rimorsi. Ovvero dopo una vita di incertezze, entusiasmi e delusioni, viltà e tradimenti, messo di fronte alla ineluttabilità della sua rovina, egli decideva di professare la fede della sua giovinezza, senza più chiedersi se fosse giusta o sbagliata, ma quasi per mostrare a se stesso che era capace di qualche fede.

« Sì è vero, » gridò, « sono stato con Dolcino e ne ho condiviso i delitti, le licenze, forse ero pazzo, confondevo l’amore del signor nostro Cristo Gesù con il bisogno di libertà e con l’odio per i vescovi, è vero, ho peccato, ma sono innocente di quanto è avvenuto all’abbazia, lo giuro! »

« Abbiamo per intanto ottenuto qualcosa, » disse Bernardo. « Quindi tu ammetti di aver praticato l’eresia di Dolcino, della strega Margherita e dei suoi compari. Tu ammetti di essere stato con loro mentre vicino a Trivero impiccavano molti fedeli di Cristo tra cui un bambino innocente di dieci anni? E quando impiccarono altri uomini alla presenza delle mogli e dei genitori perché non volevano consegnarsi all’arbitrio di quei cani? E perché, ormai, accecati dalla vostra furia e dalla vostra superbia, ritenevate che nessuno potesse essere salvato se non apparteneva alla vostra comunità? Parla! »

« Sì, sì, ho creduto queste cose e fatto quelle! »

« Ed eri presente quando catturarono alcuni fedeli dei vescovi e alcuni ne fecero morire di fame in carcere, e a una donna gravida tagliarono un braccio e una mano, lasciandola poi partorire un bambino che subito morì senza battesimo? Ed eri con loro quando rasero al suolo e diedero alle fiamme i villaggi di Mosso, Trivero, Cossila e Flecchia, e molte altre località della zona di Crepacorio e molte case a Mortiliano e a Quorino, e incendiarono la chiesa di Trivero imbrattando prima le immagini sacre, strappando le lapidi dagli altari, rompendo un braccio alla statua della Vergine, saccheggiando i calici, gli arredi e i libri, distruggendo il campanile, rompendo le campane, appropriandosi di tutti i vasi della confraternita e dei beni del sacerdote? »

« Sì, sì, io c’ero, e nessuno sapeva più cosa si facesse, volevamo anticipare il momento del castigo, eravamo le avanguardie dell’imperatore mandato dal cielo e dal papa santo, dovevamo affrettare il momento della discesa dell’angelo di Filadelfia, e allora tutti avrebbero ricevuto la grazia dello spirito santo e la chiesa sarebbe stata rinnovata, e dopo la distruzione di tutti i perversi solo i perfetti avrebbero regnato! »

Il cellario sembrava invasato e illuminato a un tempo, pareva che ora la diga del silenzio e della simulazione si fosse rotta, che il suo passato tornasse non solo a parole, ma per immagini, e che egli riprovasse le emozioni che lo avevano esaltato un tempo.

« Allora, » incalzava Bernardo, « tu confessi che avete onorato come martire Gherardo Segalelli, che avete negato ogni autorità alla chiesa romana, che affermavate che né il papa né alcuna autorità poteva prescrivervi un modo di vita diverso dal vostro, che nessuno aveva il diritto di scomunicarvi, che dal tempo di san Silvestro tutti i prelati della chiesa erano stati prevaricatori e seduttori, salvo Pietro da Morrone, che i laici non sono tenuti a pagare le decime ai preti che non pratichino uno stato di assoluta perfezione e povertà come lo praticarono i primi apostoli, che le decime pertanto dovevano essere pagate a voi soli, gli unici apostoli e poveri di Cristo, che per pregare Dio una chiesa consacrata non vale più di una stalla, che percorrevate i villaggi e seducevate le genti gridando ’penitenziagite’, che cantavate il « Salve Regina » per attirare perfidamente le folle, e vi facevate passare per penitenti menando una vita perfetta agli occhi del mondo, e poi vi concedevate ogni licenza e ogni lussuria perché non credevate nel sacramento del matrimonio, né in alcun altro sacramento, e ritenendovi più puri degli altri vi potevate permettere ogni sozzura e ogni offesa del corpo vostro e del corpo degli altri? Parla! »

« Sì, sì, io confesso la vera fede a cui avevo creduto allora con tutta l’anima, confesso che abbiamo abbandonato le nostre vesti in segno di spoliazione, che abbiamo rinunciato a tutti i nostri beni mentre voi razza di cani non vi rinunzierete mai, che da allora non abbiamo più accettato danaro da alcuno né ne abbiamo portato su di noi, e siamo vissuti di elemosina e non ci siamo riservati nulla per il domani, e quando ci accoglievano e ci imbandivano la tavola mangiavamo e partivamo lasciando sulla tavola quanto era avanzato... »

« E avete bruciato e saccheggiato per impadronirvi dei beni dei buoni cristiani! »

« E abbiamo bruciato e saccheggiato perché avevamo eletto la povertà a legge universale e avevamo il diritto di appropriarci delle ricchezze illegittime degli altri, e volevamo colpire al cuore la trama di avidità che si estendeva da parrocchia a parrocchia, ma non abbiamo mai saccheggiato per possedere, né ucciso per saccheggiare, uccidevamo per punire, per purificare gli impuri attraverso il sangue, forse eravamo presi da un desiderio smodato di giustizia, si pecca anche per eccesso d’amor di Dio, per sovrabbondanza di perfezione, noi eravamo la vera congregazione spirituale inviata dal Signore e riservata alla gloria degli ultimi tempi, cercavamo il nostro premio in paradiso anticipando i tempi della vostra distruzione, noi soli eravamo gli apostoli di Cristo, tutti gli altri avevano tradito, e Gherardo Segalelli era stato una pianta divina, planta Dei pullulans in radice fidei, la nostra regola ci veniva direttamente da Dio, non da voi cani dannati, predicatori bugiardi che spargete intorno l’odore dello zolfo e non quello dell’incenso, cani vili, carogne putride, corvi, servi della puttana di Avignone, promessi che siete alla perdizione! Allora io credevo, e anche il nostro corpo si era redento, ed eravamo la spada del Signore, bisognava pure uccidere degli innocenti per potervi uccidere tutti al più presto. Noi volevamo un mondo migliore, di pace e di gentilezza, e la felicità per tutti, noi volevamo uccidere la guerra che voi portavate con la vostra avidità, perché ci rimproverate se per stabilire la giustizia e la felicità abbiamo dovuto versare un po’ di sangue... è... è che non ce ne voleva molto, per fare presto, e valeva pur la pena di fare rossa tutta l’acqua del Carnasco, quel giorno a Stavello, era anche sangue nostro, non ci risparmiavamo, sangue nostro e sangue vostro, tanto tanto, subito subito, i tempi della profezia di Dolcino erano stretti, bisognava affrettare il corso degli eventi... »

Tremava tutto, si passava le mani sull’abito come se volesse pulirle dal sangue che evocava. « Il ghiottone è ridiventato un puro, » mi disse Guglielmo. « Ma è questa la purezza? » domandai inorridito. « Ce ne sarà anche di un’altra sorta, » disse Guglielmo, « ma, quale che sia, mi fa sempre paura.

« Cosa vi terrorizza di più nella purezza? » chiesi.

« La fretta, » rispose Guglielmo.

« Basta, basta, » diceva ora Bernardo, « ti chiedevamo una confessione, non un appello alla strage. Va bene, non solo sei stato eretico ma lo sei ancora. Non solo sei stato assassino, ma hai ancora ucciso. Allora dicci come hai ucciso i tuoi fratelli in questa abbazia, e perché. »

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