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Il nome della rosa


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« Abbiamo delle celle nel sottosuolo del laboratorio dei fabbri, » disse l’Abate, « che per fortuna si usano assai poco e sono vuote da anni... »

« Per fortuna o per sfortuna, » osservò Bernardo. E ordinò agli arcieri di farsi mostrare la strada e condurre in due celle diverse i due catturati; e di legare bene l’uomo a qualche anello infisso nel muro, in modo che egli potesse fra breve scendere a interrogarlo guardandolo bene in viso. Quanto alla ragazza, aggiunse, chi fosse era chiaro, e non valeva la pena di interrogarla quella notte. Altre prove l’avrebbero attesa prima di bruciarla come strega. E se strega era, non avrebbe facilmente parlato. Ma il monaco forse, si poteva ancora pentire (e fissava Salvatore tremante, come a fargli intendere che gli offriva ancora una possibilità), raccontando la verità e, aggiunse, denunciando i suoi complici.

I due vennero trascinati via, l’uno silenzioso e disfatto, quasi febbricitante, l’altra che piangeva, e scalciava, e gridava come un animale al macello. Ma né Bernardo, né gli arcieri, né io stesso, intendevamo cosa dicesse nella sua lingua di contadina. Per quanto parlasse, era come muta. Ci sono delle parole che danno potere, altre che rendono più derelitti ancora, e di questa sorta sono le parole volgari dei semplici, a cui il Signore non ha concesso di sapersi esprimere nella lingua universale della sapienza e della potenza.

Ancora una volta fui tentato di seguirla, ancora una volta Guglielmo, scurissimo in volto, mi trattenne. « Stai fermo, sciocco, disse, « la ragazza è perduta, è carne bruciata. »

Mentre osservavo atterrito la scena, in un turbine di pensieri contraddittori, fissando la fanciulla, mi sentii toccare sulla spalla. Non so perché, ma prima ancora di voltarmi, riconobbi al tocco Ubertino.

« Tu guardi la strega, vero? » mi chiese. E sapevo che non poteva sapere della mia vicenda, e quindi parlava così solo perché aveva colto, con la sua terribile penetrazione per le passioni umane, l’intensità del mio sguardo.

« No... » mi schermii, « non la guardo... cioè, forse la guardo, ma non è una strega... non lo sappiamo, forse è innocente... »

« Tu la guardi perché è bella. E’ bella, vero? » mi domandò con straordinario calore, stringendomi il braccio. « Se la guardi perché è bella, e ne sei turbato (ma so che sei turbato, perché il peccato di cui la si sospetta te la rende ancora più affascinante), se la guardi e provi desiderio, perciostesso essa è una strega. Sta in guardia, figlio mio... La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli uomini vedessero quello che è sotto la pelle, così come accade con la lince di Beozia, rabbrividirebbero alla visione della donna. Tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà che lordume. E se ti ripugna toccare il muco o lo sterco con la punta del dito, come mai potremmo desiderare di abbracciare il sacco stesso che contiene lo sterco? »

Mi colse un conato di vomito. Non volevo più ascoltare quelle parole. Mi venne in soccorso il mio maestro, che aveva udito. Si avvicinò bruscamente a Ubertino, gli afferrò il braccio e lo staccò dal mio.

« Basta così, Ubertino, » disse. « Quella ragazza presto sarà sotto tortura, quindi sul rogo. Diventerà esattamente come dici tu, muco, sangue, umori e bile. Ma saranno i nostri simili a cavare di sotto alla sua pelle ciò che il Signore ha voluto che fosse protetto e adornato da quella pelle. E dal punto di vista della materia prima, tu non sei migliore di lei. Lascia stare il ragazzo. »

Ubertino si turbò: « Forse ho peccato, » mormorò. « Senz’altro ho peccato. Che altro può fare un peccatore? »

Tutti ormai stavano rientrando, commentando l’accaduto. Guglielmo si intrattenne un poco con Michele e con gli altri minoriti, che gli chiedevano le sue impressioni.

« Bernardo ha ora in mano un argomento, sia pure equivoco. Nell’abbazia si aggirano negromanti, che fan le stesse cose che furono fatte contro il papa ad Avignone. Non è certo una prova, e in prima istanza non può essere usata per disturbare l’incontro di domani. Questa notte cercherà di strappare a quel disgraziato qualche altra indicazione, di cui, ne sono sicuro, non farà uso subito domani mattina. La terrà in riserbo, gli servirà più avanti, per disturbare l’andamento delle discussioni se mai prendessero una via che gli è sgradita. »

« Potrebbe fargli dire qualcosa da usare contro di noi? » domandò Michele da Cesena.

Guglielmo rimase dubbioso: « Speriamo di no, » disse. Mi resi conto che, se Salvatore diceva a Bernardo quello che aveva detto a noi, sul passato suo e del cellario, e se accennava qualcosa al rapporto di entrambi con Ubertino, per fugace che fosse stato, si sarebbe creata una situazione assai imbarazzante.

« In ogni caso attendiamo gli eventi, » disse Guglielmo con serenità. « D’altra parte Michele, tutto è già stato deciso prima. Ma tu vuoi provare. »

« Lo voglio, » disse Michele, « e il Signore mi aiuterà. Che san Francesco interceda per tutti noi.

« Amen, » risposero tutti.

« Ma non è detto, » fu l’irriverente commento di Guglielmo. — San Francesco potrebbe essere da qualche parte in attesa del giudizio, senza vedere il Signore faccia a faccia. »

« Maledetto sia l’eretico Giovanni! » sentii brontolare messer Girolamo mentre ciascuno tornava a dormire. « Se adesso ci toglie anche l’assistenza dei santi, dove finiremo noi, poveri peccatori? »


QUINTO GIORNO.


Prima.

Dove ha luogo una fraterna discussione sulla povertà di Gesù.


Il cuore agitato da mille angosce, dopo la scena della notte, mi levai la mattina del quinto giorno che già suonava la prima, quando Guglielmo mi scosse rudemente avvertendomi che tra poco si sarebbero riunite le due legazioni. Guardai fuori dalla finestra della cella e non vidi nulla. La nebbia del giorno prima era diventata una coltre lattiginosa che dominava incontrastata il pianoro.

Appena uscito vidi l’abbazia come non l’avevo ancora vista prima di allora; solo alcune costruzioni maggiori, la chiesa, l’Edificio, la sala capitolare si stagliavano anche a distanza, sia pure imprecise, ombre tra le ombre, ma il resto dei casamenti era visibile solo a pochi passi. Pareva che le forme, delle cose e degli animali, sorgessero all’improvviso dal nulla; le persone sembravano emergere dalla bruma dapprima grigie come fantasmi, poi via via e a fatica riconoscibili.

Nato nei paesi nordici non ero nuovo a quell’elemento, che in altri momenti mi avrebbe ricordato con qualche dolcezza la pianura e il castello della mia nascita. Ma quella mattina le condizioni dell’aria mi parvero dolorosamente affini alle condizioni dell’anima mia, e l’impressione di tristezza con cui mi ero svegliato si accrebbe a mano a mano che mi appressavo alla sala capitolare.

A pochi passi dalla costruzione vidi Bernardo Gui che si accommiatava da un’altra persona che a tutta prima non riconobbi. Come poi mi passò accanto, mi accorsi che era Malachia. Si guardava intorno come chi non voglia essere scorto mentre commette un delitto: ma ho già detto che l’espressione di quest’uomo era per natura quella di chi celi, o tenti di celare, un inconfessato segreto.

Non mi riconobbe, e si allontanò. Io, mosso dalla curiosità, seguii Bernardo e vidi che stava scorrendo con l’occhio delle carte, che forse Malachia gli aveva consegnato. Sulla soglia del capitolo chiamò con un gesto il capo degli arcieri, che stava nei pressi, e gli mormorò alcune parole. Poi entrò. Io gli tenni dietro.

Era la prima volta che ponevo piede in quel luogo, che al di fuori era di modeste dimensioni e sobrie fattezze; mi avvidi che era stato ricostruito in tempi recenti sulle spoglie di una primitiva chiesa abbaziale, forse distrutta in parte da un incendio.

Entrando da fuori si passava sotto un portale alla moda nuova, dall’arco a sesto acuto, senza decorazioni e sovrastato da un rosone. Ma, all’interno, ci si trovava in un atrio, rifatto sulle vestigia di un vecchio nartece. Di fronte si parava un altro portale, con l’arco alla moda antica, il timpano a mezzaluna mirabilmente scolpito. Doveva essere il portale della chiesa scomparsa.

Le sculture del timpano erano altrettanto belle ma meno inquietanti di quelle della chiesa attuale. Anche qui il timpano era dominato da un Cristo in trono; ma accanto a lui, in varie pose e con vari oggetti tra le mani, stavano i dodici apostoli che da lui avevano ricevuto il mandato di andare per il mondo a evangelizzare le genti. Sopra la testa del Cristo, in un arco diviso in dodici pannelli, e sotto i piedi del Cristo, in una processione ininterrotta di figure, erano rappresentati i popoli del mondo, destinati a ricevere la buona novella. Riconobbi dai loro costumi gli ebrei, i cappadoci, gli arabi, gli indiani, i frigi, i bizantini, gli armeni, gli sciti, i romani. Ma, frammisti a loro, in trenta tondi che si disponevano ad arco sopra l’arco dei dodici pannelli, stavano gli abitanti dei mondi sconosciuti, di cui appena ci parlano il « Fisiologo » e i discorsi incerti dei viaggiatori. Molti di loro mi risultarono ignoti, altri ne riconobbi: a esempio i bruti con sei dita per mano, i fauni che nascono dai vermi che si formano tra la corteccia e la polpa degli alberi, le sirene con la coda squamosa, che seducono i marinai, gli etiopi dal corpo tutto nero, che si difendono dalla vampa del sole scavando caverne sotterranee, gli onocentauri, uomini sino all’ombelico e asini di sotto, i ciclopi con un occhio solo della grandezza di uno scudo, Scilla con la testa e il petto di ragazza, il ventre di lupa e la coda di delfino, gli uomini pelosi dell’India che vivono nelle paludi e sul fiume Epigmaride, i cinocefali, che non possono dire parola senza interrompersi e abbaiare, gli sciapodi, che corrono velocissimi sulla loro unica gamba e quando si vogliono riparare dal sole si sdraiano e rizzano il gran piede come un ombrello, gli astomati della Grecia privi di bocca, che respirano dalle narici e vivono solo d’aria, le donne barbute d’Armenia, i pigmei, gli epistigi che alcuni chiamano anche blemmi che nascono senza testa, hanno la bocca sul ventre e gli occhi sulle spalle, le donne mostruose del mar Rosso, alte dodici piedi, coi capelli che arrivano al calcagno, una coda bovina in fondo alla schiena e zoccoli di cammello, e quelli con le piante dei piedi rovesciate all’indietro, che chi li insegue guardandone le orme arriva sempre da dove vengono e mai dove vanno, e ancora gli uomini con tre teste, quelli con gli occhi luccicanti come lampade e i mostri dell’isola di Circe, corpi umani e cervici dei più vari animali...

Questi e altri prodigi erano scolpiti su quel portale. Ma nessuno di essi provocava inquietudine perché essi non stavano a significare i mali di questa terra o i tormenti dell’inferno, bensì erano testimoni del fatto che la buona novella aveva raggiunto tutta la terra cognita e si stava estendendo a quella incognita, per cui il portale era gioiosa promessa di concordia, di raggiunta unità nella parola di Cristo, di splendida ecumene.

Buon auspicio, mi dissi, per l’incontro che si svolgerà al di là di questa soglia, in cui uomini fatti nemici l’un l’altro da opposte interpretazioni del vangelo, forse oggi si ritroveranno per comporre le loro querele. E mi dissi che ero un debole peccatore a dolorare per i miei casi personali mentre stavano per verificarsi eventi di tanta importanza per la storia della cristianità. Commisurai la pochezza delle mie pene alla grandiosa promessa di pace e di serenità sigillata nella pietra del timpano. Chiesi perdono a Dio per la mia fragilità, e varcai più sereno la soglia.


Non appena entrato vidi al completo i membri di entrambe le legazioni, che si fronteggiavano su di una serie di scranni disposti a emiciclo, i due fronti divisi da un tavolo a cui sedevano l’Abate e il cardinal Bertrando.

Guglielmo, che io seguii per prendere appunti, mi mise dalla parte dei minoriti, dove stavano Michele coi suoi e altri francescani della corte di Avignone: perché l’incontro non doveva apparire come un duello tra italiani e francesi, ma una disputa tra sostenitori della regola francescana e i loro critici, tutti uniti da una sana e cattolica fedeltà alla corte pontificia.

Con Michele da Cesena stavano frate Arnaldo d’Aquitania, frate Ugo da Novocastro e frate Guglielmo Alnwick, che avevano preso parte al capitolo di Perugia, e poi il vescovo di Caffa e Berengario Talloni, Bonagrazia da Bergamo e altri minoriti della corte avignonese. Dalla parte opposta sedevano Lorenzo Decoalcone, baccelliere di Avignone, il vescovo di Padova e Jean d’Anneaux, dottore in teologia a Parigi. Accanto a Bernardo Gui, silenzioso e assorto, c’era il domenicano Jean de Baune che in Italia chiamavano Giovanni Dalbena. Costui, mi disse Guglielmo, era stato anni prima inquisitore a Narbona, dove aveva processato molti beghini e pinzocheri; ma siccome aveva imputato di eresia proprio una proposizione concernente la povertà di Cristo, si era levato contro di lui Berengario Talloni, lettore nel convento di quella città, appellandosi al papa. Allora Giovanni era ancora incerto su questa materia, e aveva convocato entrambi a corte per discutere, senza che si addivenisse a una conclusione. Tanto che poco dopo i francescani avevano preso la posizione, di cui ho già detto, al capitolo di Perugia. Infine, da parte degli avignonesi, c’erano altri ancora, tra cui il vescovo di Alborea.

La seduta fu aperta da Abbone che ritenne opportuno riassumere i fatti più recenti. Ricordò che nell’anno del Signore 1322 il capitolo generale dei frati minori, riunitosi a Perugia sotto la guida di Michele da Cesena, aveva stabilito con matura e diligente deliberazione che Cristo, per dare esempio di vita perfetta, e gli apostoli per adeguarsi al suo insegnamento, non avevano mai avuto in comune alcuna cosa, sia per ragioni di proprietà che di signoria, e che questa verità era materia di fede sana e cattolica, come si evinceva da varie citazioni dei libri canonici. Per cui era meritoria e santa la rinunzia alla proprietà di tutte le cose e che a questa regola di santità si erano attenuti i primi fondatori della chiesa militante. Che a questa verità si era attenuto nel 1312 il concilio di Vienne e che lo stesso papa Giovanni nel 1317, nella costituzione sopra lo stato dei frati minori che inizia « Quorundam exigit », aveva commentato i deliberati di quel concilio come santamente composti, lucidi, solidi e maturi. Onde il capitolo perugino, ritenendo che ciò che per sana dottrina la sedia apostolica aveva sempre approvato, sempre sl dovesse tener per accettato, né da esso in alcun modo ci si dovesse dipartire, altro non aveva fatto che risuggellare tale decisione conciliare, per la firma di maestri in sacra teologia come frate Guglielmo d’Inghilterra, frate Enrico d’Alemagna, frate Arnaldo d’Aquitania, provinciali e ministri; nonché con il suggello di frate Niccolao ministro di Francia, frate Guglielmo Bloc baccelliere, del ministro generale e di quattro ministri provinciali, frate Tommaso da Bologna, frate Pietro della provincia di san Francesco, frate Fernando da Castello e frate Simone da Turonia. Però, aggiunse Abbone, l’anno seguente il papa emanava la decretale « Ad conditorem canonum » contro cui si appellava frate Bonagrazia da Bergamo, ritenendola contraria agli interessi del suo ordine. Il papa allora aveva spiccato quella decretale dalle porte della chiesa maggiore di Avignone dove era stata appesa, e l’aveva emendata in più punti. Ma in realtà l’aveva resa ancor più aspra, prova ne fosse che per immediata conseguenza frate Bonagrazia era stato tenuto per un anno in prigione. Né si potevano avere dubbi sulla severità del pontefice, perché lo stesso anno emanava la ormai notissima « Cum inter nonnullos », in cui definitivamente si condannavano le tesi del capitolo di Perugia.

Parlò a questo punto, garbatamente interrompendo Abbone, il cardinal Bertrando e disse che occorreva ricordare come, a complicar le cose e irritare il pontefice, fosse intervenuto nel 1324 Ludovico il Bavaro con la dichiarazione di Sachsenhausen, dove si assumevano senza alcuna buona ragione le tesi di Perugia (né si comprendeva, notò Bertrando con un fine sorriso, perché mai l’imperatore acclamasse tanto entusiasticamente una povertà che egli non praticava affatto), ponendosi contro messere il papa, chiamandolo inimicus pacis e dicendolo inteso a suscitar scandali e discordie, trattandolo infine da eretico, anzi da eresiarca.

« Non proprio, » tentò di mediare Abbone.

« In sostanza sì, » disse seccamente Bertrando. E aggiunse che era stato proprio per controbattere l’inopportuno intervento dell’imperatore che messere il papa era stato costretto a emettere la decretale « Quia quorundam », e che infine aveva severamente invitato Michele da Cesena a presentarsi al suo cospetto. Michele aveva mandato lettere escusatorie dicendosi malato, cosa di cui nessuno dubitava, inviando in vece sua frate Giovanni Fidanza e frate Umile Custodio da Perugia. Ma si dava il caso, disse il cardinale, che i guelfi di Perugia avevano informato il papa che, lungi dall’esser malato, fra Michele stava tenendo contatti con Ludovico di Baviera. E in ogni caso, quello che era stato essendo stato, ora fra Michele sembrava di bello e sereno aspetto, e lo si attendeva dunque ad Avignone. Era peraltro meglio, ammetteva il cardinale, misurare prima, come si stava ora facendo, al cospetto di uomini prudenti di ambo le parti, cosa Michele al papa avrebbe poi detto, dato che il fine di tutti era pur sempre quello di non inasprir le cose e comporre fraternamente una diatriba che non aveva ragion d’essere tra un padre amoroso e i suoi figli devoti, e che sino ad allora si era rinfocolata solo per gli interventi di uomini del secolo, imperatori e vicari che fossero, i quali nulla avevano a che vedere con le questioni di santa madre chiesa.

Intervenne allora Abbone e disse che, pur essendo uomo di chiesa e abate di un ordine a cui la chiesa tanto doveva (un mormorio di rispetto e deferenza corse da ambo i lati dell’emiciclo), non riteneva tuttavia che l’imperatore dovesse rimanere estraneo a tali questioni, per le molte ragioni che frate Guglielmo da Baskerville avrebbe poi detto. Ma, diceva sempre Abbone, era tuttavia giusto che la prima parte del dibattito dovesse svolgersi tra i messi pontifici e i rappresentanti di quei figli di san Francesco che, per il fatto stesso di essere intervenuti a questo incontro, del pontefice si dimostravano figli devotissimi. E quindi invitava frate Michele o chi per lui a dire cosa egli intendesse sostenere in Avignone.



Michele disse che, con grande sua gioia e commozione, si trovava tra loro quella mattina Ubertino da Casale, a cui lo stesso pontefice, nel 1322, aveva chiesto una fondata relazione sulla questione della povertà. E proprio Ubertino avrebbe potuto riassumere, con la lucidità, l’erudizione e la fede appassionata che tutti gli riconoscevano, i punti capitali di quelle che erano ormai, e indefettibili, le idee dell’ordine francescano.

Si alzò Ubertino e, non appena iniziò a parlare, capii perché mai avesse suscitato tanto entusiasmo e come predicatore e come uomo di corte. Appassionato nel gesto, suadente nella voce, affascinante nel sorriso, chiaro e conseguente nel ragionamento, egli legò a sé gli ascoltatori per tutto il tempo che ebbe la parola. Egli iniziò una disquisizione molto dotta sulle ragioni che confortavano le tesi di Perugia. Disse che anzitutto si doveva riconoscere che Cristo e gli apostoli suoi furono in duplice stato, perché furono prelati della chiesa del nuovo testamento e in questo modo possedettero, quanto ad autorità di dispensazione e distribuzione, per dare ai poveri e ai ministri della chiesa, come è scritto nel quarto capitolo degli Atti degli apostoli, e su questo nessuno fa questione. Ma secondariamente Cristo e gli apostoli si debbono considerare come persone singole, fondamento di ogni religiosa perfezione, e perfetti dispregiatori del mondo. E a questo proposito si propongono due modi di avere, l’uno dei quali è civile e mondano, che le leggi imperiali definiscono con le parole in bonis nostris, perché nostri sono detti quei beni dei quali si ha difesa e che, essendoci tolti, abbiamo diritto di pretendere. Per cui una cosa è civilmente e mondanamente difendere la cosa propria da colui che ce la vuol togliere, appellandosi al giudice imperiale (e dire che Cristo e gli apostoli ebbero cose in questo modo è affermazione eretica, perché come dice Matteo nel quinto capitolo a colui che vuole contendere con te in giudizio e toglierti la tunica, lascia anche il mantello, né dice diversamente Luca nel sesto capitolo, con le quali parole Cristo rimuove da sé ogni dominio e signoria e questo medesimo impone ai suoi apostoli, si veda inoltre Matteo capitolo ventiquattresimo, dove Pietro dice al Signore che per seguirlo lasciarono ogni cosa); ma per altro modo si possono tuttavia avere le cose temporali, quanto a ragion della comune carità fraterna, e in questo modo Cristo e i suoi ebbero dei beni per ragione naturale, la quale ragione è da alcuni chiamata jus poli, cioè ragione del cielo, a sustentazione della natura che senza ordinazione umana è consona alla retta ragione; mentre lo jus fori è potestà che dipende da umana pattuizione. Anteriormente alla prima divisione delle cose queste, quanto al dominio, furono come ora sono le cose che non risultano tra i beni di alcuno e si concedono a chi le occupa e furono in un certo senso comuni a tutti gli uomini, mentre solo dopo il peccato i nostri progenitori iniziarono a dividersi la proprietà delle cose e da allora iniziarono i domini mondani come sono conosciuti oggi. Ma Cristo e gli apostoli ebbero le cose nel primo modo, e così ebbero la vestimenta e i pani e i pesci, e come dice Paolo nella prima a Timoteo, abbiamo gli alimenti, e di che coprirci, e siamo contenti. Per cui queste cose Cristo e i suoi ebbero non in possesso, bensì in uso, salva rimanendo la loro assoluta povertà. Il che era già stato riconosciuto da papa Niccolò Secondo nella decretale « Exiit qui seminat ».

Ma si levò dalla parte opposta Jean d’Anneaux e disse che le posizioni di Ubertino gli parevano contrarie e alla retta ragione e alla retta interpretazione delle scritture. Imperocché nei beni deperibili con l’uso, come il pane e i pesci, non si può parlare di semplice diritto d’uso, né si può avere uso di fatto, ma solo abuso; tutto quello che i credenti avevano in comune nella chiesa primitiva, come si evince dagli Atti secondo e terzo, lo avevano in base allo stesso tipo di dominio che detenevano prima della conversione; gli apostoli, dopo la discesa dello Spirito Santo, possedettero poderi in Giudea; il voto di vivere senza proprietà non si estende a ciò di cui l’uomo ha necessariamente bisogno per vivere, e quando Pietro disse che aveva lasciato ogni cosa non intendeva dire che avesse rinunziato alla proprietà; Adamo ebbe dominio e proprietà delle cose; il servo che prende danaro dal suo padrone non ne fa certo né uso né abuso; le parole della « Exiit qui seminat » a cui i minoriti sempre si rifanno e che stabilisce che i frati minori hanno solo l’uso di ciò di cui si servono, senza averne il dominio e la proprietà, devono riferirsi soltanto ai beni che non si esauriscono con l’uso, e infatti se la « Exiit » comprendesse i beni deperibili sosterrebbe una cosa impossibile; l’uso di fatto non si può distinguere dal dominio giuridico; ogni diritto umano, in base al quale si posseggono beni materiali, è contenuto nelle leggi dei re; Cristo come uomo mortale, fin dall’istante del suo concepimento, fu proprietario di tutti i beni terreni e come Dio ebbe dal padre il dominio universale di tutto; fu proprietario di vesti, alimenti, danaro per contributi e offerte dei fedeli, e se fu povero non fu perché non ebbe proprietà ma perché non ne percepiva i frutti, imperocché il semplice dominio giuridico, separato dalla riscossione degli interessi, non rende ricco chi lo detiene; e infine, se pure la « Exiit » avesse detto cose diverse, il pontefice romano, per ciò che si riferisce alla fede e alle questioni morali, può revocare le dererminazioni dei suoi predecessori e fare anche asserzioni contrarie.

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