Ana səhifə

Il nome della rosa


Yüklə 3.63 Mb.
səhifə29/88
tarix25.06.2016
ölçüsü3.63 Mb.
1   ...   25   26   27   28   29   30   31   32   ...   88

Ci muovemmo in tutte le direzioni, ma senza risultato. Al di là delle nostre immagini, lo specchio rinviava confusi contorni del resto della sala, a mala pena illuminata dalla lampada.

« Allora, » meditava Guglielmo, « per ’supra speculum’ potrebbe voler intendere al di là dello specchio... Il che imporrebbe che prima andassimo al di là, perché certamente questo specchio è una porta... »

Lo specchio era alto più di un uomo normale, incassato nel muro da una robusta cornice di quercia. Lo toccammo in tutte le guise, cercammo di insinuare le nostre dita, le nostre unghie tra la cornice e il muro, ma lo specchio stava saldo come se del muro fosse parte, pietra nella pietra.

« E se non è al di là, potrebbe essere ’super speculum’, » mormorava Guglielmo, e intanto alzava il braccio e si levava in punta di piedi, e faceva scorrere la mano sul bordo superiore della cornice, senza trovar altro che polvere.

« D’altra parte, » rifletteva melanconicamente Guglielmo. « se pure lì dietro ci fosse una stanza, il libro che cerchiamo e che altri cercarono, in quella stanza non c’è più, perché lo hanno portato via, prima Venanzio e poi, chissà dove, Berengario. »

« Ma forse Berengario lo ha riportato qui. »

« No, quella sera noi eravamo in biblioteca, e tutto ci fa credere che egli sia morto non molto tempo dopo il furto, quella notte stessa nei balnea. Altrimenti lo avremmo rivisto il mattino successivo. Non importa... Per ora abbiamo appurato dove stia il finis Africae e abbiamo quasi tutti gli elementi per perfezionare meglio la mappa della biblioteca. Devi ammettere che molti dei misteri del labirinto si sono ormai chiariti. Tutti, direi, meno uno. Credo che trarrò più partito da una rilettura attenta del manoscritto di Venanzio che da altre ispezioni. Hai visto che il mistero del labirinto lo abbiamo scoperto meglio da fuori che da dentro. Questa sera, di fronte alle nostre immagini distorte, non verremo a capo del problema. E infine, il lume sta indebolendosi. Vieni, mettiamo a punto le altre indicazioni che ci servono per definire la mappa. »

Percorremmo altre sale, sempre registrando le nostre scoperte sulla mia mappa. Incontrammo stanze dedicate soltanto a scritti di matematica e astronomia, altre con opere in caratteri aramaici che nessuno di noi due conosceva, altre in caratteri più ignoti ancora, forse testi dell’India. Ci muovevamo entro due sequenze imbricate che dicevano IUDAEA e AEGYPTUS. Insomma, per non attediare il lettore con la cronaca della nostra decifrazione, quando più tardi mettemmo definitivamente a punto la mappa, ci convincemmo che la biblioteca era davvero costituita e distribuita secondo l’immagine dell’orbe terraqueo. A settentrione trovammo ANGLIA e GERMANI, che lungo la parete occidentale si legavano a GALLIA, per poi generare all’estremo occidente HIBERNIA e verso la parete meridionale ROMA (paradiso di classici latini!) e YSPANIA. Venivano poi a meridione i LEONES, l’AEGYPTUS che verso oriente diventavano IUDAEA e FONS ADAE. Tra oriente e settentrione, lungo la parete, ACAIA, una buona sineddoche, come si espresse Guglielmo, per indicare la Grecia, e infatti in quelle quattro stanze vi era gran dovizia di poeti e filosofi dell’antichità pagana.

Il modo di lettura era bizzarro, talora si procedeva in un’unica direzione, talora si andava a ritroso, talora in circolo, spesso come ho detto una lettera serviva a comporre due parole diverse (e in quei casi la stanza aveva un armadio dedicato a un argomento e uno a un altro). Ma non c’era evidentemente da cercare una regola aurea in quella disposizione. Si trattava di mero artifizio mnemonico per permettere al bibliotecario di ritrovare un’opera. Dire di un libro che si trovava in quarta Acaiae significava che era nella quarta stanza a contare da quella in cui appariva la A iniziale, e quanto al modo di individuarla, si supponeva che il bibliotecario sapesse a memoria il percorso, o retto o circolare, da fare. Per esempio ACAIA era distribuito su quattro stanze disposte a quadrato, il che vuol dire che la prima A era anche l’ultima, cosa che peraltro anche noi avevamo appreso in poco tempo. Così come avevamo subito appreso il gioco degli sbarramenti. Per esempio, venendo da oriente, nessuna delle stanze di ACAIA immetteva nelle stanze seguenti: il labirinto a quel punto terminava e per raggiungere il torrione settentrionale occorreva passare dagli altri tre. Ma naturalmente i bibliotecari, entrando dal FONS, sapevano bene che per andare, poniamo, in ANGLIA, dovevano attraversare AEGYPTUS, YSPANIA, GALLIA e GERMANI.


Con queste e altre belle scoperte terminò la nostra fruttuosa esplorazione alla biblioteca. Ma prima di dire che, soddisfatti, ci accingemmo a uscirne (per diventar partecipi di altri eventi di cui tra poco racconterò), devo fare una confessione al mio lettore. Ho detto che la nostra esplorazione fu condotta da un lato cercando la chiave del misterioso luogo e dall’altro intrattenendoci via via, nelle sale che individuavamo quanto a collocazione e argomento, a sfogliare libri di vario genere, come se esplorassimo un continente misterioso o una terra incognita. E di solito questa esplorazione avvenne di comune accordo, io e Guglielmo intrattenendoci sugli stessi libri, io indicandogli i più curiosi, lui spiegandomi molte cose che non riuscivo a capire.

Ma a un certo punto, e proprio mentre ci aggiravamo per le sale del torrione meridionale, dette LEONES, accadde che il mio maestro si soffermasse in una stanza ricca di opere arabe con curiosi disegni di ottica; e poiché quella sera disponevamo non di uno ma di due lumi, io mi spostai per curiosità nella stanza accanto, avvedendomi che la sagacia e la prudenza dei legislatori della biblioteca avevano radunato lungo una delle sue pareti libri che certo non potevano essere dati in lettura a chiunque, perché in modi diversi trattavano di svariate malattie del corpo e dello spirito, quasi sempre a opera di sapienti infedeli. E mi cadde l’occhio su di un libro non grande, adorno di miniature molto difformi (per fortuna!) dal tema, fiori, viticci, animali a coppia, qualche erba medicinale: il titolo era « Speculum amoris », di fra Massimo da Bologna, e riportava citazioni di molte altre opere, tutte sulla malattia d’amore. Come il lettore capirà non ci voleva di più a risvegliare la mia curiosità malata. Anzi, proprio quel titolo bastò a riaccendere la mia mente, che dal mattino si era sopita, eccitandola di nuovo con l’immagine della fanciulla.

Poiché per tutto il giorno avevo ricacciato da me i pensieri mattinali, dicendomi che non erano da novizio sano ed equilibrato, e poiché d’altra parte gli eventi della giornata erano stati abbastanza ricchi e intensi da distrarmi, i miei appetiti si erano sopiti, sì che ormai credevo di essermi liberato da ciò che altro non era stata che una inquietudine passeggera. Invece bastò la vista di quel libro a farmi dire « de te fabula narratur » e a scoprirmi più malato d’amore di quanto non credessi. Imparai dopo che, a leggere libri di medicina, ci si convince sempre di provare i dolori di cui essi parlano. Fu così che proprio la lettura di quelle pagine, sbirciate in fretta per timore che Guglielmo entrasse nella stanza e mi chiedesse su che cosa mi stavo dottamente intrattenendo, mi convinse che io soffrivo proprio di quella malattia, i cui sintomi erano così splendidamente descritti che, se da un lato mi preoccupavo nel trovarmi malato (e sulla scorta infallibile di tante auctoritates), dall’altro mi rallegravo nel veder dipinta con tanta vivacità la mia situazione; convincendomi che, se pur ero malato, la mia malattia era per così dire normale, dato che tanti altri ne avevano sofferto nello stesso modo, e gli autori citati sembravano aver preso proprio me a modello delle loro descrizioni.

Mi commossi così sulle pagine di Ibn Hazm, che definisce l’amore come una malattia ribelle, che ha la sua cura in se stessa, in cui chi è malato non vuole guarirne e chi ne è infermo non desidera riaversi (e Dio sa se non fosse vero!). Mi resi conto perché al mattino fossi così eccitato da tutto quel che vedevo, perché pare che l’amore entri attraverso gli occhi come dice anche Basilio d’Ancira, e — sintomo inconfondibile — chi è preso da tale male manifesta una eccessiva gaiezza, mentre desidera al contempo starsene in disparte e predilige la solitudine (come io avevo fatto quel mattino), mentre altri fenomeni che lo accompagnano sono l’inquietudine violenta e lo sbalordimento che toglie le parole... Mi spaventai leggendo che al sincero amante, cui sia sottratta la vista dell’oggetto amato, non può che sopravvenire uno stato di consunzione che spesso arriva sino a fargli prendere il letto, e talora il male sopraffà il cervello, si perde il senno e si vaneggia (evidentemente non ero ancor giunto in quello stato, perché avevo lavorato assai bene nell’esplorare la biblioteca). Ma lessi con apprensione che se il male peggiora, può sopravvenirne la morte e mi chiesi se la gioia che la fanciulla mi dava a pensarla valesse questo sacrificio supremo del corpo, a parte ogni retta considerazione sulla salute dell’anima.

Anche perché trovai un’altra citazione di Basilio secondo il quale « qui animam corpori per vitia conturbationesque commiscent, utrinque quod habet utile ad vitam necessarium demoliuntur, animamque lucidam ac nitidam carnalium voluptatum limo perturbant, et corporis munditiam atque nitorem hac ratione miscentes, inutile hoc ad vitae officia ostendunt ». Situazione estrema in cui proprio non volevo trovarmi.

Appresi altresì da una frase di santa Hildegarda che quell’umor melanconico che in giornata avevo provato, e che attribuivo a dolce sentimento di pena per l’assenza della fanciulla, pericolosamente assomiglia al sentimento che prova chi devia dallo stato armonico e perfetto che l’uomo prova in paradiso, e che questa melanconia « nigra et amara » è prodotta dal soffio del serpente e dalla suggestione del diavolo. Idea condivisa anche da infedeli di pari saggezza, perché mi caddero sotto gli occhi le linee attribuite a Abu Bakr-Muhammad Ibn Zakariyya ar-Razi, che in un « Liber continens » identifica la melanconia amorosa con la licantropia, che spinge chi ne è colpito a comportarsi come un lupo. La sua descrizione mi serrò la gola: dapprima gli amanti appaiono mutati nel loro aspetto esteriore, la loro vista si indebolisce, gli occhi diventano cavi e senza lacrime, la lingua lentamente si essicca e su di essa appaiono delle pustole, tutto il corpo è secco e soffrono continuamente la sete; a questo punto trascorrono la loro giornata sdraiati a faccia in giù, sul viso e sulle tibie appaiono segni simili a morsi di cane, e infine di notte vagano per i cimiteri come lupi.



Non ebbi infine più dubbi sulla gravità del mio stato quando lessi citazioni dal grandissimo Avicenna, dove l’amore viene definito come un pensiero assiduo di natura melanconica, che nasce a causa del pensare e ripensare le fattezze, i gesti o i costumi di una persona di sesso opposto (come Avicenna aveva rappresentato con fedele vivacità il caso mio!): esso non nasce come malattia ma malattia diviene quando non essendo soddisfatto diventa pensiero ossessivo (e perché mai mi sentivo ossessionato io che pure, Dio mi perdoni, mi ero ben soddisfatto? o forse ciò che era avvenuto la notte precedente non era soddisfazione d’amore? ma come si soddisfa allora questo male?), e come conseguenza si ha un moto continuo delle palpebre, un respiro irregolare, ora si ride e ora si piange, e il polso batte (e invero il mio batteva, e il respiro si spezzava mentre leggevo quelle righe!). Avicenna consigliava un metodo infallibile già proposto da Galeno per scoprire di chi qualcuno sia innamorato: tenere il polso del dolente e pronunciare molti nomi di persone d’altro sesso, sino a che si avverta a quale nome il ritmo del polso si accelera: e io temevo che di colpo entrasse il mio maestro e mi afferrasse il braccio e spiasse nella pulsazione delle mie vene il mio segreto, del che molto mi sarei vergognato... Ahimè, Avicenna suggeriva, come rimedio, di unire i due amanti in matrimonio, e il male sarebbe guarito. Proprio vero che era un infedele, se pure avveduto, perché non teneva conto della condizione di un novizio benedettino, condannato dunque a non guarire mai — o meglio consacratosi, per sua scelta, o per oculata scelta dei suoi parenti, a mai ammalarsi. Per fortuna Avicenna, sia pure non pensando all’ordine cluniacense, considerava il caso di amanti non ricongiungibili, e consigliava come cura radicale i bagni caldi (che Berengario volesse guarire del suo mal d’amore per lo scomparso Adelmo? ma si poteva soffrire mal d’amore per un essere del proprio sesso, o quella non era che bestiale lussuria? e forse non era bestiale la lussuria della mia notte passata? no certo, mi dicevo subito, era dolcissima — e subito dopo: sbagli Adso, quella fu illusione del diavolo, bestialissima era, e se hai peccato a essere bestia pecchi ancora più ora a non volertene rendere conto!). Ma poi lessi anche che, sempre secondo Avicenna, vi erano pure altri mezzi: per esempio, ricorrere all’assistenza di donne vecchie ed esperte che passino il tempo a denigrare l’amata — e pare che le donne vecchie siano più esperte degli uomini in questa bisogna. Forse questa era la soluzione, ma donne vecchie all’abbazia non ne potevo trovare (né giovani, invero) e dunque avrei dovuto chiedere a qualche monaco di parlarmi male della ragazza, ma a chi? E poi, poteva un monaco conoscere bene le donne come le conosceva una donna vecchia e pettegola? L’ultima soluzione suggerita dal saraceno era addirittura invereconda perché postulava che si facesse congiungere l’amante infelice con molte schiave, cosa assai inconveniente per un monaco. Infine, mi dicevo, come può guarire di mal d’amore un giovane monaco, non c’è proprio salvezza per lui? Forse dovevo ricorrere a Severino e alle sue erbe? Infatti trovai un brano di Arnaldo da Villanova, autore che già avevo sentito citare con molta considerazione da Guglielmo, il quale faceva nascere il mal d’amore da una abbondanza di umori e di pneuma, quando cioè l’organismo umano si trova in eccesso di umidità e calore, dato che il sangue (che produce il seme generativo) crescendo per eccesso provoca eccesso di seme, una « complexio venerea », e un desiderio intenso di unione tra uomo e donna. C’è una virtù estimativa situata nella parte dorsale del ventricolo medio dell’encefalo (cos’è, mi chiesi?) il cui scopo è percepire le intentiones non sensibili che sono negli oggetti sensibili captati dai sensi, e quando il desiderio per l’oggetto percepito dai sensi si fa troppo forte ecco che la facoltà estimativa ne è sconvolta, e si pasce solo del fantasma della persona amata; allora si verifica una infiammazione di tutta l’anima e il corpo, con la tristezza alternata alla gioia, perché il calore (che nei momenti di disperazione scende nelle parti più profonde del corpo e raggela la cute) nei momenti di gioia sale alla superficie infiammando il volto. La cura suggerita da Arnaldo consisteva nel cercare di perdere la confidenza e la speranza di raggiungere l’oggetto amato, in modo che il pensiero se ne allontanasse.

Ma allora sono guarito, o in via di guarigione, mi dissi, perché ho poca o nessuna speranza di rivedere l’oggetto dei miei pensieri, e se lo vedessi di raggiungerlo, e se lo raggiungessi di possederlo di nuovo, e se lo ripossedessi di trattenerlo presso di me, sia a cagione del mio stato monacale che dei doveri che mi sono imposti dal rango della mia famiglia... Sono salvo, mi dissi, chiusi il fascicolo e mi ricomposi, proprio mentre Guglielmo entrava nella stanza. Ripresi con lui il viaggio attraverso il labirinto ormai svelato (come ho già raccontato) e per il momento scordai la mia ossessione.

Come si vedrà l’avrei ritrovata entro breve tempo, ma in circostanze (ahimè!) ben diverse.

Notte.


Dove Salvatore si fa miseramente scoprire da Bernardo Gui, la ragazza amata da Adso viene presa come strega e tutti vanno a letto più infelici e preoccupati di prima.
Stavamo infatti ridiscendendo nel refettorio quando udimmo dei clamori, e delle luci fievoli balenarono dalla parte della cucina. Guglielmo spense di colpo il lume. Seguendo i muri ci avvicinammo alla porta che dava sulla cucina, e sentimmo che il rumore proveniva dall’esterno, salvo che la porta era aperta. Poi le voci e le luci si allontanarono, e qualcuno chiuse con violenza la porta. Era un tumulto grande che preludeva a qualcosa di sgradevole. Velocemente ripassammo per l’ossario, riapparimmo nella chiesa, deserta, uscimmo dal portale meridionale, e scorgemmo un baluginare di fiaccole nel chiostro.

Ci appressammo, e nella confusione pareva che fossimo accorsi anche noi insieme ai molti che già erano sul luogo, usciti vuoi dal dormitorio vuoi dalla casa dei pellegrini. Vedemmo che gli arcieri stavano tenendo saldamente Salvatore, bianco come il bianco dei suoi occhi. e una donna che piangeva. Provai una stretta al cuore: era lei, la ragazza dei miei pensieri. Come mi vide mi riconobbe e mi lanciò uno sguardo implorante e disperato. Ebbi l’impulso di lanciarmi a liberarla, ma Guglielmo mi trattenne sussurrandomi alcuni improperi per nulla affettuosi. I monaci e gli ospiti ora accorrevano da ogni parte.

Arrivò l’Abate, arrivò Bernardo Gui, a cui il capitano degli arcieri fece un breve rapporto. Ecco cos’era accaduto.

Per ordine dell’inquisitore essi pattugliavano nottetempo l’intera spianata, con particolare attenzione per il viale che andava dal portale d’ingresso alla chiesa, la zona degli orti, e la facciata dell’Edificio (perché? mi chiesi, e capii: evidentemente perché Bernardo aveva raccolto dai famigli o dai cucinieri voci su alcuni traffici notturni, magari senza sapere chi esattamente ne fossero i responsabili, che avvenivano tra l’esterno della cinta e le cucine, e chissà che lo stolido Salvatore, come aveva detto a me dei suoi propositi, non ne avesse già parlato in cucina o nelle stalle a qualche sciagurato che, intimorito dall’interrogatorio del pomeriggio, aveva gettato in pasto a Bernardo questa mormorazione). Nel girare circospetti e al buio tra la nebbia, gli arcieri avevano finalmente sorpreso Salvatore, in compagnia della donna, mentre armeggiava davanti alla porta della cucina.

« Una donna in questo luogo santo! E con un monaco! » disse severamente Bernardo rivolgendosi all’Abate. « Signore magnificentissimo, » proseguì, « se si trattasse solo della violazione del voto di castità, la punizione di quest’uomo sarebbe cosa di vostra giurisdizione. Ma poiché non sappiamo ancora se i maneggi di questi due sciagurati abbiano qualcosa a che vedere con la salute di tutti gli ospiti, dobbiamo prima far luce su questo mistero. Orsù, dico a te, miserabile, » e strappava dal petto di Salvatore l’evidente involto che quello credeva di celare, « cos’hai lì dentro? »

Io già lo sapevo: un coltello, un gatto nero che, aperto che fu l’involto, fuggì miagolando infuriato, e due uova, ormai rotte e viscide, che a tutti parvero sangue, o bile gialla, o altra sostanza immonda. Salvatore stava per entrare in cucina, ammazzare il gatto e cavargli gli occhi, e chissà con quali promesse aveva indotto la ragazza a seguirlo. Con quali promesse, lo seppi subito. Gli arcieri frugarono la ragazza, tra risate maliziose e mezze parole lascive, e le trovarono addosso un galletto morto, ancora da spennare. Sfortuna volle che nella notte, in cui tutti i gatti sono grigi, il gallo apparisse nero anch’esso come il gatto. Io pensai, invece, che non ci voleva di più per attrarla, la povera affamata che già la notte scorsa aveva abbandonato (e per amor mio!) il suo prezioso cuore di bue...

« Ah ah! » esclamò Bernardo con tono di gran preoccupazione, « gatto e gallo nero... Ma io li conosco questi parafernali... » Scorse Guglielmo tra gli astanti: « Non li conoscete anche voi, frate Guglielmo? Non foste inquisitore a Kilkenny, tre anni fa, dove quella ragazza aveva commercio con un demone che le appariva sotto le specie di un gatto nero? »

Mi parve che il mio maestro tacesse per viltà. Gli afferrai la manica, lo scossi, gli sussurrai disperato: « Ma ditegli che era per mangiare... »

Egli si liberò dalla mia presa e si rivolse educatamente a Bernardo: « Non credo voi abbiate bisogno delle mie antiche esperienze per arrivare alle vostre conclusioni, » disse.

« Oh no, ci sono testimonianze ben più autorevoli, » sorrise Bernardo. « Stefano di Borbone racconta nel suo trattato sui sette doni dello spirito santo come san Domenico, dopo aver predicato a Fanjeaux contro gli eretici, annunciò a certe donne che esse avrebbero visto chi avevano servito sino ad allora. E di colpo balzò in mezzo a loro un gatto spaventoso dalle dimensioni di un grosso cane, con gli occhi grandi e infocati, la lingua sanguinolenta che arrivava sino all’ombelico, la coda corta e ritta in aria in modo che comunque l’animale si girasse mostrava la turpitudine del suo di dietro, fetido quanti altri mai, come si conviene a quell’ano che molti devoti di Satana, non ultimi i cavalieri templari, hanno sempre usato baciare nel corso delle loro riunioni. E dopo aver girato intorno alle donne per un’ora, il gatto balzò sulla corda della campana e vi si arrampicò, lasciando indietro i suoi resti puteolenti. E non è il gatto l’animale amato dai catari, che secondo Alano delle Isole si chiamano così proprio da ’catus’, perché di questa bestia baciano le terga ritenendole incarnazione di Lucifero? E non conferma questa disgustosa pratica anche Guglielmo d’Alvernia nel ’De legibus’? E non dice Alberto Magno che i gatti sono demoni in potenza? E non riporta il mio venerabile confratello Jacques Fournier che sul letto di morte dell’inquisitore Gaufrido da Carcassonne apparvero due gatti neri, che altro non erano che demoni che volevano dileggiare quelle spoglie? »

Un mormorio di orrore percorse il gruppo dei monaci, molti dei quali si fecero il segno della santa croce.

« Signor Abate, signor Abate, » diceva frattanto Bernardo con aria virtuosa, « forse la magnificenza vostra non sa cosa sono usi fare i peccatori con questi strumenti! Ma lo so ben io, Dio non volesse! Ho visto donne scelleratissime, nelle ore più buie della notte, insieme con altre della loro risma, usare di gatti neri per ottenere prodigi che non poterono mai negare: così da andare a cavalcioni di certi animali, e percorrere col favore notturno spazi immensi, trascinando i loro schiavi, trasformati in incubi vogliosissimi... E il diavolo stesso si mostra loro, o almeno loro lo credono fortemente, sotto forma di gallo, o di altro animale nerissimo, e con quello persino, non domandatemi come, congiacciono. E so di certo che con negromanzie del genere, non è molto, proprio in Avignone, si prepararono filtri e unguenti per attentare alla vita dello stesso signor papa, avvelenandogli i cibi. Il papa poté difendersene e individuare il tossico solo perché era munito di prodigiosi gioielli in forma di lingua di serpente, fortificati da mirabili smeraldi e rubini che per virtù divina servivano a rivelare la presenza di veleno nei cibi! Undici gliene aveva regalate il re di Francia, di queste lingue preziosissime, grazie al cielo, e solo così il nostro signor papa poté scampare alla morte! E’ vero che i nemici del pontefice fecero anche di più, e tutti sanno cosa si scoprì dell’eretico Bernard Délicieux arrestato dieci anni fa: gli furono trovati in casa libri di magìa nera annotati proprio alle pagine più scellerate, con tutte le istruzioni per costruire figure di cera onde recar danno ai suoi nemici. E ci credereste, in casa gli furono pure trovate figure che riproducevano, con arte certo ammirevole, l’immagine stessa del papa, con circoletti rossi sulle parti vitali del corpo: e tutti sanno che tali figure, tenute appese per una corda, le si pone davanti a uno specchio e poi si colpiscono i circoli vitali con degli spilli e... Oh, ma perché mi attardo in queste miserie disgustose? Il papa stesso ne ha parlato e le ha descritte, condannandole, proprio l’anno scorso, nella sua costituzione ’Super illius specula’! E spero proprio che ne abbiate copia in questa vostra ricca biblioteca, per meditarvi come si deve... »

« L’abbiamo, l’abbiamo, » confermò fervidamente l’Abate, turbatissimo.

« Va bene, » concluse Bernardo. « Ormai il fatto mi pare chiaro. Un monaco sedotto, una strega, e qualche rito che per fortuna non ha avuto luogo. A quali fini? E’ quel che sapremo, e voglio sottrarre alcune ore al sonno per saperlo. La vostra magnificenza voglia mettermi a disposizione un luogo dove quest’uomo possa essere custodito... »

1   ...   25   26   27   28   29   30   31   32   ...   88


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət