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Il nome della rosa


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« Ubertino era un suo monaco e non era accusato di nulla. E poi che sciocchezze mi dici, Ubertino era una persona importante, Bernardo avrebbe potuto colpirlo solo alle spalle. »

« Così il cellario aveva ragione, i semplici pagano sempre per tutti, anche per coloro che parlano in loro favore, anche per coloro come Ubertino e Michele, che con le loro parole di penitenza li hanno spinti alla rivolta! » Ero disperato, e non consideravo neppure che la ragazza non era un fraticello, sedotto dalla mistica di Ubertino. Però era una contadina, e pagava per una storia che non la riguardava.

« Così è, » mi rispose tristemente Guglielmo. « E se proprio cerchi uno spiraglio di giustizia, ti dirò che un giorno i grossi cani, il papa e l’imperatore, per fare pace passeranno sopra il corpo dei cani più piccoli che si sono azzuffati al loro servizio. E Michele o Ubertino saranno trattati come oggi viene trattata la tua ragazza. »

Ora so che Guglielmo profetava, ovvero sillogizzava in base a principi di filosofia naturale. Ma in quel momento le sue profezie e i suoi sillogismi non mi consolarono per nulla. L’unica cosa certa era che la fanciulla sarebbe stata bruciata. E mi sentivo corresponsabile, perché era come se sul rogo ella espiasse anche per il peccato che io avevo commesso con lei.

Scoppiai inverecondamente in singhiozzi e fuggii nella mia cella, dove per tutta la notte morsi il pagliericcio e mugolai impotente, perché non mi era neppure concesso — come avevo letto nei romanzi cavallereschi coi miei compagni a Melk — di lamentarmi invocando il nome dell’amata.

Dell’unico amore terreno della mia vita non sapevo, e non seppi mai, il nome.

SESTO GIORNO.


Mattutino.

Dove i principi sederunt, e Malachia stramazza al suolo.


Scendemmo al mattutino. Quell’ultima parte della notte, quasi la prima del nuovo giorno imminente, era ancora nebbiosa. Mentre attraversavo il chiostro l’umidità mi penetrava sino in fondo alle ossa, peste per il sonno inquieto. Benché la chiesa fosse fredda, fu con un sospiro di sollievo che mi inginocchiai sotto quelle volte, al riparo dagli elementi, confortato dal calore degli altri corpi, e della preghiera.

Il canto dei salmi era iniziato da poco, quando Guglielmo mi indicò un posto vuoto negli stalli di fronte a noi, tra Jorge e Pacifico da Tivoli. Era il posto di Malachia, che infatti sedeva sempre di fianco al cieco. Né eravamo gli unici a esserci accorti di quell’assenza. Da un lato sorpresi uno sguardo preoccupato dell’Abate, che certo ormai ben sapeva come quelle mancanze fossero foriere di cupe notizie. E dall’altro mi avvidi di una singolare inquietudine che agitava il vecchio Jorge. Il suo volto, di solito così indecifrabile per quei suoi occhi bianchi privi di luce, era immerso per tre quarti nell’ombra, ma nervose e irrequiete erano le sue mani. Infatti più volte tastò il posto al suo fianco, come per controllare se fosse occupato. Faceva e rifaceva il gesto a intervalli regolari, come sperando che l’assente ricomparisse da un momento all’altro, ma temesse di non vederlo ricomparire.

« Dove sarà il bibliotecario? » sussurrai a Guglielmo.

« Malachia, » rispose Guglielmo, « era ormai l’unico ad avere nelle sue mani il libro. Se non è lui il colpevole dei delitti, allora potrebbe non conoscere i pericoli che quel libro comportava... »

Non c’era altro da dire. Si doveva solo attendere. E attendemmo, noi, l’Abate che continuava a fissare lo stallo vuoto, Jorge che non cessava di interrogare il buio con le mani.

Quando si giunse alla fine dell’ufficio, l’Abate ricordò ai monaci e ai novizi che occorreva prepararsi alla grande messa natalizia e che perciò, come d’uso, si sarebbe impiegato il tempo prima di laudi provando l’affiatamento dell’intera comunità nell’esecuzione di alcuni dei canti previsti per quella occasione. Quella schiera di uomini devoti era in effetti armonizzata come un solo corpo e una sola voce, e da un volgere lungo di anni si riconosceva unita, come un’anima sola, nel canto.

L’Abate invitò a intonare il « Sederunt »:
Sederunt principes

et adversus me

loquebantur, iniqui.

Persecuti sunt me.

Adjuva me, Domine,

Deus meus salvum me

fac propter magnam misericordiam tuam.
Mi chiesi se l’Abate non avesse scelto di far cantare quel graduale proprio quella notte, quando ancora erano presenti alla funzione gli inviati dei principi, per ricordare come da secoli il nostro ordine fosse pronto a resistere alla persecuzione dei potenti, grazie al suo privilegiato rapporto col Signore, Dio degli eserciti. E invero l’inizio del canto diede una grande impressione di potenza.

Sulla prima sillaba « se » iniziò un coro lento e solenne di decine e decine di voci, il cui suono basso riempì le navate e aleggiò sopra le nostre teste, e tuttavia sembrava sorgere dal cuore della terra. Né s’interruppe, perché mentre altre voci incominciavano a tessere, su quella linea profonda e continua, una serie di vocalizzi e melismi, esso — tellurico — continuava a dominare e non cessò per il tempo intero che occorre a un recitante dalla voce cadenzata e lenta per ripetere dodici volte l’"Ave Maria ». E quasi sciolte da ogni timore, per la fiducia che quell’ostinata sillaba, allegoria della durata eterna, dava agli oranti, le altre voci (e massime quelle dei novizi) su quella base petrosa e solida innalzavano cuspidi, colonne, pinnacoli di neumi liquescenti e subpuntati. E mentre il mio cuore stordiva di dolcezza al vibrare di un climacus o di un porrectus, di un torculus o di un salicus, quelle voci parevano dirmi che l’anima (degli oranti e mia che li ascoltavo), non potendo reggere alla esuberanza del sentimento, attraverso di essi si lacerava per esprimere la gioia, il dolore, la lode, l’amore, con slancio di sonorità soavi. Intanto, l’ostinato accanirsi delle voci ctonie non demordeva, come se la presenza minacciosa dei nemici, dei potenti che perseguitavano il popolo del Signore, permanesse irrisolta. Sino a che quel nettunico tumultuare di una sola nota parve vinto, o almeno convinto e avvinto dal giubilo allelujatico di chi vi si opponeva, e si sciolse su di un maestoso e perfettissimo accordo e su un neuma resupino.

Pronunciato con fatica quasi ottusa il « sederunt », s’innalzò nell’aria il « principes », in una grande e serafica calma. Non mi domandai più chi fossero i potenti che parlavano contro di me (di noi), era scomparsa, dissolta l’ombra di quel fantasma sedente e incombente.

E altri fantasmi, credetti allora, si dissolsero a quel punto perché riguardando lo stallo di Malachia, dopo che la mia attenzione era stata assorbita dal canto, vidi la figura del bibliotecario tra quella degli altri oranti, come se mai fosse mancato. Guardai Guglielmo e vidi una sfumatura di sollievo nei suoi occhi, la stessa che scorsi da lontano negli occhi dell’Abate. Quanto a Jorge, aveva di nuovo teso le mani e, incontrando il corpo del suo vicino, le aveva prontamente ritratte. Ma di lui non saprei dire quali sentimenti lo agitassero.

Ora il coro stava intonando festosamente lo « adjuva me », di cui la « a » chiara lietamente si espandeva per la chiesa, e la stessa « u » non appariva cupa come quella di « sederunt », ma piena di santa energia. I monaci e i novizi cantavano, come vuole la regola del canto, col corpo diritto, la gola libera, la testa che guarda in alto, il libro quasi all’altezza delle spalle in modo che vi si possa leggere senza che, abbassando il capo, l’aria esca con minore energia dal petto. Ma l’ora era ancora notturna e, malgrado squillassero le trombe della giubilazione, la caligine del sonno insidiava molti dei cantori i quali, persi magari nell’emissione di una lunga nota, fiduciosi nell’onda stessa del cantico, a volte reclinavano il capo, tentati dalla sonnolenza. Allora i veglianti, anche in quel frangente, ne esploravano i volti col lume, a uno a uno, per ricondurli appunto alla veglia, del corpo e dell’anima.
Fu dunque per primo un vegliante che scorse Malachia ciondolare in modo strano, oscillare come se di colpo fosse ripiombato nelle nebbie cimmerie di un sonno che probabilmente quella notte non aveva dormito. Gli si appressò con la lampada, illuminandogli il volto e attirando così la mia attenzione. Il bibliotecario non reagì. Il vegliante lo toccò, e quello cadde pesantemente in avanti. Il vegliante fece appena in tempo a sostenerlo prima che esso precipitasse.

Il canto rallentò, le voci si spensero, ci fu un breve trambusto. Guglielmo era subito scattato dal suo posto e si era precipitato là dove ormai Pacifico da Tivoli e il vegliante stavano distendendo per terra Malachia, esanime.

Li raggiungemmo quasi insieme all’Abate, e alla luce della lampada vedemmo il volto dell’infelice. Ho già descritto l’aspetto di Malachia, ma quella notte, a quella luce, esso era ormai l’immagine stessa della morte. Il naso affilato, gli occhi cavi, le tempie infossate, le orecchie bianche e contratte coi lobi rivolti all’infuori, la pelle del viso era ormai rigida, tesa e secca, il colore delle gote giallastro e soffuso di un’ombra scura. Gli occhi erano ancora aperti e un faticoso respiro usciva da quelle labbra riarse. Aprì la bocca e, chinato dietro Guglielmo che si era chinato su di lui, vidi agitarsi nella chiostra dei denti una lingua ormai nerastra. Guglielmo lo sollevò abbracciandogli le spalle, con la mano gli terse un velo di sudore che gli illividiva la fronte. Malachia avvertì un tocco, una presenza, guardò fisso davanti a sé, certamente senza vedere, sicuramente senza riconoscere chi gli stava dinnanzi. Alzò una mano tremante, afferrò Guglielmo per il petto, traendone il viso sino quasi a toccare il suo, poi fiocamente e raucamente profferì alcune parole: « Me lo aveva detto... davvero... aveva il potere di mille scorpioni... »

« Chi te lo aveva detto? » gli chiese Guglielmo. « Chi? »

Malachia tentò ancora di parlare. Poi fu sconvolto da un gran tremito e il capo gli ricadde all’indietro. Il volto perse ogni colore, ogni parvenza di vita. Era morto.

Guglielmo si alzò. Scorse accanto a sé l’Abate, e non gli disse verbo. Poi vide, dietro all’Abate, Bernardo Gui.

« Signor Bernardo, » chiese Guglielmo, « chi ha ucciso costui, se voi avete così ben trovato e custodito gli assassini? »

« Non domandatelo a me, » disse Bernardo. « Non ho mai detto di aver assicurato alla giustizia tutti i malvagi che si aggirano per questa abbazia. Lo avrei fatto volentieri, se avessi potuto, » guardò Guglielmo. « Ma gli altri ora li lascio alla severità... o alla eccessiva indulgenza del signor Abate. » Disse, mentre l’Abate impallidiva tacendo. E si allontanò.

In quel mentre udimmo come un pigolare, un singhiozzo chioccio. Era Jorge, chino sul suo inginocchiatoio, sostenuto da un monaco che doveva avergli descritto l’accaduto.

« Non finirà mai... » disse con voce rotta. « Oh Signore, perdonaci tutti! »

Guglielmo si chinò ancora un momento sul cadavere. Gli afferrò i polsi, volgendogli verso la luce i palmi delle mani. I polpastrelli delle prime tre dita della mano destra erano scuri.

Laudi.


Dove viene eletto un nuovo cellario ma non un nuovo bibliotecario.
Era già l’ora di laudi? Era più presto o più tardi? Da quel punto in avanti persi il senso del tempo. Passarono forse delle ore, forse meno, in cui il corpo di Malachia fu disteso in chiesa su di un catafalco, mentre i confratelli si disponevano a ventaglio. L’Abate dava disposizioni per le prossime esequie. Lo udii chiamare a sé Bencio e Nicola da Morimondo. Nel giro di meno di un giorno, disse, l’abbazia era stata privata del bibliotecario e del cellario. « Tu, » disse a Nicola, « assumerai le funzioni di Remigio. Conosci il lavoro di molti, qui all’abbazia. Poni qualcuno in tua vece a guardia delle fucine, provvedi alle necessità immediate di oggi, in cucina, in refettorio. Sei esentato dagli uffici. Vai. » Poi, a Bencio: « Proprio ieri sera eri stato nominato aiuto di Malachia. Provvedi all’apertura dello scriptorium e sorveglia che nessuno salga da solo in biblioteca. » Bencio fece timidamente osservare che non era stato ancora iniziato ai segreti di quel luogo. L’Abate lo fissò con severità: « Nessuno ha detto che lo sarai. Tu sorveglia che il lavoro non si arresti e venga vissuto come preghiera per i fratelli morti... e per coloro che ancora morranno. Ciascuno lavorerà solo sui libri che ha già in consegna, chi vuole potrà consultare il catalogo. Niente altro. Sei esentato dai vespri perché a quell’ora chiuderai tutto. »

« E come uscirò? » domandò Bencio.

« E’ vero, chiuderò io le porte di sotto dopo la cena. Vai. »

Uscì con loro, evitando Guglielmo che cercava di parlargli. Nel coro restavano, in piccolo gruppo, Alinardo, Pacifico da Tivoli, Aymaro d’Alessandria e Pietro da Sant’Albano. Aymaro sogghignava.

« Ringraziamo il Signore, » disse. « Morto il tedesco c’era il rischio che avessimo un nuovo bibliotecario più barbaro ancora. »

« Chi pensate verrà nominato al suo posto? » chiese Guglielmo.

Pietro da Sant’Albano sorrise in modo enigmatico: « Dopo tutto quello che è accaduto in questi giorni, il problema non è più il bibliotecario, bensì l’Abate... »

« Taci, » gli disse Pacifico. E Alinardo, sempre col suo sguardo assorto: « Commetteranno un’altra ingiustizia... come ai miei tempi. Bisogna fermarli. »

« Chi? » chiese Guglielmo. Pacifico lo prese confidenzialmente per il braccio e lo accompagnò lontano dal vegliardo, verso la porta.

« Alinardo... tu lo sai, lo amiamo molto, rappresenta per noi la antica tradizione e i giorni migliori dell’abbazia... Ma talora parla senza sapere cosa dice. Noi tutti siamo preoccupati per il nuovo bibliotecario. Dovrà essere degno, e maturo, e saggio... Ecco tutto. »

« Dovrà conoscere il greco? » domandò Guglielmo.

« E l’arabo, così vuole la tradizione, così esige il suo ufficio. Ma ci sono molti tra noi con queste doti. Io, umilmente, e Pietro, e Aymaro... »

« Bencio sa il greco. »

« Bencio è troppo giovane. Non so perché Malachia lo abbia scelto ieri come suo aiuto, ma... »

« Adelmo conosceva il greco? »

« Credo di no. Anzi no senz’altro. »

« Ma lo conosceva Venanzio. E Berengario. Va bene, ti ringrazio.

Uscimmo per andare a prendere qualcosa in cucina.

« Perché volevate sapere chi conoscesse il greco? » chiesi.

« Perché tutti coloro che muoiono con le dita nere conoscono il greco. Quindi non sarà male attendere il prossimo cadavere tra coloro che sanno il greco. Me compreso. Tu sei salvo. »

« E cosa pensate delle ultime parole di Malachia? »

« Le hai sentite. Gli scorpioni. La quinta tromba annuncia tra l’altro l’uscita delle locuste che tormenteranno gli uomini con un aculeo simile a scorpione, lo sai. E Malachia ci ha fatto sapere che qualcuno glielo aveva preannunciato. »

« La sesta tromba, » dissi, « annuncia cavalli con teste di leoni dalla cui bocca esce fumo e fuoco e zolfo, montati da uomini coperti di corazze color fuoco, giacinto e zolfo. »

« Troppe cose. Ma il prossimo delitto potrebbe avvenire presso le stalle dei cavalli. Bisognerà tenerle d’occhio. E prepariamoci al settimo squillo. Ancora due persone, dunque. Chi sono i candidati più probabili? Se l’obiettivo è il segreto del finis Africae, coloro che lo conoscono. E a mia scienza esiste solo l’Abate. A meno che la trama non sia ancora un’altra. Hai udito poco fa, si stava complottando per deporre l’Abate, ma Alinardo ha parlato al plurale... »

« Bisognerà prevenire l’Abate, » dissi.

« Di cosa? Che lo ammazzeranno? Non ho prove convincenti. Io procedo come se l’assassino ragionasse come me. Ma se seguisse un altro disegno? E se, soprattutto, non ci fosse un assassino? »

« Cosa intendete dire? »

« Non lo so esattamente. Ma come ti ho detto, bisogna immaginare tutti gli ordini possibili, e tutti i disordini.

Prima.

Dove Nicola racconta tante cose, mentre si visita la cripta del tesoro.


Nicola da Morimondo, nelle sue nuove vesti di cellario, stava dando disposizioni ai cuochi, e quelli stavano dando a lui informazioni sugli usi della cucina. Guglielmo voleva parlargli, ed egli ci chiese di attendere qualche minuto. Poi, disse, avrebbe dovuto scendere nella cripta del tesoro a sorvegliare il lavoro di pulitura delle teche, che ancora gli competeva, e lì avrebbe avuto più tempo di conversare.

Dopo poco infatti ci invitò a seguirlo, entrò in chiesa, passò dietro l’altar maggiore (mentre i monaci stavano disponendo un catafalco nella navata, per vegliare la salma di Malachia), e ci fece discendere una scaletta, ai piedi della quale ci trovammo in una sala dalle volte molto basse sostenute da grossi pilastri di pietra non lavorata. Eravamo nella cripta in cui si custodivano le ricchezze dell’abbazia, luogo di cui l’Abate era molto geloso e che si apriva solo in circostanze eccezionali e per ospiti di molto riguardo.

Tutto intorno stavano teche di grandezza disuguale, all’interno delle quali la luce delle torce (accese da due fidati aiutanti di Nicola) faceva risplendere oggetti di meravigliosa bellezza. Paramenti dorati, corone auree tempestate di gemme, scrigni di vari metalli istoriati con figure, lavori di niello, avori. Nicola ci mostrò estasiato un evangeliario la cui rilegatura ostentava mirabili placche di smalto che componevano una variegata unità di regolati scomparti, divisi da filigrane d’oro e fissati, a mo’ di chiodi, da pietre preziose. Ci indicò una delicata edicola con due colonne in lapislazzuli e oro che inquadravano una deposizione dal sepolcro raffigurata in sottile bassorilievo d’argento sormontata da una croce aurea tempestata di tredici diamanti su di uno sfondo di onice variegato, mentre il piccolo frontone era centinato in agata e rubini. Poi vidi un dittico criselefantino diviso in cinque parti, con cinque scene della vita di Cristo, e al centro un mistico agnello composto da alveoli di argento dorato con paste di vetro, unica immagine policroma su di uno sfondo di cerea bianchezza.

Il volto, i gesti di Nicola, mentre ci indicava quelle cose, erano illuminati dall’orgoglio. Guglielmo lodò le cose che aveva visto, poi domandò a Nicola che tipo mai fosse Malachia.

« Strana domanda, » disse Nicola, « lo conoscevi anche tu. »

« Sì, ma non abbastanza. Non ho mai capito quali pensieri celasse... e... » esitò a pronunziar giudizi su uno da poco scomparso « ... e se ne avesse. »

Nicola si inumidì un dito, lo passò su una superficie di cristallo non perfettamente tersa, e rispose con un mezzo sorriso, senza guardare in viso Guglielmo: « Vedi che non hai bisogno di fare domande... E’ vero, a detta di molti Malachia sembrava assai pensoso, ma era invece un uomo molto semplice. Secondo Alinardo era uno sciocco. »

« Alinardo serba rancore a qualcuno per un avvenimento lontano, quando gli era stata negata la dignità di bibliotecario. »

« Ne ho sentito parlare anche io, ma si tratta di una storia vecchia, risale ad almeno cinquant’anni fa. Quando io arrivai qui era bibliotecario Roberto da Bobbio, e i vecchi mormoravano di una ingiustizia commessa ai danni di Alinardo. Allora non volli approfondire, perché mi pareva mancare di rispetto ai più anziani e non volevo indulgere a mormorazioni. Roberto aveva un aiutante, che poi morì, e al suo posto venne nominato Malachia, ancora molto giovane. Molti dissero che non aveva alcun merito, che asseriva di sapere il greco e l’arabo e non era vero, era solo una brava scimmia che copiava in bella calligrafia i manoscritti in quelle lingue, ma senza capire cosa copiasse. Si diceva che un bibliotecario deve essere assai più dotto. Alinardo, che allora era ancora un uomo pieno di forza, disse cose amarissime su quella nomina. E insinuò che Malachia era stato messo a quel posto per fare il gioco del suo nemico, ma non capii di chi parlasse. Ecco tutto. Si è sempre sussurrato che Malachia difendesse la biblioteca come un cane da guardia, ma senza capire bene cosa custodisse. D’altra parte si mormorò anche contro Berengario, quando Malachia lo scelse come suo aiutante. Si diceva che anche lui non fosse più abile del suo maestro, che fosse solo un intrigante. Si disse anche... Ma ormai avrai udito anche tu queste mormorazioni... che ci fosse uno strano rapporto tra Malachia e lui... Cose vecchie, poi sai che si mormorò di Berengario e di Adelmo, e gli scrivani giovani dicevano che Malachia soffriva in silenzio di un’atroce gelosia... E poi si mormorava anche dei rapporti tra Malachia e Jorge, no, non nel senso che puoi credere... nessuno ha mai mormorato sulla virtù di Jorge! Ma Malachia, come bibliotecario, per tradizione, aveva dovuto eleggere l’Abate come suo confessore, mentre tutti gli altri si confessano da Jorge (o da Alinardo, ma il vecchio è ormai pressoché demente)... Ebbene, si diceva che malgrado questo Malachia confabulava troppo spesso con Jorge, come se l’Abate dirigesse la sua anima, ma Jorge regolasse il suo corpo, i suoi gesti, il suo lavoro. D’altra parte lo sai, lo hai visto, probabilmente: se qualcuno voleva una indicazione su un libro antico e dimenticato, non la chiedeva a Malachia, ma a Jorge. Malachia custodiva il catalogo e saliva in biblioteca, ma Jorge sapeva cosa significasse ciascun titolo... »

« Perché Jorge sapeva tante cose sulla biblioteca? »

« Era il più anziano, dopo Alinardo, è qui sin dalla sua giovinezza. Jorge deve avere più di ottant’anni, si dice sia cieco da almeno quarant’anni e forse più...

« Come ha fatto a diventare così sapiente prima della cecità? »

« Oh, ci sono delle leggende su di lui. Pare che già fanciullo fosse toccato dalla grazia divina e laggiù in Castiglia leggesse i libri degli arabi e dei dottori greci ancora impubere. E poi anche dopo la cecità, anche ora, siede lunghe ore in biblioteca, si fa recitare il catalogo, si fa portare dei libri e un novizio gli legge ad alta voce per ore e ore. Egli ricorda tutto, non è smemorato come Alinardo. Ma perché mi chiedi tutte queste cose? »

« Ora che Malachia e Berengario sono morti, chi è rimasto a possedere i segreti della biblioteca? »

« L’Abate, e l’Abate dovrà ora trasmetterli a Bencio... se vorrà... »

« Perché se vorrà? »

« Perché Bencio è giovane, è stato nominato aiuto quando Malachia era ancora vivo, è diverso essere aiuto bibliotecario e bibliotecario. Per tradizione il bibliotecario diventa poi Abate... »

« Ah, è così... Per questo il posto di bibliotecario è così ambito. Ma allora Abbone è stato bibliotecario? »

« No, Abbone no. La sua nomina avvenne prima che io arrivassi qui, saranno ora trent’anni. Prima era abate Paolo da Rimini, un uomo curioso di cui si raccontano strane storie: pare che fosse un lettore voracissimo, conosceva a memoria tutti i libri della biblioteca, ma aveva una strana infermità, non riusciva a scrivere, lo chiamavano Abbas agraphicus... Divenne abate giovanissimo, si diceva che avesse l’appoggio di Algirdas da Cluny, il Doctor Quadratus... Ma queste sono vecchie chiacchiere dei monaci. Insomma, Paolo divenne abate, Roberto da Bobbio prese il suo posto in biblioteca, ma era minato da un male che lo consumava, si sapeva che non avrebbe potuto reggere le sorti dell’abbazia, e quando Paolo da Rimini scomparve... »

« Morì? »

« No, scomparve, non so come, un giorno partì per un viaggio e non tornò più, forse fu ucciso dai ladroni nel corso del viaggio... insomma, quando Paolo scomparve, Roberto non poteva prendere il suo posto e ci furono delle trame oscure. Abbone — si dice — era figlio naturale del signore di questa plaga, era cresciuto nell’abbazia di Fossanova, si diceva che giovinetto avesse assistito san Tommaso quando morì laggiù e avesse curato il trasporto di quel gran corpo giù per la scala di una torre da dove il cadavere non riusciva a passare... quella era la sua gloria, mormoravano i maligni quaggiù... Fatto è che fu eletto abate, anche se non era stato bibliotecario, e fu istruito da qualcuno, credo Roberto, ai misteri della biblioteca. »

« E Roberto perché fu eletto? »

« Non lo so. Ho sempre cercato di non investigare troppo su queste cose: le nostre abbazie sono luoghi santi, ma intorno alla dignità abbaziale vengono intessute, talvolta, orribili trame. Io ero interessato ai miei vetri e ai miei reliquiari, non volevo essere mescolato a queste storie. Ma capisci ora perché non so se l’Abate voglia istruire Bencio, sarebbe come designarlo suo successore, un ragazzo sconsiderato, un grammatico quasi barbaro, dell’estremo nord, come potrebbe saperne di questo paese, dell’abbazia e dei suoi rapporti coi signori del luogo... »

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