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Il nome della rosa


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Poi si voltò a considerare il cadavere. Parve che solo allora si rendesse conto della morte del suo amico. « Povero Severino, » disse, « avevo sospettato anche di te e dei tuoi veleni. E tu ti attendevi l’insidia di un veleno, altrimenti non avresti indossato quei guanti. Temevi un pericolo dalla terra e invece ti è giunto dalla volta celeste... » Riprese in mano la sfera osservandola con attenzione. « Chissà perché hanno usato proprio quest’arma...

« Era a portata di mano. »

« Può essere. C’erano anche altre cose, vasi, strumenti da giardiniere... E’ un bell’esempio di arte dei metalli e di scienza astronomica. Si è rovinato e... Santo cielo! » esclamò.

« Cosa c’è? »

« E fu colpita la terza parte del sole e la terza parte della luna e la terza parte delle stelle... » recitò.

Conoscevo troppo bene il testo di Giovanni apostolo: « La quarta tromba! » esclamai.

« Infatti. Prima la grandine, poi il sangue, poi l’acqua e ora le stelle... Se è così tutto deve essere rivisto, l’assassino non ha colpito a caso, ha seguito un piano... Ma è mai possibile immaginare una mente così malvagia che uccida solo quando può farlo seguendo i dettami del libro dell’Apocalisse? « 

« Cosa accadrà con la quinta tromba? » domandai atterrito. Cercai di ricordare: « E vidi un astro caduto dal cielo sulla terra e a lui fu data la chiave del pozzo dell’abisso... Morirà qualcuno annegando nel pozzo? »

« La quinta tromba ci promette molte altre cose, » disse Guglielmo. « Dal pozzo uscirà il fumo di una fornace, poi ne usciranno delle locuste che tormenteranno gli uomini con un aculeo simile a quello degli scorpioni. E la forma delle locuste sarà simile a quella di cavalli con corone d’oro sul capo e denti di leone... Il nostro uomo avrebbe a disposizione vari mezzi per realizzare le parole del libro... Ma non inseguiamo delle fantasticherie. Cerchiamo piuttosto di ricordare cosa ci ha detto Severino quando ci ha annunziato di aver trovato il libro... »

« Voi gli avete detto di portarvelo e lui ha detto che non poteva... »

« Infatti, poi siamo stati interrotti. Perché non poteva? Un libro si può trasportare. E perché si è messo i guanti? C’è qualcosa nella rilegatura del libro connesso al veleno che ha ucciso Berengario e Venanzio? Una insidia misteriosa, una punta infetta... »

« Un serpente! » dissi.

« Perché non una balena? No, stiamo ancora fantasticando. Il veleno, lo abbiamo visto, dovrebbe passare per la bocca. Poi non è che Severino abbia detto che non poteva trasportare il libro. Ha detto che preferiva farmelo vedere qui. E si è messo i guanti... Per intanto sappiamo che quel libro va toccato con i guanti. E questo vale anche per te Bencio, se lo troverai come speri. E visto che sei così servizievole, puoi aiutarmi. Risali allo scriptorium e tieni d’occhio Malachia. Non perderlo di vista. »

« Sarà fatto! » disse Bencio, e uscì, lieto, ci parve, per la missione.

Non potemmo più trattenere a lungo gli altri monaci e la stanza fu invasa di gente. Era ormai trascorsa l’ora del desinare e probabilmente Bernardo stava già radunando nel capitolo la sua corte.

« Qui non c’è più nulla da fare, » disse Guglielmo.

Un’idea mi attraversò la mente: « L’assassino, » dissi, « non potrebbe aver gettato il libro dalla finestra per poi andarlo a riprendere sul retro dell’ospedale? » Guglielmo guardò con scetticismo i finestroni del laboratorio, che parevano ermeticamente chiusi. « Proviamo a controllare, » disse.

Uscimmo e ispezionammo il lato posteriore della costruzione, che stava quasi a ridosso del muro di cinta, non senza lasciare uno stretto passaggio. Guglielmo procedette con cautela perché in quello spazio la neve dei giorni scorsi si era conservata intatta. I nostri passi imprimevano sulla crosta gelata, ma fragile, dei segni evidenti, e dunque se qualcuno fosse passato prima di noi la neve ce lo avrebbe segnalato. Non vedemmo nulla.

Abbandonammo con l’ospedale la mia povera ipotesi, e mentre attraversavamo l’orto domandai a Guglielmo se si fidava davvero di Bencio. « Non del tutto, » disse Guglielmo, « ma in ogni caso non gli abbiamo detto nulla che già non sapesse, e lo abbiamo reso timoroso nei confronti del libro. Infine facendogli sorvegliare Malachia facciamo anche sorvegliare lui da Malachia, il quale sta evidentemente cercando il libro per conto proprio. »

« E il cellario cosa voleva? »

« Lo sapremo presto. Certo voleva qualcosa e lo voleva subito per evitare un pericolo che lo terrorizzava. Questo qualcosa deve essere noto a Malachia, altrimenti non spiegheremmo l’invocazione disperata che Remigio gli ha rivolto... »

« In ogni caso il libro è scomparso... »

« Questa è la cosa più inverosimile, » disse Guglielmo mentre già stavamo arrivando al capitolo. « Se c’era, e Severino ha detto che c’era, o è stato portato via, o c’è ancora. »

« E siccome non c’è, qualcuno lo ha portato via, » conclusi.

« Non è detto che il ragionamento non vada fatto partendo da un’altra premessa minore. Siccome tutto conferma che nessuno può averlo portato via... »

« Allora dovrebbe essere ancora là. Ma non c’è. »

« Un momento. Noi diciamo che non c’era perché non lo abbiamo trovato. Ma forse non lo abbiamo trovato perché non lo abbiamo visto là dov’era. »

« Ma abbiamo guardato dappertutto! »

« Guardato ma non visto. Oppure visto ma non riconosciuto... Adso, com’è che Severino ci ha descritto quel libro, che parole ha usato? »

« Ha detto di aver trovato un libro che non era dei suoi, in greco... »

« No! Ora ricordo. Ha detto uno ’strano’ libro. Severino era un dotto e per un dotto un libro in greco non è strano, anche se quel dotto non sa il greco, perché almeno riconoscerebbe l’alfabeto. E un dotto non definirebbe strano neppure un libro in arabo, anche se non conosce l’arabo... » Si interruppe. « E cosa ci faceva un libro arabo nel laboratorio di Severino? »

« Ma perché avrebbe dovuto definire strano un libro arabo. »

« Questo è il problema. Se lo ha definito strano è perché aveva un aspetto inconsueto, inconsueto almeno per lui, che faceva l’erborista e non il bibliotecario... E nelle biblioteche accade che molti manoscritti antichi vengano talora rilegati insieme, riunendo in un volume testi diversi e curiosi, uno in greco, uno in aramaico... »

« ... e uno in arabo! » gridai, folgorato da quella illuminazione.

Guglielmo mi trascinò con rudezza fuori dal nartece facendomi correre verso l’ospedale: « Bestia di un teutone, rapa, ignorante, hai guardato solo le prime pagine e non il resto! »

« Ma maestro, » ansimavo, « siete voi che avete guardato le pagine che vi ho mostrato e avete detto che era arabo e non greco! »

« E’ vero Adso, è vero, sono io la bestia, corri, presto! »

Ritornammo nel laboratorio e faticammo a entrarvi perché i novizi stavano già trasportando fuori il cadavere. Altri curiosi si aggiravano per la stanza. Guglielmo si precipitò sul tavolo, sollevò i volumi cercando quello fatidico, li buttava via via per terra sotto gli occhi sbigottiti degli astanti, poi li aprì e riaprì tutti due volte. Ahimè, il manoscritto arabo non c’era più. Me ne ricordavo vagamente la vecchia copertura, non robusta, assai consunta, con leggere bande metalliche.

« Chi è entrato qui dopo che sono uscito? » domandò Guglielmo a un monaco. Quello si strinse nelle spalle, era chiaro che erano entrati tutti, e nessuno.

Cercammo di considerare le possibilità. Malachia? Era verosimile, sapeva cosa voleva, ci aveva forse sorvegliato, ci aveva visto uscire senza nulla in mano, era tornato a colpo sicuro. Bencio? Ricordai che quando c’era stato il battibecco sul testo arabo aveva riso. Allora avevo creduto che avesse riso per la mia ignoranza, ma forse rideva per l’ingenuità di Guglielmo, lui sapeva bene in quanti modi può presentarsi un vecchio manoscritto, forse aveva pensato quello che noi non avevamo pensato subito, e che avremmo dovuto pensare, e cioè che Severino non conosceva l’arabo e che dunque era singolare che conservasse tra i suoi un libro che non poteva leggere. Oppure c’era un terzo personaggio?

Guglielmo era profondamente umiliato. Cercavo di consolarlo, gli dicevo che lui stava cercando da tre giorni un testo in greco ed era naturale che avesse scartato nel corso del suo esame tutti i libri che non apparivano in greco. E lui rispondeva che è certamente umano commettere errori, però ci sono degli esseri umani che ne commettono più degli altri, e vengono chiamati stolti, e lui era tra quelli, e si domandava se era valsa la pena di studiare a Parigi e a Oxford per essere poi incapace di pensare che i manoscritti si rilegano anche a gruppi, cosa che sanno anche i novizi, meno quelli stupidi come me, e una coppia di stupidi come noi due avrebbe avuto un bel successo nelle fiere, e quello dovevamo fare e non cercare di risolvere i misteri, specie quando avevamo di fronte gente molto più astuta di noi.

« Ma è inutile piangere, » concluse poi. « Se lo ha preso Malachia, lo ha già riposto in biblioteca. E lo ritroveremmo solo se sapessimo entrare nel finis Africae. Se lo ha preso Bencio, avrà immaginato che prima o poi io avrei avuto il sospetto che ho avuto e sarei tornato nel laboratorio, altrimenti non avrebbe agito così in fretta. E dunque si sarà nascosto e l’unico punto in cui non si è certo nascosto è quello in cui noi lo cercheremmo subito, e cioè la sua cella. Quindi torniamo al capitolo e vediamo se durante l’istruttoria il cellario dirà qualcosa di utile. Perché al postutto non ho ancora chiaro il piano di Bernardo; il quale cercava il suo uomo prima della morte di Severino, e per altri scopi. »

Tornammo al capitolo. Avremmo fatto bene ad andare nella cella di Bencio perché, come poi apprendemmo, il nostro giovane amico non aveva affatto in così grande stima Guglielmo e non aveva pensato che sarebbe tornato tanto presto nel laboratorio; per cui, credendo di non essere cercato da quella parte, era proprio andato a nascondere il libro nella sua cella.

Ma di questo dirò dopo. Nel frattempo avvennero fatti così drammatici e inquietanti da farci dimenticare il libro misterioso. E se pure non lo dimenticammo, fummo presi da altre bisogne urgenti, connesse alla missione di cui Guglielmo era pur sempre incaricato.

Nona.

Dove si amministra la giustizia e si ha la imbarazzante impressione che tutti abbiano torto.


Bernardo Gui si pose al centro del grande tavolo di noce nella sala del capitolo. Accanto a lui un domenicano svolgeva le funzioni di notaio e due prelati della legazione pontificia gli stavano a lato come giudici. Il cellario era in piedi davanti al tavolo, tra due arcieri.

L’Abate si rivolse a Guglielmo sussurrandogli: « Non so se la procedura sia legittima. Il concilio laterano del 1215 ha sancito nel suo canone trentasettesimo che non si possa citare qualcuno a comparire davanti a giudici che seggano a più di due giornate di marcia dal suo domicilio. Qui la situazione è forse diversa, è il giudice che viene da lontano, ma...

« L’inquisitore è sottratto a ogni giurisdizione regolare, » disse Guglielmo, « e non deve seguire le norme del diritto comune. Gode di speciale privilegio e non è neppure tenuto ad ascoltare gli avvocati. »

Guardai il cellario. Remigio era ridotto in uno stato miserevole. Si guardava intorno come una bestia spaurita, come se riconoscesse i movimenti e i gesti di una paventata liturgia. Ora so che temeva per due ragioni, altrettanto spaventevoli: l’una perché era stato colto, secondo ogni apparenza, in flagrante delitto, l’altra perché sin dal giorno prima, quando Bernardo aveva iniziato la sua inchiesta raccogliendo mormorazioni e insinuazioni, egli temeva che venissero alla luce i suoi trascorsi; e più ancora aveva iniziato ad agitarsi quando aveva visto prendere Salvatore.

Se lo sventurato Remigio era in preda ai propri terrori, Bernardo Gui conosceva dal canto proprio i modi per trasformare in panico la paura delle proprie vittime. Egli non parlava: mentre ormai tutti si attendevano che desse inizio all’interrogatorio, teneva le proprie mani sulle carte che aveva davanti, fingendo di riordinarle, ma distrattamente. Lo sguardo era invero puntato sull’accusato, ed era uno sguardo misto di ipocrita indulgenza (come per dire: « Non temere, sei nelle mani di un consesso fraterno, che non può che volere il tuo bene »), di gelida ironia (come per dire: « Non sai ancora quale sia il tuo bene, e io tra poco te lo dirò »), di spietata severità (come per dire: « Ma in ogni caso io sono qui il tuo solo giudice, e tu sei cosa mia »). Tutte cose che il cellario sapeva già, ma il silenzio e l’indugio del giudice servivano a fargliele ricordare, quasi assaporare meglio, affinché — anziché scordarsene — egli vieppiù ne traesse motivo di umiliazione, la sua inquietudine si trasformasse in disperazione, e del giudice diventasse cosa esclusiva, cera molle tra le sue mani.

Finalmente Bernardo ruppe il silenzio. Pronunziò alcune formule di rito, disse ai giudici che si procedeva all’interrogatorio dell’imputato per due delitti altrettanto odiosi, di cui uno era a tutti evidente ma dell’altro meno spregevole, perché in effetti l’imputato era stato sorpreso a commettere l’omicidio quando era ricercato per delitto di eresia.

L’aveva detto. Il cellario si nascose il volto tra le mani, che muoveva a fatica perché erano strette in catene. Bernardo diede inizio all’interrogatorio.

« Chi sei tu? » chiese.

« Remigio da Varagine. Sono nato cinquantadue anni fa e sono entrato ancora fanciullo nel convento dei minori di Varagine. »

« E come accade che ti trovi oggi nell’ordine di san Benedetto? »

« Anni fa, quando il pontefice emanò la bolla « Sancta Romana », siccome temevo di venir contagiato dall’eresia dei fraticelli... pur non avendo mai aderito alle loro proposizioni... pensai fosse più utile alla mia anima peccatrice sottrarmi a un ambiente carico di seduzioni e ottenni di essere ammesso tra i monaci di questa abbazia, dove da più di otto anni servo come cellario. »

« Ti sei sottratto alle seduzioni dell’eresia, » motteggiò Bernardo, « ovvero ti sei sottratto all’inchiesta di chi era preposto a scoprir l’eresia e sradicarne la mala pianta, e i buoni monaci cluniacensi han creduto di compiere un atto di carità accogliendo te e quelli come te. Ma non basta cambiar saio per cancellare dall’anima la turpitudine della depravazione eretica, e per questo noi siamo ora qui a investigare cosa si aggiri per i recessi della tua anima impenitente e cosa tu abbia fatto prima di pervenire in questo santo luogo. »

« La mia anima è innocente e non so cosa voi intendiate quando parlate di depravazione eretica, » disse cautamente il cellario.

« Lo vedete? » esclamò Bernardo rivolgendosi agli altri giudici. « Tutti così costoro! Quando uno di loro viene arrestato, si presenta a giudizio come se la sua coscienza fosse tranquilla e senza rimorsi. E non sanno che questo è il segno più evidente della loro colpa, perché il giusto, al processo, si presenta inquieto! Domandategli se conosce la causa per cui avevo predisposto il suo arresto. La conosci, Remigio? »

« Signore, » rispose il cellario, « sarei lieto di apprenderla dalla vostra bocca. »

Fui sorpreso perché mi parve che il cellario rispondesse alle domande di rito con parole altrettanto rituali, come se ben conoscesse le regole dell’istruttoria e i suoi tranelli, e da tempo fosse stato istruito ad affrontare un simile evento.

« Ecco, » esclamava intanto Bernardo, « la tipica risposta dell’eretico impenitente! Percorrono sentieri da volpi ed è molto difficile coglierli in fallo perché la loro comunità ammette il loro diritto a mentire per evitare la dovuta punizione. Essi ricorrono a risposte tortuose tentando di trarre in inganno l’inquisitore, che già deve sopportare il contatto con gente tanto spregevole. Dunque fra Remigio tu non hai avuto mai nulla a che vedere coi detti fraticelli o frati della povera vita, o beghini? »

« Io ho vissuto le vicende dei minori, quando a lungo si discusse sulla povertà, ma non sono mai appartenuto alla setta dei beghini. »

« Vedete? » disse Bernardo. « Nega di essere stato beghino perché i beghini, pur partecipando della stessa eresia dei fraticelli, considerano questi ultimi un ramo secco dell’ordine francescano e si ritengono più puri e perfetti di loro. Ma molti dei comportamenti degli uni sono comuni agli altri. Puoi negare, Remigio, di essere stato visto in chiesa rattrappito col viso volto verso il muro, o prosternato con la testa coperta dal cappuccio, anziché inginocchiato a mani giunte come gli altri uomini? »

« Anche nell’ordine di san Benedetto ci si prosterna a terra, nei momenti dovuti... »

« Io non ti chiedo cosa hai fatto nei momenti dovuti, ma in quelli non dovuti! Quindi non neghi di aver assunto l’una o l’altra postura, tipiche dei beghini! Ma tu non sei beghino, hai detto... E allora dimmi: in che cosa credi? »

« Signore, credo in tutto ciò a cui crede un buon cristiano... »

« Che santa risposta! E a cosa crede un buon cristiano? »

« A quello che insegna la santa chiesa. »

« E quale santa chiesa? Quella che ritengono tale i credenti che si definiscono perfetti, gli pseudo apostoli, i fraticelli eretici, o la chiesa che essi paragonano alla meretrice di Babilonia, e in cui tutti noi invece fermamente crediamo? »

« Signore, » disse smarrito il cellario, « ditemi voi quale credete che sia la vera chiesa... »

« Io credo che sia la chiesa romana, una, santa e apostolica, retta dal papa e dai suoi vescovi. »

« Così io credo, » disse il cellario.

« Ammirevole astuzia! » gridò l’inquisitore. « Ammirevole arguzia de dicto! L’avete udito: egli vuole intendere che egli crede che io creda a questa chiesa, e si sottrae al dovere di dire in che cosa creda lui! Ma conosciamo bene queste arti da faina! Veniamo al dunque. Credi tu che i sacramenti siano stati istituiti da Nostro Signore, che per fare una retta penitenza occorra confessarsi dai servi di Dio, che la chiesa romana abbia il potere di sciogliere e legare su questa terra ciò che sarà legato e sciolto in cielo? »

« Non dovrei forse crederlo? »

« Non ti domando cosa dovresti credere, ma cosa credi! »

« Io credo a tutto ciò che voi e gli altri buoni dottori mi ordinate di credere, » disse il cellario spaventato.

« Ah! Ma i buoni dottori a cui fai allusione non sono forse coloro che comandano la tua setta? E’ questo che volevi intendere quando parlavi dei buoni dottori? E’ a questi perversi mentitori che si ritengono gli unici successori degli apostoli che ti rifai per riconoscere i tuoi articoli di fede? Tu insinui che se io credo a ciò che loro credono, allora mi crederai, altrimenti crederai solo a loro! »

« Non ho detto questo, signore, » balbettò il cellario, « voi me lo fate dire. Io credo a voi, se voi mi insegnate ciò che è bene. »

« Oh protervia! » gridò Bernardo battendo il pugno sul tavolo. « Ripeti a memoria con bieca determinazione il formulario che si insegna nella tua setta. Tu dici che mi crederai solo se predicherò ciò che la tua setta ritiene sia il bene. Così hanno sempre risposto gli pseudo apostoli e così ora tu rispondi, forse senza avvedertene, perché riaffiorano alle tue labbra le frasi che un tempo ti furono insegnate onde ingannare gli inquisitori. Ed è così che stai accusandoti con le tue stesse parole, e io cadrei nella tua trappola solo se non avessi una lunga esperienza di inquisizione... Ma veniamo alla vera questione, uomo perverso. Hai mai inteso parlare di Gherardo Segalelli da Parma? »

« Ne ho inteso parlare, » disse il cellario impallidendo, se mai si fosse potuto ancora parlare di pallore per quel viso disfatto.

« Hai mai inteso parlare di fra Dolcino da Novara?

« Ne ho inteso parlare. »

« Lo hai mai visto di persona, hai conversato con lui? »

Il cellario stette qualche istante in silenzio, come per valutare sino a che punto gli fosse convenuto dire una parte della verità. Poi si decise, e con un filo di voce: « L’ho visto e gli ho parlato. »

« Più forte! » gridò Bernardo, « che finalmente si possa udire una parola vera scendere dalle tue labbra! Quando gli hai parlato? »

« Signore, » disse il cellario, « ero frate in un convento del novarese quando la gente di Dolcino si radunò da quelle parti, e passarono anche presso il mio convento, e al principio non si sapeva bene chi fossero... »

« Tu menti! Come poteva un francescano di Varagine essere in un convento del novarese? Tu non eri in convento, tu facevi già parte di una banda di fraticelli che percorrevano quelle terre vivendo di elemosine e ti sei unito ai dolciniani! »

« Come potete affermare questo, signore? » disse tremando il cellario.

« Ti dirò come posso, anzi devo, affermarlo, » disse Bernardo, e ordinò che fosse fatto entrare Salvatore.

La vista dello sciagurato, che certamente aveva passato la notte in un interrogatorio non pubblico e più severo, mi mosse a pietà. Il volto di Salvatore, l’ho detto, era di solito orribile. Ma quel mattino sembrava ancor più simile a quello di un animale. Non recava segni di violenza, ma il modo in cui il corpo si muoveva in catene, con le membra dislogate, quasi incapace di muoversi, trascinato dagli arcieri come una scimmia legata alla corda, palesava molto bene il modo in cui doveva essersi svolto il suo atroce responsorio.

« Bernardo lo ha torturato... » sussurrai a Guglielmo.

« Per nulla, » rispose Guglielmo. « Un inquisitore non tortura mai. La cura del corpo dell’imputato è affidata sempre al braccio secolare. »


« Ma è la stessa cosa! » dissi.

« Niente affatto. Non lo è per l’inquisitore, che ha le mani monde, e non lo è per l’inquisito, che quando viene l’inquisitore trova in lui un improvviso appoggio, un lenimento alle sue pene, e gli apre il cuore. »

Guardai il mio maestro: « Voi state celiando, » dissi sgomento.

« Ti paiono cose su cui celiare? » rispose Guglielmo.

Bernardo stava ora interrogando Salvatore, e la mia penna non riesce a trascrivere le parole rotte e, se pur fosse stato possibile, ancora più babeliche, con cui quell’uomo già dimidiato, ora ridotto al rango di un babbuino, rispondeva, compreso a fatica da tutti, aiutato da Bernardo che gli poneva i quesiti in modo che lui non potesse risponder altro che sì o no, incapace di ogni menzogna. E ciò che disse Salvatore il mio lettore può bene immaginare. Raccontò, o ammise di aver raccontato durante la notte, una parte di quella storia che io avevo già ricostruito: i suoi vagabondaggi come fraticello, pastorello e pseudo apostolo; e come ai tempi di fra Dolcino egli avesse incontrato Remigio tra i dolciniani, e con lui si fosse salvato dopo la battaglia di monte Rebello, riparando dopo varie vicende nel convento di Casale. In più aggiunse che l’eresiarca Dolcino, vicino alla sconfitta e alla cattura, aveva affidato a Remigio alcune lettere, da portare egli non sapeva dove o a chi. E Remigio aveva sempre recato quelle lettere con sé, senza osare recapitarle, e al suo arrivo all’abbazia, timoroso di trattenerle ancora seco, ma non volendo distruggerle, le aveva consegnate al bibliotecario, sì proprio a Malachia, perché le nascondesse da qualche parte nei recessi dell’Edificio.

Mentre Salvatore parlava, il cellario lo guardava con odio, e a un certo punto non poté trattenersi dal gridargli: « Serpe, scimmia lasciva, ti sono stato padre, amico, scudo, così mi ripaghi! »

Salvatore guardò il suo protettore ormai bisognoso di protezione e rispose a fatica: « Signor Remigio, fosse che potesse ero tuo. E mi eri dilectissimo. Ma tu conosci la famiglia del bargello. Qui non habet caballum vadat cum pede... »

« Pazzo! » gli gridò ancora Remigio. « Speri di salvarti? Non sai che morirai come un eretico anche tu? Di’ che hai parlato sotto tortura, di’ che hai inventato tutto! »

« Che so io signore come hanno nome tutte queste risìe... Paterini, gazzesi, leoniste, arnaldiste, speroniste, circoncisi... Io non son homo literatus, peccavi sine malitia e il signor Bernardo magnificentissimo el sa, et ispero ne l’indulgentia sua in nomine patre et filio et spiritis sanctis... »

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