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Il nome della rosa


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« Cosa? » chiese Guglielmo.

« Niente, mi ricordavo del povero Salvatore. Voleva fare chissà quale magìa con quel cavallo, e col suo latino lo designava come tertius equi. Che sarebbe la ’u’. »

« La ’u’? » chiese Guglielmo che aveva seguito il mio vaneggiamento senza porvi molta attenzione.

« Sì, perché tertius equi vorrebbe dire non il terzo cavallo ma il terzo del cavallo, e la terza lettera della parola cavallo è la ’u’. Ma è una sciocchezza... »

Guglielmo mi guardò, e al buio mi parve di scorgergli il volto alterato: « Dio ti benedica, Adso! » disse. « Ma certo, suppositio materialis, il discorso si assume de dicto e non de re... Che stupido che sono! » Si stava dando una gran pacca sulla fronte, a mano aperta, tanto che si udì uno schiocco, e credo si fosse fatto male. « Ragazzo mio, è la seconda volta oggi che per bocca tua parla la saggezza, prima in sogno e ora durante la veglia! Corri, corri nella tua cella a prendere il lume, anzi tutti e due quelli che abbiamo nascosto. Non farti vedere, e raggiungimi subito in chiesa! Non fare domande, vai! »


Andai senza far domande. Le lampade erano sotto il mio pagliericcio, colme di olio, perché avevo già provveduto a nutrirle. Avevo l’acciarino nel saio. Con i due preziosi strumenti al petto corsi alla chiesa.

Guglielmo era sotto il tripode e stava rileggendo la pergamena con gli appunti di Venanzio.

« Adso, » mi disse, « primum et septimum de quatuor non significa il primo e il settimo dei quattro, ma ’del quattro’, della parola quattro! » Non capivo ancora, poi ebbi una illuminazione: « Super thronos viginti quatuor! La scritta! Il versetto! Le parole che sono incise sopra lo specchio! »

« Andiamo! » disse Guglielmo, « forse possiamo ancora salvare una vita! »

« Di chi? » chiesi mentre egli stava già armeggiando intorno ai teschi e aprendo il passaggio all’ossario.

« Di uno che non se lo merita, » disse. Ed eravamo già nel cunicolo sotterraneo, i lumi accesi, verso la porta che conduceva alla cucina.

Ho già detto che a quel punto si spingeva una porta di legno e ci si ritrovava in cucina dietro al camino, ai piedi della scala a chiocciola che immetteva nello scriptorium. E proprio mentre spingevamo la porta, udimmo alla nostra sinistra dei rumori sordi nel muro. Venivano dalla parete al fianco della porta, su cui terminava la fila dei loculi coi teschi e le ossa. A quel punto, in luogo dell’ultimo loculo, vi era un tratto di parete piena, di grandi e quadrati blocchi di pietra, con una vecchia lapide al centro, che portava incisi sbiaditi monogrammi. I colpi venivano, pareva, da dietro la lapide, oppure da sopra la lapide, parte dietro la parete, parte quasi sopra la nostra testa.

Se un simile accadimento si fosse prodotto la prima notte avrei subito pensato ai monaci morti. Ma ormai ero pronto ad attendermi di peggio dai monaci vivi. « Chi sarà? » chiesi.

Guglielmo aprì la porta e uscì dietro al camino. I colpi, si udivano anche lungo la parete che costeggiava la scala a chiocciola, come se qualcuno fosse prigioniero nel muro, ovvero in quello spessore di parete (invero vasto) che si poteva presumere consistesse tra il muro interno della cucina e l’esterno del torrione meridionale.

« C’è qualcuno chiuso qui dentro, » disse Guglielmo. « Mi ero sempre chiesto se non vi fosse un altro accesso al finis Africae, in questo Edificio così pieno di passaggi. Evidentemente c’è; dall’ossario, prima di salire in cucina, si apre un tratto di parete e si sale per una scala parallela a questa, nascosta nel muro, fuoriuscendo direttamente nella stanza murata. »

« Ma chi c’è ora dentro? »

« La seconda persona. Una è nel finis Africae, un’altra ha cercato di raggiungerla, ma quella in alto deve avere bloccato il meccanismo che regola entrambe le entrate. Così il visitatore è rimasto intrappolato. E deve agitarsi molto perché, immagino, in quel budello non passerà molta aria. »

« E chi è? Salviamolo! »

« Chi sia lo vedremo tra poco. E quanto a salvarlo, lo si potrà fare solo sbloccando il meccanismo dall’alto, perché da questa parte non conosciamo il segreto. Quindi saliamo svelti. »

Così facemmo, salimmo allo scriptorium, e di lì al labirinto, e raggiungemmo in breve il torrione meridionale. Dovetti per ben due volte arrestare il mio impeto, perché il vento che quella sera penetrava dalle feritoie, creava correnti che, insinuandosi in quei meati, percorrevano gemendo le stanze, alitando sui fogli sparsi sui tavoli, e dovevo proteggere la fiamma con la mano.

Fummo in breve alla stanza dello specchio, ormai preparati al gioco deformante che ci attendeva. Alzammo le lampade e illuminammo i versetti che sovrastavano la cornice, super thronos viginti quatuor... Ormai il segreto era chiarito: la parola quatuor ha sette lettere, occorreva agire sulla « q » e sulla « r ». Pensai, eccitato, di farlo io: posai rapidamente la lampada sul tavolo al centro della stanza, compii il gesto nervosamente, la fiamma andò a lambire la legatura di un libro che vi era posato.

« Attento sciocco! » gridò Guglielmo, e con un soffio spense la fiamma. « Vuoi mettere a fuoco la biblioteca? »

Mi scusai e feci per riaccendere il lume. « Non importa, » disse Guglielmo, « basta il mio. Prendilo e fammi luce, perché la scritta è troppo alta e tu non ci arriveresti. Facciamo presto. »

« E se ci fosse dentro qualcuno armato? » chiesi, mentre Guglielmo, quasi a tastoni, cercava le lettere fatali, alzandosi in punta di piedi, alto come era, per toccare il versetto apocalittico.

« Fai luce, per il demonio, e non temere, Dio è con noi! » mi rispose piuttosto incoerentemente. Le sue dita stavano toccando la « q » di quatuor, e io che stavo qualche passo indietro vedevo meglio di lui quanto stesse facendo. Ho già detto che le lettere dei versetti sembravano intagliate o incise nel muro: evidentemente quelle della parola quatuor erano costituite da sagome di metallo, dietro alle quali era incassato e murato un prodigioso meccanismo. Perché, quando fu spinta in avanti, la « q » fece udire come uno scatto secco, e lo stesso accadde quando Guglielmo agì sulla « r ». L’intera cornice dello specchio ebbe come un sobbalzo, e la superficie vitrea scattò all’indietro. Lo specchio era una porta, incardinata sul lato sinistro. Guglielmo inserì la mano nell’apertura che si era creata tra il bordo destro e il muro, e tirò verso di sé. Cigolando la porta si aprì verso di noi. Guglielmo si insinuò nell’apertura e io scivolai dietro di lui, il lume alto sopra la testa.

Due ore dopo compieta, alla fine del sesto giorno, nel cuore della notte che dava inizio al settimo giorno, eravamo penetrati nel finis Africae.

SETTIMO GIORNO.


Notte.

Dove, a riassumere le rivelazioni prodigiose di cui qui si parla, il titolo dovrebbe essere lungo quanto il capitolo, il che è contrario alle consuetudini.


Ci trovammo sulla soglia di una stanza simile per forma alle altre tre stanze cieche eptagonali, in cui dominava un forte odore di chiuso e di libri macerati dall’umidità. Il lume che tenevo alto illuminò dapprima la volta, poi mossi il braccio verso il basso, a destra e a sinistra, e la fiamma alitò vaghi chiarori sugli scaffali lontani, lungo le pareti. Infine vedemmo al centro un tavolo, colmo di carte, e dietro al tavolo, una figura seduta, che pareva attenderci immobile al buio, se pure era ancora viva. Prima ancora che la luce illuminasse il suo volto, Guglielmo parlò.

« Felice notte, venerabile Jorge, » disse. « Ci attendevi? »

La lampada ora, avanzati noi di qualche passo, rischiarava il volto del vecchio, che ci guardava come se vedesse.

« Sei tu, Guglielmo da Baskerville? » chiese. « Ti attendevo da oggi pomeriggio prima di vespro, quando venni a rinchiudermi qui. Sapevo che saresti arrivato. »

« E l’Abate? » chiese Guglielmo. « E’ lui che si agita nella scala segreta? » Jorge ebbe un attimo di esitazione: « E’ ancora vivo? » domandò. « Credevo che gli fosse già mancata l’aria. »

« Prima che iniziamo a parlare, » disse Guglielmo, « vorrei salvarlo. Tu puoi aprire da questa parte. »

« No, » disse Jorge con stanchezza, « non posso più. Il meccanismo si manovra dal basso premendo sulla lapide, e qui sopra scatta una leva che apre una porta là in fondo, dietro a quell’armadio, » e accennò alle sue spalle. « Potresti vedere accanto all’armadio una ruota con dei contrappesi, che governa il meccanismo da quassù. Ma quando da qui ho udito la ruota girare, segno che Abbone era entrato da sotto, ho dato uno strappo alla corda che sostiene i pesi, e la corda si è spezzata. Ora il passaggio è chiuso, da ambo le parti, e non potresti riannodare i fili di quel congegno. L’Abate è morto. »

« Perché lo hai ucciso? »

« Oggi quando mi ha mandato a chiamare mi ha detto che grazie a te aveva scoperto tutto. Non sapeva ancora cosa io avessi cercato di proteggere, non ha mai compreso esattamente quali fossero i tesori, e i fini della biblioteca. Mi ha chiesto di spiegargli ciò che non sapeva. Voleva che il finis Africae venisse aperto. Il gruppo degli italiani gli aveva domandato di porre fine a quello che essi chiamano il mistero alimentato da me e dai miei predecessori. Sono agitati dalla cupidigia di cose nuove... »

« E tu devi avergli promesso che saresti venuto qui e avresti posto fine alla tua vita come avevi posto fine a quella degli altri, in modo che l’onore dell’abbazia fosse salvo e nessuno sapesse nulla. Poi gli hai indicato la strada per venire, più tardi, a controllare. Invece lo attendevi, per uccidere lui. Non pensavi che potesse entrare dallo specchio? »

« No, Abbone è piccolo di statura, non sarebbe stato capace di arrivare da solo al versetto. Gli ho indicato questo passaggio, che io solo ancora conoscevo. E’ quello che ho usato io per tanti anni, perché era più semplice, al buio. Bastava arrivare alla cappella, e poi seguire le ossa dei morti, sino alla fine del passaggio. »

« Così lo hai fatto venire qui sapendo che lo avresti ucciso... »

« Non potevo più fidarmi neppure di lui. Era spaventato. Era diventato celebre perché a Fossanova era riuscito a far discendere un corpo lungo una scala a chiocciola. Ingiusta gloria. Ora è morto perché non è più riuscito a far salire il suo. »

« Lo hai usato per quarant’anni. Quando ti sei accorto che stavi diventando cieco e non avresti potuto continuare a controllare la biblioteca, hai lavorato accortamente. Hai fatto eleggere abate un uomo di cui potevi fidarti, e hai fatto nominare bibliotecario prima Roberto da Bobbio, che potevi istruire a tuo piacimento, poi Malachia, che aveva bisogno del tuo aiuto e non faceva un passo senza consultarsi con te. Per quarant’anni sei stato il padrone di questa abbazia. E’ questo che il gruppo degli italiani aveva capito, è questo che Alinardo ripeteva, ma nessuno gli dava ascolto perché lo ritenevano ormai demente, vero? Però tu attendevi ancora me, e non avresti potuto bloccare l’ingresso dello specchio, perché il meccanismo è murato. Perché mi aspettavi, come facevi a essere sicuro che sarei arrivato? » Guglielmo chiedeva, ma dal suo tono si capiva che egli indovinava già la risposta, e la attendeva come un premio alla propria abilità.

« Sin dal primo giorno ho capito che tu avresti capito. Dalla tua voce, dal modo in cui mi hai condotto a dibattere su ciò di cui non volevo si parlasse. Eri meglio degli altri, ci saresti giunto comunque. Sai, basta pensare e ricostruire nella propria mente i pensieri dell’altro. E poi ho sentito che facevi domande agli altri monaci, tutte giuste. Ma non facevi mai domande sulla biblioteca, come se ormai ne conoscessi ogni segreto. Una notte sono venuto a bussare alla tua cella, e tu non c’eri. Eri certamente qui. Erano scomparse due lampade dalla cucina, l’ho sentito dire da un servo. E infine, quando Severino è venuto a parlarti di un libro, l’altro giorno nel nartece, sono stato sicuro che eri sulla mia stessa traccia. »

« Ma sei riuscito a sottrarmi il libro. Sei andato da Malachia, che sino ad allora non aveva capito nulla. Agitato dalla sua gelosia, lo stolto continuava a essere ossessionato dall’idea che Adelmo gli avesse rapito il suo adorato Berengario, che ormai voleva carne più giovane della sua. Non capiva cosa c’entrasse Venanzio con questa storia, e tu gli hai confuso ancora più le idee. Gli hai detto che Berengario aveva avuto un rapporto con Severino, e che per compensarlo gli aveva dato un libro del finis Africae. Non so esattamente cosa gli hai detto. Malachia è andato da Severino, folle di gelosia, e lo ha ucciso. Poi non ha fatto in tempo a cercare il libro che tu gli avevi descritto, perché è arrivato il cellario. E’ andata così? »

Più o meno.

« Ma tu non volevi che Malachia morisse. Lui non aveva probabilmente mai guardato i libri del finis Africae, si fidava di te, ubbidiva ai tuoi interdetti. Lui si limitava a predisporre alla sera le erbe per spaventare gli eventuali curiosi. Gliele forniva Severino. Per questo quel giorno Severino lasciò entrare Malachia nell’ospedale, era la sua visita giornaliera per prelevare le erbe fresche, che lui preparava ogni giorno, per ordine dell’Abate. Ho indovinato? »

« Hai indovinato. Non volevo che Malachia morisse. Gli dissi di ritrovare il libro, in ogni modo, e di riporlo qui, senza aprirlo. Gli dissi che aveva il potere di mille scorpioni. Ma per la prima volta il dissennato volle agire di propria iniziativa. Non lo volevo morto, era un esecutore fedele. Ma non ripetermi cosa sai, lo so che sai. Non voglio nutrire il tuo orgoglio, ci pensi già da te stesso. Ti ho udito stamane nello scriptorium interrogare Bencio sulla « Coena Cypriani ». Eri vicinissimo alla verità. Non so come tu abbia scoperto il segreto dello specchio, ma quando ho saputo dall’Abate che tu gli avevi accennato al finis Africae ero sicuro che entro breve ci saresti giunto. Per questo ti aspettavo. E ora cosa vuoi? »

« Voglio vedere, » disse Guglielmo, « l’ultimo manoscritto del volume rilegato che raccoglie un testo arabo, uno siriano e una interpretazione o trascrizione della ’Coena Cypriani’. Voglio vedere quella copia in greco, fatta probabilmente da un arabo, o da uno spagnolo, che tu hai trovato quando, aiuto di Paolo da Rimini, hai ottenuto che ti mandassero nel tuo paese a raccogliere i più bei manoscritti delle Apocalissi di Leon e Castiglia, un bottino che ti ha reso famoso e stimato qui all’abbazia e ti ha fatto ottenere il posto di bibliotecario, mentre spettava ad Alinardo, di dieci anni più vecchio di te. Voglio vedere quella copia greca scritta su carta di panno, che allora era molto rara, e se ne fabbricava proprio a Silos, vicino a Burgos, tua patria. Voglio vedere il libro che tu hai sottratto laggiù, dopo averlo letto, perché non volevi che altri lo leggesse, e che hai nascosto qui, proteggendolo in modo accorto, e che non hai distrutto perché un uomo come te non distrugge un libro, ma soltanto lo custodisce e provvede a che nessuno lo tocchi. Voglio vedere il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello che tutti ritenevano perduto o mai scritto, e di cui tu custodisci forse l’unica copia. »

« Quale magnifico bibliotecario saresti stato, Guglielmo, » disse Jorge, con un tono insieme di ammirazione e rammarico. « Così sai proprio tutto. Vieni, credo ci sia uno sgabello dalla tua parte del tavolo. Siedi, ecco il tuo premio. »

Guglielmo si sedette e posò il lume, che gli avevo passato, illuminando dal basso il volto di Jorge. Il vecchio prese un volume che aveva davanti e glielo passò. Io riconobbi la rilegatura, era quello che avevo aperto nell’ospedale, credendolo un manoscritto arabo.

« Leggi, allora, sfoglia, Guglielmo, » disse Jorge. « Hai vinto. »

Guglielmo guardò il volume, ma non lo toccò. Trasse dal saio un paio di guanti, non i suoi con la punta delle dita scoperte, ma quelli che indossava Severino quando lo avevamo trovato morto. Aprì lentamente la rilegatura consunta e fragile. Io mi avvicinai e mi chinai sopra la sua spalla. Jorge col suo udito finissimo udì il rumore che facevo. Disse: « Ci sei anche tu, ragazzo? Lo farò vedere anche a te... dopo. »

Guglielmo scorse rapidamente le prime pagine. « E’ un manoscritto arabo sui detti di qualche stolto, secondo il catalogo, » disse. « Di cosa tratta?’

« Oh, sciocche leggende degli infedeli, dove si ritiene che gli stolti abbiano dei motti arguti che stupiscono anche i loro sacerdoti ed entusiasmano i loro califfi...’’

« Il secondo è un manoscritto siriaco, ma secondo il catalogo traduce un libello egiziano di alchimia. Come mai si trova raccolto qui? »

« E’ un’opera egiziana del terzo secolo della nostra era. Coerente con l’opera che segue, ma meno pericolosa. Nessuno porrebbe orecchio ai vaneggiamenti di un alchimista africano. Attribuisce la creazione del mondo al riso divino... » Alzò il volto e recitò, con la sua prodigiosa memoria di lettore che da ormai quarant’anni ripeteva a se stesso cose lette quando aveva ancora il bene della vista: « Appena Dio rise nacquero sette dèi che governarono il mondo, appena scoppiò a ridere apparve la luce, alla seconda risata apparve l’acqua, e al settimo giorno che egli rideva apparve l’anima... Follie. E anche lo scritto che viene dopo, di uno degli innumerevoli stupidi che si misero a chiosare la ’Coena’... Ma non sono questi che ti interessano. »

Guglielmo infatti aveva fatto passare rapidamente le pagine ed era arrivato al testo greco. Vidi subito che i fogli erano di materia diversa e più molle, quasi strappato il primo, con una parte del margine mangiato, cosparso di macchie pallide, come di solito il tempo e l’umidità producono su altri libri. Guglielmo lesse le prime righe, prima in greco, poi traducendo in latino e continuando poi in questa lingua, in modo che anch’io potei apprendere come iniziava il libro fatale.
Nel primo libro abbiamo trattato della tragedia e di come essa suscitando pietà e paura produca la purificazione di tali sentimenti. Come avevamo promesso, trattiamo ora della commedia (nonché della satira e del mimo) e di come suscitando il piacere del ridicolo essa pervenga alla purificazione di tale passione. Di quanto tale passione sia degna di considerazione abbiamo già detto nel libro sull’anima, in quanto — solo tra tutti gli animali — l’uomo è capace di ridere. Definiremo dunque di quale tipo di azioni sia mimesi la commedia, quindi esamineremo i modi in cui la commedia suscita il riso, e questi modi sono i fatti e l’eloquio. Mostreremo come il ridicolo dei fatti nasca dalla assimilazione del migliore al peggiore e viceversa. dal sorprendere ingannando, dall’impossibile e dalla violazione delle leggi di natura, dall’irrilevante e dall’inconseguente, dall’abbassamento dei personaggi, dall’uso delle pantomime buffonesche e volgari, dalla disarmonia, dalla scelta delle cose meno degne. Mostreremo quindi come il ridicolo dell’eloquio nasca dagli equivoci tra parole simili per cose diverse e diverse per cose simili, dalla garrulità e dalla ripetizione, dai giochi di parole, dai diminutivi. dagli errori di pronuncia e dai barbarismi...
Guglielmo traduceva a fatica, cercando le parole giuste, arrestandosi a tratti. Traducendo sorrideva, come se riconoscesse cose che si attendeva di trovare. Lesse ad alta voce la prima pagina, poi smise, come se non gli interessasse sapere altro, e sfogliò in fretta le pagine seguenti: ma dopo alcuni fogli incontrò una resistenza, perché presso il margine laterale superiore, e lungo il taglio, i fogli erano uniti l’uno con l’altro, come accade quando — inumiditasi e deterioratasi — la materia cartacea forma una sorta di glutine colloso. Jorge avvertì che il fruscio dei fogli smossi era cessato, e incitò Guglielmo.

« Su, leggi, sfoglia. E’ tuo, te lo sei meritato « 

Guglielmo rise, e pareva piuttosto divertito: « Allora non è vero che mi ritieni così acuto, Jorge! Tu non lo vedi, ma ho i guanti. Con le dita così impacciate non riesco a distaccare i fogli l’uno dall’altro. Dovrei procedere a mani nude, inumidirmi le dita sulla lingua, come mi è accaduto di fare stamane leggendo nello scriptorium, così che di colpo anche questo mistero mi fu chiaro, e dovrei seguitare a sfogliare così, sino a che il veleno non mi sia passato in bocca in buona misura. Dico il veleno che tu un giorno, tempo fa, hai sottratto al laboratorio di Severino, forse già allora preoccupato perché avevi udito qualcuno nello scriptorium manifestare delle curiosità, o sul finis Africae o sul libro perduto di Aristotele, o su entrambi. Credo che tu abbia custodito l’ampolla a lungo, riservandoti di farne uso quando avessi avvertito un pericolo. E lo hai avvertito giorni fa, quando da un lato Venanzio arrivò troppo vicino al tema di questo libro, e Berengario, per leggerezza, per vanagloria, per impressionare Adelmo, si rivelò meno segreto di quello che tu speravi. Allora sei venuto e hai predisposto la tua trappola. Giusto in tempo perché qualche notte dopo Venanzio penetrò qui, sottrasse il libro, lo sfogliò con ansia, con voracità quasi fisica. Si sentì male entro breve, e corse a cercare aiuto in cucina. Dove morì. Sbaglio? »

« No, va avanti. »

« Il resto è semplice. Berengario trova il corpo di Venanzio in cucina, teme che ne nasca una indagine, perché in fondo Venanzio era di notte nell’Edificio come conseguenza della sua prima rivelazione ad Adelmo. Non sa come fare, si carica il corpo in spalla e lo butta nell’orcio del sangue, pensando che tutti si convincessero che era annegato. »

« E tu come sai che avvenne così? »

« Lo sai anche tu, ho visto come hai reagito quando trovarono un panno sporco di sangue da Berengario. Col panno quello sconsiderato si era pulito le mani dopo che aveva messo Venanzio nel sangue. Ma poiché era scomparso, Berengario non poteva che essere scomparso col libro che ormai aveva incuriosito anche lui. E tu ti attendevi che lo ritrovassero da qualche parte, non insanguinato, bensì avvelenato. Il resto è chiaro. Severino ritrova il libro, perché Berengario era andato dapprima nell’ospedale per leggerlo al riparo da occhi indiscreti. Malachia uccide Severino istigato da te, e muore quando torna qui per sapere cosa ci fosse di tanto proibito nell’oggetto che l’aveva fatto diventare assassino. Ecco che abbiamo una spiegazione per tutti i cadaveri... Che stupido... »

« Chi? »


« Io. A causa di una frase di Alinardo mi ero convinto che la serie dei delitti seguisse il ritmo delle sette trombe dell’Apocalisse. La grandine per Adelmo, ed era un suicidio. Il sangue per Venanzio, ed era stata una idea bizzarra di Berengario; l’acqua per Berengario stesso, ed era stato un fatto casuale; la terza parte del cielo per Severino, e Malachia aveva colpito con la sfera armillare perché era l’unica cosa che si era trovato sottomano. Infine gli scorpioni per Malachia... Perché gli hai detto che il libro aveva la forza di mille scorpioni? »

« A causa tua. Alinardo mi aveva comunicato la sua idea, poi avevo udito da qualcuno che anche tu l’avevi trovata persuasiva... Allora mi sono convinto che un piano divino regolava queste scomparse di cui io non ero responsabile. E annunciai a Malachia che se fosse stato curioso sarebbe perito secondo lo stesso piano divino, come infatti è avvenuto.

« E’ così allora... Ho fabbricato uno schema falso per interpretare le mosse del colpevole e il colpevole vi si è adeguato. Ed è proprio questo schema falso che mi ha messo sulle tue tracce. Ai tempi nostri ciascuno è ossessionato dal libro di Giovanni, ma tu mi parevi quello che maggiormente vi meditasse, e non tanto per le tue speculazioni sull’Anticristo ma perché venivi dal paese che ha prodotto le Apocalissi più splendide. Un giorno qualcuno mi ha detto che i codici più belli di questo libro, in biblioteca, erano stati portati da te. Poi un giorno Alinardo vaneggiò di un suo misterioso nemico che era stato a cercare libri a Silos (mi incuriosì il fatto che disse che era tornato anzitempo nel regno delle tenebre: sul momento si poteva pensare che volesse dire che era morto giovane, invece alludeva alla tua cecità). Silos è vicino a Burgos, e stamane nel catalogo ho trovato una serie di acquisizioni che concernevano tutte le apocalissi ispaniche, nel periodo in cui tu eri succeduto o stavi per succedere a Paolo da Rimini. E in quel gruppo di acquisizioni vi era anche questo libro. Ma non potevo essere sicuro di quanto avevo ricostruito, sino a che non appresi che il libro rubato era in carta di panno. Allora mi ricordai di Silos, e fui sicuro. Naturalmente mano a mano che prendeva forma l’idea di questo libro e del suo potere venefico, si sfaldava l’idea dello schema apocalittico, eppure non riuscivo a capire come il libro e la sequenza delle trombe portassero entrambi a te, e ho capito meglio la storia del libro proprio in quanto, indirizzato dalla sequenza apocalittica, ero obbligato a pensare a te, e alle tue discussioni sul riso. Tanto che questa sera, quando allo schema apocalittico non credevo ormai più, insistetti per controllare le stalle, dove mi attendevo lo squillo della sesta tromba, e proprio alle stalle, per puro caso, Adso mi ha fornito la chiave per entrare nel finis Africae. »

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