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Sabato 11 Rosanna Schiaffino: il fascino discreto della semplicità


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Rosanna Schiaffino: il fascino discreto della semplicità

Il 17 ottobre 2009 Rosanna Schiaffino è scomparsa a Milano in seguito a una malattia contro la quale ha combattuto per vent’anni. Il cinema ha perso un’attrice che ha popolato i sogni di una generazione trasponendo sullo schermo una bellezza profondamente dolce e naturale, mai volgare o maliziosa, senza mai assumere ambizioni da diva.

Nata a Genova il 25 novembre 1938, acquisisce notorietà a soli diciotto anni apparendo sulle copertine dei più importanti rotocalchi dell’epoca e debuttando cinematograficamente in Totò lascia o raddoppia? (1956) di Camillo Mastrocinque. Trasferitasi con la famiglia a Roma e dilettandosi in veste di pittrice tra gli artisti di via Margutta, parallelamente ai film in costume dei quali diverrà un’interprete ricorrente (Orlando e i paladini di Francia, Ferdinando I Re di Napoli, Il ratto delle Sabine, L’avventuriero), viene nobilitata dal cinema di autori quali Francesco Rosi, Mauro Bolognini, Mario Camerini, Alberto Lattuada, Damiano Damiani, Alessandro Blasetti.

La sua sensualità tipicamente mediterranea rappresenta appieno la perfezione dei suoi morbidi lineamenti, oltre a farla divenire il simbolo di un’eterno fascino classico: non a caso un autore attento quale Luciano Salce allude alla sua figura nelle sembianze del personaggio interpretato da Donatella Turri ne La cuccagna (1962), prima di affidarle il ruolo di Jeronima, modella prediletta (e poi moglie) del pittore El Greco (1964), mentre Vittorio De Sica la eleggerà a simbolo della bellezza italiana all’estero facendola comparire nel ruolo di se stessa in un cameo di Un mondo nuovo (1965), ambientato a Parigi.

Sposatasi nel 1963 con il produttore Alfredo Bini, dal quale sei anni dopo avrà una figlia, Annabella, la Schiaffino lascia le scene nella seconda metà degli anni Settanta quando il cinema smette di offrirle occasioni di rilevo quasi dimenticandola, prima di unirsi in seconde nozze all’imprenditore Giorgio Enrico Falck, che la renderà madre di Guido nel 1981 e con il quale vivrà un rapporto particolarmente conflittuale.

Il ciclo di film proposti (tra i quali l’antologia pressoché inedita Incontri Internazionali del Cinema 1965) vuole essere un doveroso omaggio alle sue semplici doti d’interprete umile e spontanea.



Programma, testo introduttivo e schede a cura di Graziano Marraffa
ore 17.00

Illibatezza (ep. di Ro.Go.Pa.G., 1962)

Regia: Roberto Rossellini; soggetto e sceneggiatura: R. Rossellini; fotografia: Luciano Trasatti; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Danilo Donati; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Daniele Alabiso; interpreti: Rosanna Schiaffino, Bruce Balaban, Gianrico Tedeschi, Carlo Zappavigna, Maria Pia Schiaffino; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, Lyre; durata: 33’



L’hostess Anna Maria durante un volo a Tokio viene corteggiata da un americano, colpito dal candore della sua bellezza mediterranea; per liberarsene ed evitare l’ira del fidanzato meridionale stravolgerà il suo look abituale. «La situazione di questa hostess [...] è piuttosto originale, la si direbbe quasi clairiana. Roberto Rossellini l’ha diretta con quella trascuratezza che da alcuni anni gli è abituale» («Rivista del Cinematografo»). «Meglio tacere infine sull’episodio di Roberto Rossellini [...] dedicato all’arte di Rosanna Schiaffino. Diremo soltanto che Rossellini sembra impegnato masochisticamente a far sfigurare quelli di noi che lo considerano un maestro, e a dar ragione ai suoi superficiali detrattori» (Kezich).

Vietato ai minori di anni 18
a seguire

La corruzione (1963)

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Ugo Liberatore; sceneggiatura: U. Liberatore, Fulvio Gicca; fotografia: Leonida Barboni; scenografia e costumi: Maurizio Serra Chiari; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Jacques Perrin, Rosanna Schiaffino, Alain Cuny, Isa Miranda, Filippo Scelzo, Ennio Balbo; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, S.O.P.A.C., Burgundia Film; durata: 83’



Stefano Mattioli, giovane figlio di un ex partigiano divenuto ricco industriale dell’editoria, terminati gli studi esprime la vocazione al sacerdozio. Il padre, per distoglierlo da tale proposito, lo fa sedurre da Adriana, sua giovane segretaria e amante, nel corso di una crociera in yacht. Nuovamente combattuto tra l’intima aspirazione ad esprimere la generosità e la sincerità della sua giovinezza e l’amara realtà di un mondo mediocre, Stefano rimarrà preda del suo dubbioso senso di ribellione. «Che Bolognini abbia talento e gusto da vendere lo prova [...] l’incredibile trasformazione da lui operata su Rosanna Schiaffino: una prova che ricorda gli esperimenti di Sternberg su Marlene. Con i capelli corti e la frangetta, il volto reso più bello da una nuova impostazione del trucco, fotografata magistralmente dall’operatore Barboni, la Schiaffino ci rimanda a Moravia: si direbbe la Cecilia di La noiaraccontata da Scott Fitzgerald» (Kezich). «In questo film c’è forse la più bella, la più intensa, la più lirica scena erotica del nostro cinema: quando il giovane Stefano [...] è raccolto nelle braccia da Adriana, e per la prima volta si abbandona a una donna, in uno smarrimento dove è stupore, vertigine e il casto e palpitante tremore dell’iniziazione, e intorno a cui, con un gioco irreale di luci, di specchi, di rifrazioni, Bolognini crea un alone di sognante e voluttuosa magia (e deve essere detto che in questa scena, accanto a Jacques Perrin, Rosanna Schiaffino riesce a rendere qualche bel momento di rapita e trasfigurata dolcezza)» (Sacchi).

ore 19.10

Scacco alla regina (1969)

Regia: Pasquale Festa Campanile; soggetto: dal romanzo omonimo di Renato Ghiotto; sceneggiatura: Tullio Pinelli, Brunello Rondi; fotografia: Roberto Gerardi; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Giulia Mafai; musica: Piero Piccioni; montaggio: Mario Morra; interpreti: Rosanna Schiaffino, Romolo Valli, Aldo Giuffrè, Gabriele Tinti, Haidèe Politoff, Daniela Surina; origine: Italia; produzione: Finarco; durata: 98’



Margaret Mevin, diva di successo, manifesta un carattere talmente venale e possessivo al punto di assumere una dama di compagnia, con la quale instaura un complesso rapporto tra padrona e schiava. «Favola moderna non disutile, e spunto di riflessioni interessanti anche dal punto di vista socio-politico, per indicare quanto il distacco dalla realtà, il rifiuto di vivere nel mondo, siano causa ed effetto di tirannia. [...] Un film incerto fra il grottesco realistico e il metafisico, più impegnato – oggettivando l’azione narrata nel libro in prima persona – nel recuperare attraverso il cerimoniale sado-masochista il gusto ossessivo e narcisistico del romanzo anziché nell’analisi psicologica d’una sfida fra donne in ugual misura deliranti, ma spettacolarmente assai brillante grazie al lussuoso addobbo della villa che fa da cornice e alle toilette delle attrici. [...] Pasquale Festa Campanile [...] tuttavia conduce il gioco con la consueta vivacità, con quel sorrisino a fior di labbra che scorcia le ambizioni. L’immagine di Margaret, così prepotente e ghiotta di vivere, gli riesce bene, e quella di Silvia ha sensibili tocchi di colore [...]. Bravi gli interpreti: Rosanna Schiaffino, bella e imperiosa nell’aggressivo personaggio di Margaret, e Haydée Politoff, tutta chiusa nell’insano piacere di Silvia presa d’amore di sé» (Grazzini).

Vietato ai minori di anni 18
ore 21.00

Incontri internazionali del cinema 1965. Rosanna Schiaffino

Antologia realizzata da Vincenzo M. Siniscalchi; con la collaborazione di G. Giacobino, R. Paladini, C. Cozzi; origine: Italia; durata: 28’



Fotografie tratte dai rotocalchi dell’epoca, sequenze tratte dai film La sfida di Francesco Rosi, I vincitori di Carl Foreman, Illibatezza, episodio diretto da Roberto Rossellini per il film Ro.Go.Pa.G., La corruzione di Mauro Bolognini, El Greco di Luciano Salce. Scene del film allora in lavorazione La mandragola, con l’attrice nel ruolo di Lucrezia.
a seguire

Trastevere (1971)

Regia, soggetto e sceneggiatura: Fausto Tozzi; fotografia: Arturo Zavattini; scenografia: Giantito Burchiellaro; costumi: Marcella De Marchis; musica: Guido e Maurizio De Angelis; montaggio: Carlo Reali, Nino Baragli; interpreti: Nino Manfredi, Rosanna Schiaffino, Vittorio De Sica, Leopoldo Trieste, Vittorio Caprioli, Milena Vukotic; origine: Italia; produzione: Produzioni Europee Associate; durata: 98’



Un cane di proprietà di un anziano cantante lirico, smarrendosi per le strade e i vicoli del quartiere, incontra persone e avvenimenti di vario genere: Carmelo Mazzullo, ex agente della Squadra Narcotici, corteggia Caterina Peretti falsa “indiana” drogata; un intellettuale guardone spinge la moglie tra le braccia di un garzone di macelleria; un aristocratico omosessuale conduce al suicidio un hippy americano; il vedovo di una prostituta sfrutta le colleghe aiutato dal figlioletto; un parroco conduce un pellegrinaggio al Divino Amore capeggiato da Regina, anziana strozzina. «Ad avviso di tutti quelli che vi hanno collaborato, il mio è un film sinceramente religioso (per religioso intendo il senso del giusto, del bello e dell’etico) che castiga ridendo uno squarcio di umanità grottescamente pagano» (Tozzi). «Tozzi aveva probabilmente in animo di tracciare un affresco del popolare rione romano, quale oggi si configura, a mezzo fra l’antica e genuina tradizione che va estinguendosi e le contaminazioni dei tempi nuovi. Su tale motivo il film [...] intreccia una serie di situazioni e di profili, i quali però, quando non cedono al più scialbo bozzettismo, risultano, a dir poco, di lunare rappresentatività» (Autera).

Vietato ai minori di anni 14
domenica 12

Omaggio a Giuseppe Patroni Griffi

Giuseppe Patroni Griffi non è solo il regista e l’autore di quel grande successo teatrale e cinematografico chiamato Metti, una sera a cena. Romanziere (Scende giù per Toledo, Gli occhi giovani), sceneggiatore (I magliari, La ragazza con la valigia), commediografo (D’amore si muore, Anima nera, Persone naturali strafottenti), è stato una delle personalità più versatili del panorama culturale italiano del secondo Novecento. Nato il 27 febbraio 1921 a Napoli ,appartiene a quel gruppo di intellettuali napoletani che giovanissimi, subito dopo la Liberazione, emigrarono a Roma, dove, dopo l’incontro con Luchino Visconti e Giorgio De Lullo, la vita di Patroni Griffi e la storia dello spettacolo italiano, e del Teatro Eliseo in particolare, si fondono. Come ha scritto Franco Cordelli «per almeno due decenni, prima che si scoprisse o riscoprisse il teatro di Testori e di Pasolini, Peppino Patroni Griffi è stato il simbolo di una possibilità: la drammaturgia in lingua non era stata svuotata da Pirandello; e quella in dialetto non era stata monopolio di Eduardo De Filippo. È vero che il drammaturgo napoletano con il dialetto vero e proprio non si è mai cimentato. Ma esso è là, sullo sfondo, è come se premesse, minaccioso o promettente, sulle strutture della lingua, una lingua tuttavia inesistente, ancora da inventare, o reinventare, sempre stretta nella tenaglia di una convenzione già televisiva e d’una maniera ancora letteraria […]. Ma è impossibile non vedere come il mondo di Patroni Griffi anticipi sia Ferito a morte di La Capria sia il Pasolini di Ragazzi di vita. Poi, Pasolini occupò per intero lo spazio, quello spazio di rimpianto per la “morte della bellezza”, il mito che lo scrittore friulano e lo scrittore napoletano avevano in comune. E che cos’era la bellezza, per l’uno e per l’altro, se non l’idea di semplicità e naturalezza di cui parla la Ginzburg, distrutte dalla civiltà del benessere, ovvero dalla volgarità dei consumi, delle masse arrembanti dalle periferie verso il centro della città, verso la cancellazione stessa di ogni singola espressione autoctona, in altri termini dei dialetti?». E Patroni Griffi utilizza una lingua “molle”, “plastica”, facendo parlare sulle scene la signora amica, la serva plebea, l’omosessuale. Esordisce come regista cinematografico nel 1962 con un film sfortunato Il mare, fischiato alla Mostra del Cinema di Venezia e che disegnava due personaggi quasi improponibili in quel periodo (un omosessuale e il suo ambiguo rapporto con un ragazzo). Il resto della filmografia del regista è molto esigua, ma molto interessante: la rilettura non banale dei drammi elisabettiani (Addio fratello crudele), il dramma dell’identità (Identikit), gli amour fou italiani degli anni Venti (Divina creatura), l’eros come linguaggio primordiale della vendetta (La gabbia). Autore poco italiano e molto internazionale, la miglior definizione l’ha data lui stesso: «Io non sono un regista all’italiana. Io non sono mai stato nel binario principale del cinema italiano, né lo sarei adesso. Io anche sul passaporto ho scritto scrittore. Mi sento meglio nei panni di uno scrittore».

Le schede dei film sono state tratte dal volume Fabio Francione (a cura di), La morte della bellezza. Letteratura e teatro nel cinema di Giuseppe Patroni Griffi, Falsopiano, Alessandria, 2001.


ore 17.00

Identikit (1974)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi; soggetto: dal romanzo The Driver’s Seat di Muriel Spaak; sceneggiatura: Raffaele La Capria, G. Patroni Griffi; fotografia: Vittorio Storaro; scenografia: Mario Ceroli; costumi: Gabriella Pescucci; montaggio: Franco Arcalli; interpreti: Elizabeth Taylor, Guido Mannari, Ian Bannen, Mona Washbourne, Luigi Squarzina, Federico Martignoni; origine: Italia; produzione: Felix Cinematografica, Rizzoli Film; durata: 105’



«Una donna – il suo nome è Liz – di mezza età parte dalla sua città […] per una vacanza […]. La meta è Roma. Sull’aereo uno dei due uomini a cui è seduta accanto scappa, preso da una paura senza giustificazioni. L’altro, al contrario, comincia a farle pesanti avances. Andando in giro per Roma, la donna, che ha un carattere isterico, incontra una serie di persone: l’uomo dell’aereo che continuerà a farle proposte esplicite di carattere sessuale, una donna anziana che le parla di un nipote che sta aspettando; un uomo intravisto all’aereoporto, completamente vestito di bianco e dall’aspetto cadaverico; e un meccanico che l’ha soccorsa dopo un attentato ad un politico in cui era stata coinvolta e che in seguito tenterà di violentarla; ed infine il primo uomo dell’aereo che risulta essere il nipote della signora con la quale ha stretto amicizia. In parallelo la polizia indaga sul viaggio della donna e sulle persone che l’hanno incrociata» (Arcagni). «Patroni Griffi ha saputo impaginare il film secondo stilemi tendenti all’astratto, fuori da ogni psicologismo: ed è proprio dalla fredda eleganza delle immagini che nasce una tensione sempre più alta. Dentro le geometrie create dall’art director Mario Ceroli […] stupendamente fotografata da Vittorio Storaro nelle inquadrature scandite dal montaggio di Franco Arcalli, Elizabeth Taylor vibra, inveisce, strepita da grande personaggio sopra le righe, vero mostro sacro del cinema contemporaneo: l’attrice si identifica nel film, che a sua volta propone un’identificazione fantastica Liz-Elizabeth. […] Intorno alla protagonista le presenze degli altri personaggi sono labili e inquietanti come in un sogno: ricordiamo un cereo Andy Warhol e un enigmatico Luigi Squarzina, straniato rappresentante della ragione in veste di commissario della polizia» («Panorama»).

Vietato ai minori di anni 18
ore 19.00

Addio fratello crudele (1971)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi; soggetto: dalla tragedia Peccato che sia una puttana di John Ford; sceneggiatura: Alfio Valdarnini, Carlo Carunchio, G. Patroni Griffi; fotografia: Vittorio Storaro; scenografia: Gianfranco Ceroli; costumi: Gabriella Pescucci; musica: Ennio Morricone; montaggio: Franco Arcalli; interpreti: Charlotte Rampling, Olivier Tobias, Fabio Testi, Antonio Falsi, Rick Battaglia, Angela Luce; origine: Italia; produzione: Clesi Cinematografica; durata: 111’



«Giovanni e Annabella sono fratello e sorella, ma nonostante ciò si amano. È un amore passionale ma disperato. Giovanni si confida con un frate che lo obbliga a ripensarci. Questi gli prefigura peccato e sventure. Ma l’amore dei due è troppo forte, si confessano l’uno all’altra, si giurano eterno amore e consumano la loro passione. Quando però Annabella rimane incinta il frate, su consiglio del cardinale, provvede a che Annabella almeno copra la colpa sposando il nobile Soranzo che già l’aveva richiesta e che era stato respinto» (Arcagni). «Ho amato molto il teatro elisabettiano e Addio fratello crudele è un omaggio a questa mia passione. Mi ha ispirato […] un testo teatrale di Ford, Peccato che sia una puttana. Credo che Addio fratello crudele costituisca una specie di tragedia moderna rielaborata da quel testo, di cui ho preso solo alcuni personaggi, che ho amato moltissimo. È la storia di quattro ragazzi, cui ho cercato di dare spessore, dignità e importanza» (Patroni Griffi).

Vietato ai minori di anni 18
ore 21.00

Il mare (1963)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi; soggetto e sceneggiatura: G. Patroni Griffi; collaborazione alla sceneggiatura: Alfio Valdarnini; fotografia: Ennio Guarnieri; scenografia: Pier Luigi Pizzi; costumi: Paola Bersani; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Umberto Orsini, Françoise Prévost, Dino Mele, Renato Scala, Giuseppe Ferrari, Renato Terra Caizzi; origine: Italia; produzione: Gianni Buffardi; durata: 97’



«Un attore arriva a Napoli. Non è ancora stagione turistica. Capri è deserta e il cielo plumbeo. Aspetta una donna che non arriverà. Nel frattempo intesse uno strano rapporto con un giovane alcolista che tenta persino di ucciderlo; è annoiato, privo di ideali, forte e debole allo stesso tempo. I due si stringono in una particolare amicizia, o almeno ci provano, finché giunge sull’isola una donna» (Arcani). «Nel film c’era un uso della parola diverso dal solito. Quando parlavano, i tre protagonisti parlavano di cose quotidiane, non della loro storia. Tra i tre personaggi non si è mai detto nulla degli affetti. La storia era torbida, perché piena di attrazioni mancate, di sentimenti nascosti. Gli attori si esprimevano nei movimenti, nei gesti e in questo il loro ruolo era fondamentale. Solo dei bravi attori potevano farlo» (Patroni Griffi).

Vietato ai minori di anni 18
lunedì 13

chiuso
14-15 settembre



Anteprima i 1000(o)cchi. Festival internazionale del cinema e delle arti

(Trieste, 18-25 settembre 2010)

«Per un festival che ha il chiodo fisso del work in progress, fa piacere che l’anteprima al Cinema Trevi si rinnovi dopo la felice esperienza dell’anno scorso. Coerentemente con l’idea numero uno di i 1000(o)cchi, contraddire la presunta “attualità”, il pregiudizio che solo il cinema del giorno prima arrivi da contemporaneo agli spettatori di oggi, la collaborazione con l’officina cinetecaria è fondamentale. Questo Festival del cinema e delle arti, realizzato dall’Associazione Anno uno con la mia direzione, era nato nove anni fa con la partnership della Cineteca del Friuli. Nel crescente rafforzamento di sinergie con molte cineteche italiane ed estere, il rapporto con la Cineteca Nazionale è ormai un perno, e passa anche attraverso progetti di ricerche e restauri, di cui il festival vuole rendersi una reinvenzione di visioni. La pluralità che è contenuta nel nome stesso del festival è per noi rivolta anche a una pluralità di territori: sono molti i tipi di cinema e gli autori amati, nella convinzione che ciò non sia “eclettismo” bensì quell’imporsi del reale sull’immagine che Rossellini ci ha insegnato. Il suo nome è, con Dreyer, Straub-Huillet, McCarey..., tra le presenze che ritornano nei nostri programmi, incontrandosi in “convergenze parallele” con i grandi minori di cui il cinema italiano deborda. Il programma della IX edizione (Trieste, 18-25 settembre 2010) conterrà omaggi, talvolta ideati in collaborazione con altre iniziative, che vanno da Giorgio Bianchi (di cui abbiamo incoraggiato la ristampa di una rarità con la “geniniana” Marta Toren, nostra icona di quest’anno) a Brunello Rondi. Fuori dall’Italia si proseguiranno gli omaggi a Schroeter e Baratier, che avevano onorato il festival con la loro presenza e dei quali ricorderemo la recente scomparsa (come anche quella di Rohmer). Ci si rioccuperà di Papatakis e Autant-Lara, e si avvierà invece l’attenzione verso Thomas Harlan, Alain Cuny, Marc Scialom e altri cosiddetti “marginali”. S’inaugurerà anche un pluriennale viaggio attraverso le rarità del cinema tedesco-federale, curato da Olaf Möller e naturalmente intitolato Germania anno zero» (Sergio Grmek Germani).
martedì 14

ore 17.00

La donna dell’altro (Jons und Erdme. Die Frau des Anderen, 1959)

Regia: Victor Vicas; sceneggiatura: Robert A. Stemmle, V. Vicas, dal libro di Hermann Sudermann; fotografia: Goran Strindberg; scenografia: Rolf Zehetbauer; musica: Bernhard Eichhorn; interpreti: Giulietta Masina, Carl Raddatz, Karin Baal, Richard Basehart, Gert Fröbe, Werner Peters; origine: Germania Occidentale/Italia; Kurt Ulrich Film, Nembo Film; durata: 112’



«i 1000(o)cchi non sono costruiti per “sezioni”, “retrospettive”, “informative” ma per percorsi che vorrebbero intrecciare tutto il programma, collegare film del passato e del presente, trovare impensate convergenze parallele e creare incontri imprevisti, sia tra cineasti fisicamente presenti al festival sia tra film che ci raggiungono anch’essi come una presenza fisica (e perciò, non per rispettare astratte regole, ci teniamo a proiettarli nei formati originali). Questa coproduzione italo-tedesca ben introduce uno dei percorsi maggiori di quest’anno, rivolto ai film più sregolati della Repubblica Federale Tedesca, seguendo una prima chiave intitolata Of Beauty and Sufference. Vicas, cineasta apolide nato in Russia e morto in Francia, che attraversò anche il cinema americano, riunisce un cast che già a leggerlo si tiene insieme in un equilibrio impossibile: Giulietta Masina, Richard Basehart, Karin Baal, Gert Fröbe, Werner Peters, Lila Kedrova...» (Germani).


ore 19.00

La grande ombra (1957)

Regia: Claudio Gora; soggetto: da un’idea di Piero Costa; sceneggiatura: Mario Guerra, Guido Pillon, Luigi Tupini, Marco Albani; fotografia: Oberdan Trojani; musica: Valentino Bucchi; montaggio: Mariano Arditi; interpreti: Massimo Serato, Mara Berni, Scilla Vannucci, Maria Luisa Rolando, Franco Balducci, Amleto Adami; origine: Italia; produzione: Internazionale Artisti Associati; durata: 94’



«In una sinergia tra archivi pubblici e privati, maggiori e minori esistenti in Italia si può vivaddio riunire tutta l’opera da regista di Claudio Gora, cineasta sfuggente i cui due primi film sono ormai dei classici postneorealisti ma le cui realizzazioni successive spiazzano ogni volta. Tra il 1956 e il 1957 egli realizza due film che ben convergono con quello qui restaurato di Bianchi (proiezione che segue), e non solo perché i giochi dei titoli ci divertono e non sono una pista irrilevante: se Tormento d’amore ripropone come protagonista Marta Toren, questo La grande ombra rende metafisica Mara Berni, corpo tridimensionale di Il moralista di Bianchi e di molteplici commedie. Grandi ombre di un grande cinema...» (Germani).

Copia proveniente dalla Cineteca del Friuli

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