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Il nome della rosa


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Credo che Guglielmo si muovesse con la mia stessa disperazione perché me lo sentii accanto mentre entrambi, raggiunta la soglia, ci spingevamo contro il retro dello specchio che si stava chiudendo verso di noi. Arrivammo in tempo, perché la porta si arrestò e poco dopo cedette, riaprendosi. Evidentemente Jorge avvertendo che il gioco era impari, si era allontanato. Uscimmo dalla stanza maledetta, ma ormai non sapevamo dove il vecchio si fosse diretto e il buio era sempre totale. A un tratto mi sovvenni:

« Maestro, ma io ho con me l’acciarino! »

« E allora cosa aspetti, » gridò Guglielmo, « cerca la lampada e accendila! » Io mi gettai nel buio, indietro nel finis Africae, cercando il lume a tastoni. Vi riuscii subito, per miracolo divino, mi frugai nello scapolare, trovai l’acciarino, le mani mi tremavano e fallii due o tre volte prima di accenderlo, mentre Guglielmo ansimava dalla porta: « Presto, presto! » e finalmente feci luce.

« Presto, » mi incitò ancora Guglielmo, « se no quello si mangia tutto l’Aristotele! »

« E muore! » gridai io angosciato, raggiungendolo e mettendomi con lui alla ricerca.

« Non mi importa se muore, il maledetto! » gridava Guglielmo figgendo gli occhi in giro e muovendosi in modo disordinato. « Tanto con quello che ha mangiato il suo destino è già segnato. Ma io voglio il libro! »

Poi si arrestò, e soggiunse con maggior calma: « Ferma. Se facciamo così non lo troveremo mai. Zitti e fermi un istante. » Ci irrigidimmo in silenzio. E nel silenzio udimmo non molto lontano il rumore di un corpo che urtava un armadio, e il fracasso di alcuni libri che cadevano. « Di là! » gridammo insieme.

Corremmo in direzione dei rumori, ma subito ci rendemmo conto che dovevamo rallentare il passo. Infatti, fuori del finis Africae, la biblioteca era attraversata quella sera da refoli d’aria che sibilavano e gemevano in proporzione al forte vento esterno. Moltiplicati col nostro impeto, essi minacciavano di spegnere il lume, così duramente riconquistato. Non potendo noi accelerare, sarebbe stato d’uopo rallentare Jorge. Ma Guglielmo ebbe l’intuizione opposta e gridò: « Ti abbiamo preso vecchio, ora abbiamo la luce! » E fu saggia risoluzione, perché la rivelazione mise probabilmente in agitazione Jorge, che dovette accelerare il passo, compromettendo l’equilibrio di quella sua magica sensibilità di veggente delle tenebre. Infatti poco dopo udimmo un altro rumore e quando, seguendo il suono, entrammo nella sala Y di YSPANIA lo vedemmo, caduto a terra, il libro ancora tra le mani, mentre cercava di rialzarsi in mezzo ai volumi precipitati dal tavolo, che egli aveva urtato e rovesciato. Cercava di rialzarsi ma continuava a strappare le pagine, come per divorare quanto più in fretta potesse la sua preda.

Lo raggiungemmo che si era ormai levato e, sentendo la nostra presenza, ci fronteggiava arretrando. Il suo volto, al chiarore rosso del lume, ci apparve ora orrendo: i lineamenti alterati, un sudore maligno gli striava la fronte e le gote, gli occhi di solito bianchi di morte si erano iniettati di sangue, dalla bocca gli uscivano lembi di pergamena come a una belva famelica che si fosse troppo ingozzata e non riuscisse più a trangugiare il suo cibo. Sfigurata dall’ansia, dall’incombere del veleno che ormai già gli serpeggiava abbondante nelle vene, dalla sua disperata e diabolica determinazione, quella che era stata la figura venerabile del vegliardo appariva ora disgustosa e grottesca: in altri momenti avrebbe potuto muovere al riso, ma anche noi eravamo ridotti simili ad animali, a cani che braccano la selvaggina.

Avremmo potuto afferrarlo con calma, gli precipitammo invece addosso con enfasi, egli si divincolò, serrò le mani sul petto difendendo il volume, io lo tenevo con la sinistra mentre con la destra cercavo di mantenere alto il lume, ma gli sfiorai il volto con la fiamma, egli avvertì il calore, emise un suono soffocato, un ruggito, quasi, lasciando cadere dalla bocca pezzi di carta, abbandonò con la destra la presa sul libro, mosse la mano verso il lume e me lo strappò di colpo, lanciandolo in avanti...

Il lume andò a cadere proprio nel mucchio di libri precipitati dal tavolo, accatastati l’uno sopra l’altro con le pagine aperte. L’olio si versò, il fuoco si apprese subito a una pergamena fragilissima che divampo come un fascio di sterpi secchi. Tutto avvenne in pochi attimi, una vampata si levò dai volumi, come se quelle pagine millenarie anelassero da secoli all’arsione e gioissero nel soddisfare di colpo una immemoriale sete di ecpirosi. Guglielmo si avvide di quanto stava accadendo e abbandonò la presa sul vecchio — il quale, come si sentì libero, si ritrasse di qualche passo — esitò alquanto, certo troppo incerto se riprendere Jorge o buttarsi a spegnere il piccolo rogo. Un libro più vecchio degli altri arse quasi di colpo, buttando in alto una lingua di fiamma.

Le sottili lame del vento, che potevano spegnere una debole fiammella, ne incoraggiavano invece una più forte e vivace, e anzi ne facevan scaturire facelle vaganti.

« Spegni quel fuoco, presto! » gridò Guglielmo. « Qui brucia tutto! »

Io mi lanciai verso il rogo, poi mi arrestai perché non sapevo cosa fare. Guglielmo si mosse ancora verso di me, per venirmi in aiuto. Protendemmo le mani verso l’incendio, cercammo con gli occhi qualcosa con cui soffocarlo, io ebbi come una ispirazione, mi levai la veste sfilandola dal capo e cercai di buttarla sul focolaio. Ma le vampe erano ormai troppo alte, morsero la mia veste e se ne alimentarono. Ritrassi le mani che si erano ustionate, mi voltai verso Guglielmo e vidi, proprio alle sue spalle, Jorge che si era avvicinato di nuovo. Il calore era ormai così forte che egli lo avvertì benissimo, seppe con assoluta certezza dove stava il fuoco, e vi gettò l’Aristotele.

Guglielmo ebbe un moto d’ira e diede una spinta violenta al vecchio che urtò contro un armadio picchiando la testa contro uno spigolo e cadendo a terra... Ma Guglielmo, che credo di aver udito pronunciare una orribile bestemmia, non si prese cura di lui. Tornò ai libri. Troppo tardi. L’Aristotele, ovvero quanto ne era rimasto dopo il pasto del vecchio, già stava bruciando.

Frattanto alcune scintille erano volate verso le pareti e già i volumi di un altro armadio si stavano accartocciando sotto l’impeto del fuoco. Ormai non uno, ma due incendi ardevano nella stanza.

Guglielmo comprese che non avremmo potuto spegnerli con le mani, e risolse di salvare i libri coi libri. Afferrò un volume che gli parve meglio rilegato degli altri, e più compatto, e cercò di usarlo come un’arma per soffocare l’elemento nemico. Ma battendo la rilegatura borchiata sulla pira dei libri ardenti, non faceva altro che suscitare nuove scintille. Cercò di disperderle coi piedi, ma ottenne l’effetto opposto, perché se ne levarono volatili brandelli di pergamena quasi incenerita, che veleggiarono come pipistrelli mentre l’aria, alleata col suo aereo sodale, li inviava a incendiare la materia terrestre di altri fogli.

Sventura aveva voluto che quella fosse una delle sale più disordinate del labirinto. Dai ripiani degli armadi pendevano manoscritti arrotolati, altri libri ormai sfasciati lasciavano fuoriuscire dalle loro coperte come da labbra beanti, lingue di vello rinsecchito dagli anni, e il tavolo doveva aver contenuto una quantità grande di scritti che Malachia (ormai solo da giorni) aveva trascurato di riporre. Cosicché la stanza, dopo il rovinio provocato da Jorge, era invasa da pergamene che altro non attendevano se non di trasformarsi in altro elemento.

In breve quel luogo fu un braciere, un roveto ardente. Anche gli armadi partecipavano di quel sacrificio e incominciavano a crepitare. Mi resi conto che tutto il labirinto altro non era che una immensa pira sacrificale, preparata nell’attesa di una prima favilla...

« Dell’acqua, ci vuole dell’acqua! » diceva Guglielmo, ma poi soggiungeva: « E dove si trova dell’acqua in questo inferno?’

« In cucina, giù in cucina! » gridai.

Guglielmo mi guardò perplesso, il volto arrossato da quel furente chiarore. « Sì, ma prima che siamo scesi e risaliti... Al diavolo! » gridò poi, « in ogni caso questa stanza è perduta, e forse anche la prossima. Scendiamo subito, io cerco dell’acqua, e tu vai a dare l’allarme, ci vuole molta gente! »

Trovammo la strada verso la scala perché la conflagrazione rischiarava anche le stanze successive, sia pure sempre più debolmente, tanto che percorremmo le ultime due stanze quasi a tentoni. Sotto, la luce della notte illuminava pallidamente lo scriptorium e di lì scendemmo in refettorio. Guglielmo corse alla cucina, io alla porta del refettorio, armeggiando per aprirla dall’interno, e vi riuscii dopo non poco lavoro, perché l’agitazione mi rendeva goffo e inabile. Uscii sul pianoro, corsi verso il dormitorio, poi compresi che non avrei potuto svegliare i monaci a uno a uno, ebbi una ispirazione, andai in chiesa cercando la strada per la torre campanaria. Come vi giunsi, mi afferrai a tutte le corde, suonando a martello. Tiravo con forza e la corda della campana maggiore, risalendo, mi trascinava con sé. Le mani in biblioteca si erano ustionate sul dorso, avevo ancora le palme sane, così che me le ustionai facendole scivolare lungo le corde, sino a che sanguinarono e dovetti mollare la presa.

Ma ormai avevo fatto abbastanza rumore, mi precipitai all’esterno, in tempo per vedere i primi monaci che uscivano dal dormitorio, mentre da lontano si udivano le voci dei famigli che stavano affacciandosi alla soglia dei loro alloggiamenti. Non potei spiegarmi bene, perché ero incapace di formular parole, e le prime che mi vennero alle labbra furono nella mia lingua materna. Con la mano sanguinante indicavo le finestre dell’ala meridionale dell’Edificio dalle quali traspariva attraverso l’alabastro un anormale chiarore. Mi resi conto. dall’intensità della luce, che mentre scendevo e suonavo le campane, il fuoco si era ormai propagato ad altre stanze. Tutte le finestre dell’Africa e tutta la facciata tra questa e il torrione orientale ora rilucevano di bagliori disuguali.

« Acqua, portate acqua! » gridavo.

A tutta prima nessuno comprese. I monaci erano così adusi considerare la biblioteca come un luogo sacro e inaccessibile, che non riuscivano a rendersi conto che essa fosse minacciata da un accidente volgare, come una capanna di contadini. I primi che alzarono lo sguardo alle finestre si segnarono mormorando parole di spavento. e capii che credevano a nuove apparizioni. Mi afferrai alle loro vesti, li implorai di comprendere, sino a che qualcuno tradusse i miei singulti in parole umane.

Era Nicola da Morimondo, che disse: « la biblioteca brucia! »

« Ecco, » mormorai, lasciandomi cadere sfinito per terra.

Nicola dette prova di grande energia, gridò ordini ai servi, dette consigli ai monaci che lo attorniavano, inviò qualcuno ad aprire le altre porte dell’Edificio, altri spinse a cercar secchi e recipienti di ogni genere, indirizzò i presenti verso le sorgenti e i depositi d’acqua della cinta. Comandò ai vaccari di usare i muli e gli asini per trasportare degli orci... Se a dare queste disposizioni fosse stato un uomo dotato di autorità, sarebbe stato subito ubbidito. Ma i famigli erano usi ricevere ordini da Remigio, gli scrivani da Malachia, tutti dall’Abate. E nessuno dei tre era ahimè presente. I monaci cercavano con gli occhi l’Abate per cercare indicazioni e conforto, e non lo trovavano, e solo io sapevo che egli era morto, o stava morendo in quel momento, murato in un budello asfittico che ora si stava trasformando in un forno, in un toro di Falaride.

Nicola spingeva i vaccari da un lato ma qualche altro monaco, animato da buone intenzioni, li spingeva dall’altro. Alcuni confratelli avevano evidentemente perduto la calma, altri erano ancora intorpiditi dal sonno. Io cercavo di spiegare, ché ormai avevo ripreso l’uso della parola, ma è necessario ricordare che ero pressoché ignudo, avendo buttato la tonaca alle fiamme, e la vista del ragazzo che ero, sanguinante, annerito nel volto dalla fuliggine, indecentemente implume nel corpo, instupidito ora dal freddo, non doveva certo ispirare fiducia.

Finalmente Nicola riuscì a trascinare alcuni confratelli e altra gente nella cucina, che frattanto qualcuno aveva reso accessibile. Qualcun altro ebbe il buon senso di portare delle torce. Trovammo il locale in gran disordine, e compresi che Guglielmo doveva averlo messo a soqquadro per cercare acqua e recipienti adatti al trasporto.

Vidi in quel mentre proprio Guglielmo che sbucava dalla porta del refettorio, il volto bruciacchiato, l’abito fumigante, in mano aveva una gran pignatta e provai pietà per lui, povera allegoria dell’impotenza. Compresi che, se pure era riuscito a trasportare al secondo piano una pentola d’acqua senza rovesciarla, e se pure lo aveva fatto più d’una volta, doveva aver ottenuto ben poco. Mi sovvenni della storia di sant’Agostino, quando vede un fanciullo che tenta di travasare l’acqua del mare con un cucchiaio: il fanciullo era un angelo e così faceva per prendersi gioco del santo che pretendeva penetrare i misteri della natura divina. E come l’angelo mi parlò Guglielmo appoggiandosi esausto allo stipite della porta: « E’ impossibile, non ce la faremo mai, neppure con tutti i monaci dell’abbazia. La biblioteca è perduta. » Diversamente dall’angelo, Guglielmo piangeva.

Io mi strinsi a lui, mentre egli strappava da un tavolo un panno e tentava di ricoprirmi. Ci fermammo a osservare, ormai sconfitti, ciò che accadeva intorno a noi.

Era un accorrere disordinato di gente, alcuni salivano a mani nude e si incrociavano per la scala a chiocciola con chi a mani nude, spinto da stolida curiosità, era già salito, e ora discendeva a cercar recipienti. Altri più accorti cercavano subito pentole e bacili, per accorgersi che in cucina non vi era acqua bastante. All’improvviso lo stanzone fu invaso da alcuni muli che recavano degli orci, e i vaccari che li spingevano, li scaricarono e accennarono a trasportare l’acqua in alto. Ma non conoscevano la strada per salire allo scriptorium, e ci volle del tempo prima che alcuni degli scrivani li istruissero, e quando salivano si scontravano con coloro che discendevano terrorizzati. Alcuni degli orci si infransero e sparsero l’acqua per terra, altri furono passati lungo le scale a chiocciola da mani volonterose. Seguii il gruppo e mi trovai nello scriptorium: dall’accesso alla biblioteca proveniva un fumo denso, gli ultimi che avevano tentato di spingersi su per il torrione orientale già ritornavano tossendo con gli occhi arrossati e dichiaravano che non si poteva più penetrare in quell’inferno.

Vidi allora Bencio. Alterato in viso, con un enorme recipiente saliva dal piano inferiore. Udì quello che dicevano i reduci e li apostrofò: « L’inferno ingoierà voi tutti, vigliacchi! » Si voltò come per cercare aiuto e mi vide: « Adso, » gridò, « la biblioteca... la biblioteca... » Non attese la mia risposta. Corse ai piedi della scala e penetrò arditamente nel fumo. Fu l’ultima volta che lo vidi.

Avvertii uno scricchiolio che proveniva dall’alto. Dalle volte dello scriptorium cadevano pezzi di pietra misti a calce. Una chiave di volta scolpita in forma di fiore si staccò e quasi mi precipitava sul capo. Il pavimento del labirinto stava cedendo.

Scesi di corsa al piano terreno e uscii all’aperto. Alcuni famigli volonterosi avevano portato delle scale con le quali tentavano di raggiungere le finestre dei piani alti e far passare l’acqua per quella via. Ma le scale più lunghe arrivavano a malapena alle finestre dello scriptorium e chi vi era salito non poteva aprirle dall’esterno. Mandarono a dire di aprirle dall’interno, ma nessuno ora ardiva più salire.

Frattanto io guardavo le finestre del terzo piano. La biblioteca tutta doveva essere diventata ormai un solo braciere fumigante e il fuoco ora correva di stanza in stanza aprendosi rapido alle migliaia di pagine riarse. Tutte le finestre erano ormai illuminate, un fumo nero usciva dal tetto: il fuoco si era già comunicato alle travature di copertura. L’Edificio, che sembrava così solido e tetragono, rivelava in quel frangente la sua debolezza, le sue crepe, i muri mangiati sin dall’interno, le pietre sgretolate che permettevano alla fiamma di raggiungere le intelaiature di legno ovunque esse fossero.

D’un tratto alcune finestre si spezzarono come premute da una forza interna, le scintille uscirono all’aperto punteggiando di luci vaganti il buio della notte. Il vento, da forte era divenuto più leggero, e fu sventura, perché forte avrebbe forse spento le scintille, leggero le trasportava eccitandole, e con loro faceva volteggiare nell’aria brandelli di pergamena, resi esili da una interna face. A quel punto si udì uno schianto: il pavimento del labirinto aveva ceduto in qualche punto precipitando le sue travi infuocate al piano inferiore, perché ora vidi lingue di fiamma alzarsi dallo scriptorium, anch’esso popolato di libri e di armadi, e di carte sciolte, distese sui tavoli, pronte alla sollecitazione delle scintille. Udii delle grida di disperazione provenire da un gruppo di scrivani che si mettevano le mani nei capelli e ancora divisavano di salire eroicamente, per ricuperare le loro pergamene amatissime. Invano, ché la cucina e il refettorio erano ormai un incrocio di anime perdute agitantesi in tutte le direzioni, dove ciascuno ostacolava gli altri. La gente si urtava, cadeva, chi aveva un recipiente ne rovesciava il salvifico contenuto, i muli penetrati in cucina avevano avvertito la presenza del fuoco e scalpitando si precipitavano verso le uscite urtando gli umani e i loro stessi spaventatissimi palafrenieri. Si vedeva bene che, in ogni caso, quella turba di villani e di uomini devoti e saggi, ma inabilissimi, non diretta da alcuno, stava intralciando anche quei soccorsi che pure avessero potuto sopraggiungere.


Tutto il pianoro era in preda al disordine. Ma si era appena all’inizio della tragedia. Perché, uscendo dalle finestre e dal tetto, la nube ormai trionfante delle scintille, incoraggiata dal vento, stava ricadendo ovunque, toccando le coperture della chiesa. Non v’è chi non sappia quante splendide cattedrali siano state vulnerabili al morso del fuoco: perché la casa di Dio appare bella e ben difesa come la Gerusalemme celeste a causa della pietra di cui fa pompa, ma le mura e le volte si reggono su di una fragile, per quanto mirabile, architettura di legno, e se la chiesa di pietra ricorda le foreste più venerabili per le sue colonne che si diramano alte nelle volte, ardite come querce, della quercia ha sovente il corpo — come ha parimenti di legno tutto il proprio arredo, gli altari, i cori, le tavole dipinte, le panche, gli scranni, i candelabri. Così accadde per la chiesa abbaziale dal portale bellissimo che tanto mi aveva affascinato il primo giorno. Essa prese fuoco in un tempo brevissimo. I monaci e la popolazione tutta del pianoro capirono allora che era in gioco la sopravvivenza stessa dell’abbazia, e tutti si misero a correre ancora più bravamente e disordinatamente per far fronte al pericolo.

Certo la chiesa era più accessibile e quindi più difendibile della biblioteca. La biblioteca era stata condannata dalla sua stessa impenetrabilità, dal mistero che la proteggeva, dall’avarizia dei suoi accessi. La chiesa, aperta maternamente a tutti nell’ora della preghiera, a tutti era aperta nell’ora del soccorso. Ma non v’era più acqua, o almeno pochissima se ne poteva reperire depositata in quantità sufficiente, le sorgenti ne fornivano con naturale parsimonia e con lentezza non commisurata all’urgenza della bisogna. Tutti avrebbero voluto spegnere l’incendio della chiesa, nessuno sapeva ormai come. Inoltre il fuoco si era comunicato dall’alto, dove era difficile issarsi per battere le fiamme o soffocarle con terra e stracci. E quando le fiamme arrivarono da basso, era ormai inutile buttarvi terra o sabbia, ché il soffitto ormai rovinava sui soccorritori travolgendone non pochi.

Così alle grida di rimpianto per le molte ricchezze arse si stavano ora unendo le grida di dolore per i volti ustionati, le membra schiacciate, i corpi scomparsi sotto un repentino precipitar di volte.

Il vento si era fatto di nuovo impetuoso e più impetuosamente alimentava il contagio. Subito dopo la chiesa presero fuoco gli stabbi e le stalle. Gli animali terrorizzati spezzarono i loro legami, travolsero le porte, si sparsero per il pianoro nitrendo, muggendo, belando, grugnendo orribilmente. Alcune scintille raggiunsero la criniera di molti cavalli e si vide la spianata percorsa da creature infernali, da destrieri fiammeggianti che travolgevano tutto sul loro cammino che non aveva né meta né requie. Vidi il vecchio Alinardo, che si aggirava smarrito senza aver compreso cosa accadesse, travolto dal magnifico Brunello, aureolato di fuoco, trasportato nella polvere e ivi abbandonato, povera cosa informe. Ma non ebbi né modo né tempo di soccorrerlo, né di piangere la sua fine, perché scene non dissimili avvenivano ormai per ogni dove.

I cavalli in fiamme avevano trasportato il fuoco là dove il vento non lo aveva ancora fatto: ora ardevano anche le officine e la casa dei novizi. Torme di persone correvano da un capo all’altro della spianata, senza meta o con mete illusorie. Vidi Nicola, il capo ferito, l’abito a brandelli, che ormai vinto, in ginocchio sul viale di accesso, malediceva la maledizione divina. Vidi Pacifico da Tivoli che, rinunciando a ogni idea di soccorso, stava cercando di afferrare al passaggio un mulo imbizzarrito, e come vi riuscì mi gridò di fare anch’io la stessa cosa, e di fuggire, per sfuggire a quella bieca parvenza di Armageddon.

Mi chiesi allora dove fosse Guglielmo e temetti che fosse stato travolto da un crollo. Lo trovai dopo lunga ricerca nei pressi del chiostro. Aveva in mano la sua sacca da viaggio: mentre il fuoco già si comunicava alla casa dei pellegrini era salito nella sua cella per salvare almeno le sue preziosissime cose. Aveva preso anche la mia sacca, in cui trovai qualcosa di cui rivestirmi. Ci soffermammo ansanti a guardare cosa avveniva d’intorno.

Ormai l’abbazia era condannata. Quasi tutti i suoi edifici erano, quale più quale meno, raggiunti dal fuoco. Quelli ancora intatti, non lo sarebbero stati tra poco, perché tutto ormai, dagli elementi naturali all’opera confusa dei soccorritori, collaborava a propagare l’incendio.

Salve rimanevano le parti non edificate, l’orto, il giardino davanti al chiostro... Non si poteva fare più nulla per salvare le costruzioni ma bastava abbandonare l’idea di salvarle per poter osservare tutto senza pericolo, stando in zona aperta.

Guardammo la chiesa che ormai ardeva lentamente, perché è proprio di queste grandi costruzioni avvampare subito nelle parti lignee e poi agonizzare per ore, talora per giorni. Diversamente fiammeggiava ancora l’Edificio. Qui il materiale combustibile era molto più ricco, il fuoco ormai propagatosi del tutto per lo scriptorium aveva ora invaso il piano della cucina. Quanto al terzo piano, dove un tempo e per centinaia di anni v’era stato il labirinto, era ormai praticamente distrutto.

« Era la più grande biblioteca della cristianità, » disse Guglielmo. « Ora, » aggiunse, « l’Anticristo è veramente vicino perché nessuna sapienza gli farà più da barriera. D’altra parte ne abbiamo visto il volto questa notte. »

« Il volto di chi? » domandai stordito.

« Jorge, dico. In quel viso devastato dall’odio per la filosofia, ho visto per la prima volta il ritratto dell’Anticristo, che non viene dalla tribù di Giuda come vogliono i suoi annunciatori, né da un paese lontano. L’Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. Jorge ha compiuto un’opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, ’fare ridere la verità’, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità. »

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