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Il nome della rosa


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« Non ti seguo, » disse Jorge. « Sei orgoglioso di mostrarmi come seguendo la tua ragione sei giunto sino a me e però mi dimostri che ci sei arrivato seguendo una ragione sbagliata. Cosa vuoi dirmi? »

« Nulla, a te. Sono sconcertato, ecco tutto. Ma non importa. Sono qui. »

« Il Signore suonava le sette trombe. E tu, sia pure nel tuo errore, hai udito una eco confusa di quel suono. »

« Questo lo hai già detto nella predica di ieri sera. Cerchi di convincerti che tutta questa storia abbia proceduto secondo un disegno divino per celare a te stesso il fatto che sei un assassino. »

« Io non ho ucciso nessuno. Ciascuno è caduto seguendo il suo destino a causa dei suoi peccati. Io sono stato solo uno strumento. »

« Ieri hai detto che anche Giuda fu uno strumento. Ciò non toglie che sia stato dannato. »

« Accetto il rischio della dannazione. Il Signore mi assolverà, perché sa che ho agito per la sua gloria. Il mio dovere era proteggere la biblioteca. »

« Ancora pochi momenti fa eri pronto a uccidere anche me, e anche questo ragazzo... »

« Sei più sottile, ma non migliore degli altri. »

« E ora che accadrà, ora che ho sventato l’insidia? »

« Lo vedremo, » rispose Jorge. « Non voglio necessariamente la tua morte. Forse riuscirò a convincerti. Ma dimmi prima, come hai indovinato che si trattava del secondo libro di Aristotele? »

« Non mi sarebbero bastati certo i tuoi anatemi contro il riso, né il poco che ho saputo sulla discussione che avesti con gli altri. Sono stato aiutato da alcuni appunti lasciati da Venanzio. Non capivo a tutta prima cosa volessero dire. Ma c’erano alcuni riferimenti a una pietra svergognata che rotola per la pianura, alle cicale che canteranno da sotto la terra, ai venerandi fichi. Avevo già letto qualcosa del genere: ho controllato in questi giorni. Sono esempi che Aristotele faceva già nel primo libro della Poetica, e nella Retorica. Poi mi sono ricordato che Isidoro da Siviglia definisce la commedia come qualcosa che racconta stupra virginum et amores meretricum... Piano piano mi si è disegnato nella mente questo secondo libro come avrebbe dovuto essere. Te lo potrei raccontare quasi tutto, senza leggere le pagine che dovrebbero infettarmi. La commedia nasce nelle komai ovvero nei villaggi dei contadini, come celebrazione giocosa dopo un pasto o una festa. Non racconta degli uomini famosi e potenti, ma di esseri vili e ridicoli, non malvagi, e non termina con la morte dei protagonisti. Raggiunge l’effetto di ridicolo mostrando degli uomini comuni, i difetti e i vizi. Qui Aristotele vede la disposizione al riso come una forza buona, che può avere anche un valore conoscitivo, quando attraverso enigmi arguti e metafore inattese, pur dicendoci le cose diverse da ciò che sono, come se mentisse, di fatto ci obbliga a guardarle meglio, e ci fa dire: ecco le cose stavano proprio così, e io non lo sapevo. La verità raggiunta attraverso la rappresentazione degli uomini, e del mondo, peggiori di quello che sono o di quello che li crediamo, peggiori in ogni caso di come i poemi eroici, le tragedie, le vite dei santi ce li hanno mostrati. E’ così? »

« Abbastanza. L’hai ricostruito leggendo altri libri? »

« Su molti dei quali stava lavorando Venanzio. Credo che Venanzio fosse da tempo alla ricerca di questo libro. Deve aver letto sul catalogo le indicazioni che ho letto anch’io ed essersi convinto che quello era il libro che lui cercava. Ma non sapeva come entrare nel finis Africae. Quando ha udito Berengario parlarne ad Adelmo, allora si è lanciato come il cane sulla pista di una lepre. »

« E’ stato così, me ne resi conto subito. Capii che era arrivato il momento che avrei dovuto difendere la biblioteca coi denti... »

« E hai dato l’unguento. Devi aver fatto fatica... al buio. »

« Ormai vedono più le mie mani che i tuoi occhi. A Severino avevo sottratto anche un pennello. E ho usato anch’io i guanti. E’ stata una bella idea, vero? Ci hai messo molto ad arrivarci... »

« Sì. Io pensavo a un congegno più complesso, a un dente avvelenato o a qualcosa di simile. Devo dire che la tua soluzione era esemplare, la vittima si avvelenava da sola, e proprio nella misura in cui voleva leggere... »

Mi resi conto, con un brivido. che in quel momento quei due uomini, schierati per una lotta mortale, si ammiravano a vicenda, come se ciascuno avesse agito solo per ottenere il plauso dell’altro. La mia mente fu attraversata dal pensiero che le arti dispiegate da Berengario per sedurre Adelmo, e i gesti semplici e naturali con cui la fanciulla aveva suscitato la mia passione e il mio desiderio, erano nulla, quanto ad astuzia, e forsennata abilità nel conquistare l’altro, di fronte alla vicenda di seduzione che si svolgeva sotto i miei occhi in quel momento, e che si era dipanata lungo sette giorni, ciascuno dei due interlocutori dando, per così dire, misteriosi convegni all’altro, ciascuno segretamente aspirando all’approvazione dell’altro, che temeva e odiava.

« Ma ora dimmi, » stava dicendo Guglielmo, « perché? Perché hai voluto proteggere questo libro più di tanti altri? Perché nascondevi, ma non a prezzo del delitto, trattati di negromanzia, pagine in cui si bestemmiava, forse, il nome di Dio, ma per queste pagine hai dannato i tuoi fratelli e hai dannato te stesso? Ci sono tanti altri libri che parlano della commedia, tanti altri ancora che contengono l’elogio del riso. Perché questo ti incuteva tanto spavento? »

« Perché era del Filosofo. Ogni libro di quell’uomo ha distrutto una parte della sapienza che la cristianità aveva accumulato lungo i secoli. I padri avevano detto ciò che occorreva sapere sulla potenza del Verbo, ed è bastato che Boezio commentasse il Filosofo perché il mistero divino del Verbo si trasformasse nella parodia umana delle categorie e del sillogismo. Il libro del Genesi dice quello che bisogna sapere sulla composizione del cosmo, ed è bastato che si riscoprissero i libri fisici del Filosofo, perché l’universo fosse ripensato in termini di materia sorda e viscida, e perché l’arabo Averroè quasi convincesse tutti della eternità del mondo. Sapevamo tutto sui nomi divini, e il domenicano seppellito da Abbone — sedotto dal Filosofo — li ha rinominati seguendo i sentieri orgogliosi della ragione naturale. Così il cosmo, che per l’Areopagita si manifestava a chi sapesse guardare in alto la cascata luminosa della causa prima esemplare, è diventato una riserva di indizi terrestri dai quali si risale per nominare una astratta efficienza. Prima guardavamo al cielo, degnando di uno sguardo corrucciato la melma della materia, ora guardiamo alla terra, e crediamo al cielo sulla testimonianza della terra. Ogni parola del Filosofo, su cui ormai giurano anche i santi e i pontefici, ha capovolto l’immagine del mondo. Ma egli non era giunto a capovolgere l’immagine di Dio. Se questo libro diventasse... fosse diventato materia di aperta interpretazione, avremmo varcato l’ultimo limite. »



« Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso? Non elimini il riso eliminando questo libro. »

« No, certo. Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. E’ il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato, anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni... Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la plebe. Lo diceva anche l’apostolo, piuttosto di bruciare, sposatevi. Piuttosto di ribellarvi all’ordine voluto da Dio, ridete e dilettatevi delle vostre immonde parodie dell’ordine, alla fine del pasto, dopo che avete vuotato le brocche e i fiaschi. Eleggete il re degli stolti, perdetevi nella liturgia dell’asino e del maiale, giocate a rappresentare i vostri saturnali a testa in giù... Ma qui, qui... » ora Jorge batteva il dito sul tavolo, vicino al libro che Guglielmo teneva davanti, « qui si ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte, gli si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia, e di perfida teologia... Tu hai visto ieri come i semplici possono concepire, e mettere in atto, le più torbide eresie, disconoscendo e le leggi di Dio e le leggi della natura. Ma la chiesa può sopportare l’eresia dei semplici, i quali si condannano da soli, rovinati dalla loro ignoranza. La incolta dissennatezza di Dolcino e dei suoi pari non porrà mai in crisi l’ordine divino. Predicherà violenza e morirà di violenza, non lascerà traccia, si consumerà così come si consuma il carnevale, e non importa se durante la festa si sarà prodotta in terra, e per breve tempo, l’epifania del mondo alla rovescia. Basta che il gesto non si trasformi in disegno, che questo volgare non trovi un latino che lo traduca. Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte come la tua trarrebbero l’estremo sillogismo, per cui il riso è il fine dell’uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura il cui nome vero è timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire: ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l’affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini? Per secoli i dottori e i padri hanno secreto profumate essenze di santo sapere per redimere, attraverso il pensiero di ciò che è alto, la miseria e la tentazione di ciò che è basso. E questo libro, giustificando come miracolosa medicina la commedia, e la satira e il mimo, che produrrebbero la purificazione dalle passioni attraverso la rappresentazione del difetto, del vizio, della debolezza, indurrebbe i falsi sapienti a tentar di redimere (con diabolico rovesciamento) l’alto attraverso l’accettazione del basso. Da questo libro deriverebbe il pensiero che l’uomo può volere sulla terra (come suggeriva il tuo Bacone a proposito della magìa naturale) l’abbondanza stessa del paese di Cuccagna. Ma è questo che non dobbiamo e non possiamo avere. Guarda i monacelli che si svergognano nella parodia buffonesca della ’Coena Cypriani’. Quale diabolica trasfigurazione della sacra scrittura! Eppure nel farlo sanno che ciò è male. Ma il giorno che la parola del Filosofo giustificasse i giochi marginali della immaginazione sregolata, oh allora veramente ciò che stava a margine balzerebbe nel centro, e del centro si perderebbe ogni traccia. Il popolo di Dio si trasformerebbe in una assemblea di mostri eruttati dagli abissi della terra incognita, e in quel momento la periferia della terra conosciuta diventerebbe il cuore dell’impero cristiano, gli arimaspi sul trono di Pietro, i blemmi nei monasteri, i nani dal ventre grosso e dalla testa immensa a guardia della biblioteca! I servi a dettare la legge, noi (ma anche tu, allora) a ubbidire alla vacanza di ogni legge. Disse un filosofo greco (che il tuo Aristotele qui cita, complice e immonda auctoritas) che si deve smantellare la serietà degli avversari con il riso, e il riso avversare con la serietà. La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il diletto della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e umiliata, e intimorita con la severità. E la plebe non ha armi per affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà dei pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle seduzioni del ventre, delle pudenda, del cibo, dei suoi sordidi desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi parlando da filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione. se alla topica della paziente e salvifica costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica dell’impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le immagini più sante e venerabili — oh quel giorno anche tu e tutta la tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti! »

« Perché? Mi batterei, la mia arguzia contro l’arguzia altrui. Sarebbe un mondo migliore di quello in cui il fuoco e il ferro rovente di Bernardo Gui umiliano il fuoco e il ferro rovente di Dolcino. »

« Saresti preso ormai tu stesso nella trama del demonio. Combatteresti dall’altra parte del campo dell’Armageddon, dove dovrà avvenire lo scontro finale. Ma per quel giorno la chiesa deve saper imporre ancora una volta la regola del conflitto. Non ci fa paura la bestemmia, perché anche nella maledizione di Dio riconosciamo l’immagine stranita dell’ira di Geova che maledice gli angeli ribelli. Non ci fa paura la violenza di chi uccide i pastori in nome di qualche fantasia di rinnovamento, perché è la stessa violenza dei principi che cercarono di distruggere il popolo di Israele. Non ci fa paura il rigore del donatista, la follia suicida del circoncellione, la lussuria del bogomilo, l’orgogliosa purezza dell’albigese, il bisogno di sangue del flagellante, la vertigine del male del fratello del libero spirito: li conosciamo tutti e conosciamo la radice dei loro peccati che è la radice stessa della nostra santità. Non ci fanno paura e soprattutto sappiamo come distruggerli, meglio, come lasciare che si distruggano da soli portando protervamente allo zenit la volontà di morte che nasce dagli abissi stessi del loro nadir. Anzi, vorrei dire, la loro presenza ci è preziosa, si iscrive nel disegno di Dio, perché il loro peccato incita la nostra virtù, la loro bestemmia incoraggia il nostro canto di lode, la loro sregolata penitenza regola il nostro gusto del sacrificio, la loro empietà fa risplendere la nostra pietà, così come il principe delle tenebre è stato necessario, con la sua ribellione e la sua disperazione, a far meglio rifulgere la gloria di Dio, principio e fine di ogni speranza. Ma se un giorno — e non più come eccezione plebea, ma come ascesi del dotto, consegnata alla testimonianza indistruttibile della scrittura — si facesse accettabile, e apparisse nobile, e liberale, e non più meccanica, l’arte dell’irrisione, se un giorno qualcuno potesse dire (ed essere ascoltato): io rido dell’Incarnazione... Allora non avremmo armi per arrestare quella bestemmia, perché essa chiamerebbe a raccolta le forze oscure della materia corporale, quelle che si affermano nel peto e nel rutto, e il rutto e il peto si arrogherebbero il diritto che è solo dello spirito, di spirare dove vuole! »

« Licurgo aveva fatto ereggere una statua al riso. »

« Lo hai letto sul libello di Clorizio, che tentò di assolvere i mimi dalla accusa di empietà, che dice come un malato fu guarito da un medico che lo aveva aiutato a ridere. Perché bisognava guarirlo, se Dio aveva stabilito che la sua giornata terrena era giunta alla fine? »

« Non credo lo abbia guarito dal male. Gli ha insegnato a ridere del male. »

« Il male non si esorcizza. Si distrugge. »

« Col corpo del malato. »

« Se è necessario. »

« Tu sei il diavolo, » disse allora Guglielmo.

Jorge parve non capire. Se fosse stato veggente direi che avrebbe fissato il suo interlocutore con sguardo attonito. « Io? » disse.

« Sì, ti hanno mentito. Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto. Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre. Se volevi convincermi, non ci sei riuscito. Io ti odio, Jorge, e se potessi ti condurrei giù, per il pianoro, nudo con penne di volatili infilate nel buco del culo, e la faccia dipinta come un giocoliere e un buffone, perché tutto il monastero ridesse di te, e non avesse più paura. Mi piacerebbe cospargerti di miele e poi avvoltolarti nelle piume, portarti al guinzaglio nelle fiere, per dire a tutti: costui vi annunciava la verità e vi diceva che la verità ha il sapore della morte, e voi non credevate alla sua parola, bensì alla sua tetraggine. E ora io vi dico che, nella infinita vertigine dei possibili, Dio vi consente anche di immaginarvi un mondo in cui il presunto interprete della verità altro non sia che un merlo goffo, che ripete parole apprese tanto tempo fa. »

« Tu sei peggio del diavolo, minorita, » disse allora Jorge. « Sei un giullare, come il santo che vi ha partoriti. Sei come il tuo Francesco che de toto corpore fecerat linguam, che teneva sermoni dando spettacoli come i saltimbanchi, che confondeva l’avaro mettendogli in mano monete d’oro, che umiliava la devozione delle suore recitando il « Miserere » invece della predica, che mendicava in francese, e imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino, che si travestiva da vagabondo per confondere i frati ghiottoni, che si gettava nudo sulla neve, parlava con gli animali e le erbe, trasformava lo stesso mistero della natività in spettacolo da villaggio, invocava l’agnello di Bethlehem imitando il belato della pecora... Fu una buona scuola... Non era minorita quel frate Diotisalvi da Firenze? »

« Sì, » sorrise Guglielmo. « Quello che andò al convento dei predicatori e disse che non avrebbe accettato cibo se prima non gli avessero dato un pezzo della tunica di fra Giovanni, onde conservarla come reliquia, e quando l’ebbe vi si pulì il sedere e poi la gettò nel letamaio e con una pertica la rotolava nello sterco gridando: ahimè, aiutatemi fratelli perché ho perso nella latrina le reliquie del santo! »

« Ti diverte questa storia, mi pare. Forse vorrai raccontarmi anche quella dell’altro minorita, frate Paolo Millemosche, che un giorno è caduto lungo disteso sul ghiaccio e i suoi cittadini lo dileggiavano e uno gli chiese se non avrebbe voluto aver qualcosa di meglio sotto di sé, ed egli rispose a quello: sì, tua moglie... Così voi cercavate la verità. »

« Così Francesco insegnava alla gente a guardare le cose da un’altra parte. »

« Ma vi abbiamo disciplinati. Li hai visti ieri, i tuoi confratelli. Sono rientrati nelle nostre file, non parlano più come i semplici. I semplici non debbono parlare. Questo libro avrebbe giustificato l’idea che la lingua dei semplici sia portatrice di qualche saggezza. Questo occorreva impedire, questo io ho fatto. Tu dici che io sono il diavolo: non è vero. Io sono stato la mano di Dio. »

« La mano di Dio crea, non nasconde. »

« Ci sono dei confini al di là dei quali non è permesso andare. Dio ha voluto che su certe carte fosse scritto: hic sunt leones. »

« Dio ha creato anche i mostri. Anche te. E di tutto vuole che si parli. »

Jorge allungò le mani tremule e trasse a sé il libro. Lo teneva aperto, ma capovolto, in modo che Guglielmo continuasse a vederlo per il verso giusto. « Allora perché, » disse, « ha lasciato che questo testo andasse perduto lungo il corso dei secoli, e se ne salvasse solo una copia, che la copia di quella copia, finita chissà dove, rimanesse seppellita per anni nelle mani di un infedele che non conosceva il greco, e poi giacesse abbandonata nel chiuso di una vecchia biblioteca dove io, non tu, io fui chiamato dalla provvidenza a trovarla, e a portarla con me, e a nasconderla per altri anni ancora? Io so, so come se lo vedessi scritto a lettere di diamante, coi miei occhi che vedono cose che tu non vedi, io so che questa era la volontà del Signore, interpretando la quale ho agito. Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo. »

Notte.


Dove avviene l’ecpirosi e a causa della troppa virtù prevalgono le forze dell’inferno.
Il vecchio tacque. Teneva ambo le mani aperte sul libro, quasi accarezzandone le pagine, come se stesse stendendo i fogli per leggerlo meglio, o volesse proteggerlo da una presa rapace.

« Tutto questo non è servito comunque a nulla, » gli disse Guglielmo. « Ora è finita, ti ho trovato, ho trovato il libro, e gli altri sono morti invano. »

« Non invano, » disse Jorge. « Forse in troppi. E se mai ti fosse servita una prova che questo libro è maledetto, l’hai avuta. Ma non debbono essere morti invano. E affinché non siano morti invano, un’altra morte non sarà di troppo. »

Disse, e incominciò con le sue mani scarnite e diafane a lacerare lentamente, a brani e a strisce, le pagine molli del manoscritto, ponendosele a brandelli in bocca, e masticando lentamente come se consumasse l’ostia e volesse farla carne della propria carne.

Guglielmo lo guardava affascinato e pareva non si rendesse conto di quanto avveniva. Poi si riscosse e si protese in avanti gridando: « Cosa fai? » Jorge sorrise scoprendo le gengive esangui, mentre una bava giallastra gli colava dalle labbra pallide sulla peluria bianca e rada del mento.

« Sei tu che attendevi il suono della settima tromba, non è vero? Ascolta ora cosa dice la voce: sigilla quello che han detto i sette tuoni e non lo scrivere, prendilo e divoralo, esso amareggerà il tuo ventre ma alla tua bocca sarà dolce come il miele. Vedi? Ora sigillo ciò che non doveva essere detto, nella tomba che divento. »

Rise, proprio lui, Jorge. Per la prima volta lo udii ridere... Rise con la gola, senza che le labbra si atteggiassero a letizia, e quasi sembrava che piangesse: « Non te la attendevi, Guglielmo, questa conclusione, vero? Questo vecchio per grazia del Signore vince ancora, nevvero? » E siccome Guglielmo cercava di sottrargli il libro, Jorge, che avvertì il gesto percependo la vibrazione dell’aria, si ritrasse stringendo il volume al petto con la sinistra, mentre con la destra continuava a stracciarne le pagine e a porsele in bocca.

Stava dall’altra parte del tavolo e Guglielmo, che non arrivava a toccarlo, tentò bruscamente di aggirare l’ostacolo. Ma fece cadere il suo scranno, impigliandovi la veste, in modo che Jorge ebbe modo di percepire il trambusto. Il vecchio rise ancora, questa volta più forte, e con insospettata rapidità protese la mano destra, a tentoni individuando il lume, guidato dal calore raggiunse la fiamma e vi premette sopra la mano, senza temere il dolore, e la fiamma si spense. La stanza piombò nell’oscurità e udimmo per l’ultima volta la risata di Jorge, che gridava: « Trovatemi ora, perché ora sono io che vedo meglio! » Poi tacque e non si fece più udire, muovendosi con quei passi silenziosi che rendevano sempre così inattese le sue apparizioni, e solo udivamo a tratti, in punti diversi della sala, il rumore della carta che si lacerava.

« Adso! » gridò Guglielmo, « stai sulla porta, non lasciare che esca! »

Ma aveva parlato troppo tardi perché io, che già da alcuni secondi fremevo dal desiderio di lanciarmi sul vecchio, al cader della tenebra mi ero buttato in avanti cercando di aggirare il tavolo dalla parte opposta a quella in cui si era mosso il mio maestro. Troppo tardi compresi che avevo dato modo a Jorge di guadagnare la porta, perché il vecchio sapeva dirigersi nel buio con straordinaria sicurezza. E infatti udimmo un rumore di carta lacerata alle nostre spalle, e abbastanza attutito, perché già proveniva dalla stanza attigua. E al tempo stesso udimmo un altro rumore, un cigolio stentato e progressivo, un gemere di cardini.

« Lo specchio! » gridò Guglielmo, « sta chiudendoci dentro! » Guidati dal rumore, entrambi ci buttammo verso l’entrata, io inciampai in uno sgabello e mi contusi una gamba, ma non ci feci caso, perché in un lampo capii che se Jorge ci avesse rinchiusi non saremmo mai più usciti: al buio non avremmo trovato il modo di aprire, non sapendo da quella parte cosa si dovesse manovrare e come.

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