Ana səhifə

Il nome della rosa


Yüklə 3.63 Mb.
səhifə40/88
tarix25.06.2016
ölçüsü3.63 Mb.
1   ...   36   37   38   39   40   41   42   43   ...   88

« Vostra sublimità pensa a qualche vicenda di cui ha appreso in confessione... » L’Abate rivolse lo sguardo altrove, e Guglielmo continuò: « Se vostra magnificenza vuole sapere se io sappia, senza saperlo dalla magnificenza vostra, se sono intercorsi rapporti disonesti tra Berengario e Adelmo, e tra Berengario e Malachia, ebbene, questo lo sanno tutti all’abbazia... »

L’Abate arrossì con violenza: « Non credo sia utile parlare di cose simili alla presenza di questo novizio. E non credo, a incontro avvenuto, che voi abbiate più bisogno di lui come scrivano. Esci ragazzo, » mi disse in tono d’imperio. Umiliato, uscii. Ma, curioso com’ero, mi acquattai dietro alla porta della sala, che lasciai socchiusa, in modo da poter seguire il dialogo.

Guglielmo riprese a parlare: « Allora, questi rapporti disonesti, se pure hanno avuto luogo, hanno avuto scarso ufficio in questi dolorosi avvenimenti. La chiave è un’altra, e pensavo che voi lo immaginaste. Tutto si svolge intorno al furto e al possesso di un libro, che era nascosto in finis Africae, e che ora è tornato laggiù a opera di Malachia, senza però, lo avete visto, che la sequenza dei crimini si sia interrotta. »

Ci fu un lungo silenzio, poi l’Abate riprese a parlare con voce rotta e incerta, come di persona sorpresa da inattese rivelazioni. « Non è possibile... Voi... Voi come fate a sapere del finis Africae? Avete violato il mio interdetto e siete entrato nella biblioteca? »

Guglielmo avrebbe dovuto dire la verità, e l’Abate si sarebbe adirato oltre misura. Non voleva evidentemente mentire. Scelse di rispondere alla domanda con un’altra domanda: « Non mi ha detto la magnificenza vostra durante il nostro primo incontro, che un uomo come me, che aveva descritto così bene Brunello senza averlo mai visto, non avrebbe avuto difficoltà a ragionare su luoghi a cui non poteva accedere? »

« E’ così dunque, » disse Abbone. « Ma perché pensate quello che pensate? »

« Come vi sia giunto, è lungo da raccontare. Ma è stata commessa una serie di delitti per impedire a molti di scoprire qualcosa che non si voleva venisse scoperto. Ora tutti quelli che sapevano qualcosa dei segreti della biblioteca, o per diritto o per frode, sono morti. Rimane solo una persona, voi.’

« Volete insinuare... volete insinuare... » l’Abate parlava come qualcuno a cui si stessero gonfiando le vene del collo.

« Non fraintendetemi, » disse Guglielmo, che probabilmente aveva anche provato a insinuare, « dico che c’è qualcuno che sa e che vuole che nessun altro sappia. Voi siete l’ultimo a sapere, voi potreste essere la prossima vittima. A meno che non mi diciate cosa sapete su quel libro interdetto e, soprattutto, chi c’è nell’abbazia che potrebbe saper quanto sapete voi, e forse più, sulla biblioteca. »

« Fa freddo qui, » disse l’Abate. « Usciamo. »

Io mi allontanai rapidamente dalla porta e li attesi al culmine della scala che portava da basso. L’Abate mi vide e mi sorrise.

« Quante cose inquietanti deve avere udito questo monacello in questi giorni! Suvvia ragazzo, non lasciarti troppo turbare. Mi pare che si siano immaginate più trame di quante ve ne siano... »

Alzò una mano e lasciò che la luce del giorno illuminasse uno splendido anello che recava all’anulare, insegna del suo potere. L’anello sfavillò in tutto il fulgore delle sue pietre.

« Lo riconosci, vero? » mi disse. « Simbolo della mia autorità ma anche del mio fardello. Non è un ornamento, è una splendida silloge della parola divina di cui sono custode. » Toccò con le dita la pietra ovvero il trionfo delle pietre variegate che componevano quel mirabile capolavoro dell’arte umana e della natura. « Ecco l’ametista, » disse, « che è specchio di umiltà e ci ricorda l’ingenuità e la dolcezza di san Matteo; ecco il calcedonio, insegna di carità, simbolo della pietà di Giuseppe e di san Giacomo maggiore; ecco il diaspro, che augura la fede, associato a san Pietro; e la sardonica, segno di martirio, che ci ricorda san Bartolomeo; ecco lo zaffiro, speranza e contemplazione, pietra di sant’Andrea e di san Paolo; e il berillo, sana dottrina, scienza e longanimità, virtù proprie di san Tommaso... Come è splendido il linguaggio delle gemme, » continuò assorto nella sua visione mistica, « che i lapidari della tradizione han tradotto dal razionale di Aronne e dalla descrizione della Gerusalemme celeste nel libro dell’apostolo. D’altra parte le mura di Sion erano intessute degli stessi gioielli che ornavano il pettorale del fratello di Mosè, salvo il carbonchio, l’agata e l’onice che, citati nell’Esodo, sono sostituiti nell’Apocalisse dal calcedonio, dalla sardonica, dal crisopazio e dal giacinto. »

Guglielmo fece per aprire bocca, ma l’Abate lo tacque alzando una mano e continuò il proprio discorso: « Ricordo un litaniale in cui ogni pietra era descritta e rimata in onore della Vergine. Vi si parlava del suo anello di fidanzamento come di un poema simbolico risplendente di verità superiori manifestate nel linguaggio lapidario delle pietre che lo abbellivano. Diaspro per la fede, calcedonio per la carità, smeraldo per la purezza, sardonica per la placidità della vita virginale, rubino per il cuore sanguinante sul calvario, crisolito di cui lo scintillio multiforme ricorda la meravigliosa varietà dei miracoli di Maria, giacinto per la carità, ametista, con la sua mescolanza di rosa e azzurro, per l’amore di Dio... Ma nel castone erano incrostate altre sostanze non meno eloquenti, come il cristallo che rinvia alla castità dell’anima e del corpo, il ligurio, che rassomiglia all’ambra, simbolo di temperanza, e la pietra magnetica che attira il ferro, così come la Vergine tocca le corde dei cuori penitenti con l’archetto della sua bontà. Tutte sostanze che, come vedete, ornano sia pure in minima e umilissima misura anche il mio gioiello. »

Muoveva l’anello e abbacinava i miei occhi con il suo sfavillio, come se volesse stordirmi. « Meraviglioso linguaggio, vero? Per altri padri le pietre significano altre cose ancora, per il papa Innocenzo Terzo il rubino annuncia la calma e la pazienza e la granata la carità. Per san Brunone l’acquamarina concentra la scienza teologica nella virtù dei suoi purissimi bagliori. Il turchese significa gioia, la sardonica evoca i serafini, il topazio i cherubini, il diaspro i troni, il crisolito le dominazioni, lo zaffiro le virtù, l’onice le potenze, il berillo i principati, il rubino gli arcangeli e lo smeraldo gli angeli. Il linguaggio delle gemme è multiforme, ciascuna esprime più verità, a seconda del senso di lettura che si sceglie, a seconda del contesto in cui appaiono. E chi decide quale sia il livello di interpretazione e quale il giusto contesto? Tu lo sai ragazzo, te l’hanno insegnato: è l’autorità, il commentatore tra tutti più sicuro e più investito di prestigio, e dunque di santità. Altrimenti come interpretare i segni multiformi che il mondo pone sotto i nostri occhi di peccatori, come non incappare negli equivoci in cui ci attrae il demonio? Bada, è singolare come il linguaggio delle gemme sia inviso al diavolo, teste santa Ildegarda. La bestia immonda vede in esso un messaggio che si illumina per sensi o livelli di sapienza diversi, ed egli vorrebbe stravolgerlo perché egli, il nemico, avverte nello splendore delle pietre l’eco delle meraviglie che aveva in suo possesso prima della caduta, e capisce che questi fulgori sono prodotti dal fuoco, che è il suo tormento. » Mi porse l’anello da baciare, e io mi inginocchiai. Mi accarezzò il capo. « E dunque tu, ragazzo, dimentica le cose senza dubbio erronee che hai udito in questi giorni. Tu sei entrato nell’ordine più grande e nobile tra tutti, di quest’ordine io sono un Abate, tu sei sotto la mia giurisdizione. E dunque, odi il mio ordine: dimentica, e che le tue labbra si suggellino per sempre. Giura. »

Commosso, soggiogato, avrei certo giurato. E tu, mio buon lettore, non potresti ora leggere questa mia cronaca fedele. Ma a quel punto intervenne Guglielmo, e non forse per impedirmi di giurare, ma per reazione istintiva, per fastidio, per interrompere l’Abate, per spezzare quell’incantesimo che esso aveva certamente creato.

« Cosa c’entra il ragazzo? Io vi ho posto una domanda, io vi ho avvertito di un pericolo, io vi ho chiesto di dirmi un nome... Vorrete ora che baci anch’io l’ane!lo e che giuri di dimenticare quanto ho saputo o quanto sospetto? »

« Oh, voi... » disse melanconicamente l’Abate, « non mi attendo da un frate mendicante che comprenda la bellezza delle nostre tradizioni, o che rispetti il riserbo, i segreti, i misteri di carità... sì, di carità, e il senso dell’onore, e il voto del silenzio su cui si regge la nostra grandezza... Voi mi avete parlato di una strana storia, di una storia incredibile. Un libro interdetto, per cui si uccide a catena, qualcuno che sa quello che solo io dovrei sapere... Fole, illazioni senza senso. Parlatene, se volete, nessuno vi crederà. E se pure qualche elemento della vostra fantasiosa ricostruzione fosse vero... ebbene, ora tutto ricade sotto il mio controllo e la mia responsabilità. Controllerò, ne ho i mezzi, ne ho l’autorità. Ho fatto male sin dall’inizio a richiedere a un estraneo, per quanto saggio, per quanto degno di confidenza, di indagare su cose che sono soltanto di mia competenza. Ma voi lo avete capito, me lo avete detto, io ritenevo all’inizio che si trattasse di una violazione del voto di castità, e volevo (imprudente che fui) che qualcun altro mi dicesse quello che io avevo sentito dire in confessione. Bene, ora me lo avete detto. Vi sono molto grato per quello che avete fatto o avete tentato di fare. L’incontro delle legazioni è avvenuto, la vostra missione quaggiù è terminata. Immagino vi si attenda con ansia alla corte imperiale, non ci si priva a lungo di un uomo come voi. Vi do licenza di lasciare l’abbazia. Forse oggi è tardi, non voglio che viaggiate dopo il tramonto, le strade sono insicure. Partirete domattina, di buonora. Oh, non ringraziatemi, è stata una gioia avervi fratello tra i fratelli e onorarvi della nostra ospitalità. Potrete ritirarvi col vostro novizio in modo da preparare il bagaglio. Vi saluterò ancora domani all’alba. Grazie, di gran cuore. Naturalmente, non occorre che continuiate a condurre le vostre investigazioni. Non turbate ulteriormente i monaci. Andate pure. »

Era più di un congedo, era una cacciata. Guglielmo salutò e scendemmo le scale.

« Che significa? » domandai. Non comprendevo più nulla.

« Prova a formulare una ipotesi. Dovresti avere imparato come si fa. »

« Se è così ho imparato che ne devo formulare almeno due, una in opposizione all’altra, e tutte e due incredibili. Bene, allora... » Deglutii: fare ipotesi mi metteva a disagio. « Prima ipotesi, l’Abate sapeva già tutto e immaginava che voi non avreste scoperto nulla. Vi aveva incaricato dell’indagine prima, quando era morto Adelmo, ma piano piano ha capito che la storia era molto più complessa, coinvolge in qualche modo anche lui, e non vuole che voi mettiate a nudo questa trama. Seconda ipotesi, l’Abate non ha mai sospettato di nulla (di cosa, poi; non so, perché non so a cosa voi stiate ora pensando). Ma in ogni caso continuava a pensare che tutto fosse dovuto a una lite tra... tra monaci sodomiti... Ora però voi gli avete aperto gli occhi, egli ha capito di colpo qualcosa di terribile, ha pensato a un nome, ha una idea precisa sul responsabile dei delitti. Ma a questo punto vuole risolvere la questione da solo e vuole allontanarvi, per salvare l’onore dell’abbazia. »

« Buon lavoro. Incominci a ragionare bene. Ma già vedi che in entrambi i casi il nostro Abate è preoccupato della buona reputazione del suo monastero. Assassino o vittima designata che sia, non vuole che trapelino oltre queste montagne notizie diffamatorie su questa santa comunità. Ammazzagli i monaci, ma non toccargli l’onore di questa abbazia. Ah, per... » Guglielmo si stava ora adirando. « Quel bastardo di un feudatario, quel pavone diventato celebre per aver fatto da becchino all’Aquinate, quell’otre gonfiato che esiste solo perché porta un anello grosso come un culo di bicchiere! Razza di superbo, razza di superbi voi tutti cluniacensi, peggio dei principi, più baroni dei baroni! »

« Maestro... » azzardai, piccato, in tono di rimprovero.

« Taci tu, che sei della stessa pasta. Voi non siete dei semplici, né figli di semplici. Se vi capita un contadino forse lo accogliete, ma ho visto ieri, non esitate a consegnarlo al braccio secolare. Ma uno dei vostri no, bisogna coprire, Abbone è capace di individuare lo sciagurato e di pugnalarlo nella cripta del tesoro, e distribuirne i rognoni nei suoi reliquiari, purché l’onore dell’abbazia sia salvo... Un francescano, un plebeo minorita che scopre la verminaia di questa santa casa? Eh no, questo Abbone non può permetterselo a nessun costo. Grazie frate Guglielmo, l’imperatore ha bisogno di voi, avete visto che bell’anello che ho, arrivederci. Ma ormai la sfida non è solo tra me e Abbone, è tra me e tutta la vicenda, io non esco da questa cinta prima di aver saputo. Vuole che io parta domattina? Bene, lui è il padrone di casa, ma entro domattina io devo sapere. Devo. »

« Dovete? Chi ve lo impone, ormai? »

« Nessuno ci impone di sapere, Adso. Si deve, ecco tutto, anche a costo di capire male. »

Ero ancora confuso e umiliato per le parole di Guglielmo contro il mio ordine e i suoi abati. E tentai di giustificare in parte Abbone formulando una terza ipotesi, arte in cui ero divenuto, mi pareva, abilissimo: « Non avete considerato una terza possibilità, maestro, » dissi. « Abbiamo notato in questi giorni, e stamane ci è apparso chiaro dopo le confidenze di Nicola e le mormorazioni che abbiamo colto in chiesa, che vi è un gruppo di monaci italiani che male sopportavano la sequenza dei bibliotecari stranieri, che accusano l’Abate di non rispettare la tradizione e che, a quanto ho capito, si nascondono dietro il vecchio Alinardo, spingendolo davanti a sé come uno stendardo, per chiedere un diverso governo dell’abbazia. Queste cose le ho capite bene, perché anche un novizio ha sentito nel suo monastero tante discussioni, e allusioni, e complotti di questa natura. E allora forse l’Abate teme che le vostre rivelazioni possano offrire un’arma ai suoi nemici, e vuole dirimere tutta la questione con grande prudenza... »

« E’ possibile. Ma rimane un otre gonfiato, e si farà ammazzare. »

« Ma voi cosa ne pensate delle mie congetture? »

« Te lo dirò più tardi. »

Eravamo nel chiostro. Il vento era sempre più rabbioso, la luce meno chiara, anche se da poco era trascorsa nona. Il giorno si stava avvicinando al tramonto e ci rimaneva ben poco tempo. A vespro certamente l’Abate avrebbe avvertito i monaci che Guglielmo non aveva più alcun diritto di porre domande e di entrare dappertutto.

« E’ tardi, » disse Guglielmo, « e quando si ha poco tempo, guai a perdere la calma. Dobbiamo agire come se avessimo l’eternità davanti a noi. Ho un problema da risolvere, come penetrare nel finis Africae, perché là dovrebbe esserci la risposta finale. Poi dobbiamo salvare una persona, non ho ancora deciso quale. Infine dovremmo attenderci qualcosa dalla parte delle stalle, che tu terrai d’occhio... Guarda quanto movimento... »

Infatti lo spazio tra l’Edificio e il chiostro si era singolarmente animato. Un novizio, poco prima, che proveniva dalla casa dell’Abate, era corso verso l’Edificio. Ora ne usciva Nicola, che si dirigeva ai dormitori. In un angolo il gruppo della mattinata, Pacifico, Aymaro e Pietro, stavano parlando fittamente con Alinardo, come per convincerlo di qualcosa.

Poi parvero prendere una decisione. Aymaro sostenne Alinardo, ancora riluttante, e si avviò con lui verso la residenza abbaziale. Stavano entrandovi, quando dal dormitorio uscì Nicola, che conduceva Jorge nella stessa direzione. Vide i due che entravano, sussurrò qualcosa a Jorge nell’orecchio, il vegliardo scosse il capo, e proseguirono comunque verso il capitolo.

« L’Abate prende in pugno la situazione... » mormorò Guglielmo con scetticismo. Dall’Edificio stavano uscendo altri monaci che avrebbero dovuto stare nello scriptorium, seguiti subito dopo da Bencio, che ci venne incontro sempre più preoccupato.

« C’è fermento nello scriptorium, » ci disse, « nessuno lavora, tutti parlano fittamente tra di loro... Cosa accade? »

« Accade che le persone che sino a stamane parevano le più sospettabili sono morte tutte. Sino a ieri tutti si guardavano da Berengario, sciocco e infido e lascivo, poi dal cellario, eretico sospetto, infine da Malachia, così inviso a ciascuno... Ora non sanno più da chi guardarsi, e hanno bisogno urgente di trovare un nemico, o un capro espiatorio. E ciascuno sospetta dell’altro, alcuni hanno paura, come te, altri hanno deciso di far paura a qualcun altro. Siete tutti troppo agitati. Adso, dai ogni tanto uno sguardo alle stalle. Io vado a riposarmi. »

Avrei dovuto stupirmi: andarsi a riposare quando aveva poche ore ancora a disposizione, non sembrava la risoluzione più saggia. Ma ormai conoscevo il mio maestro. Quanto più il suo corpo era disteso, tanto più la sua mente era in effervescenza.

Tra vespro e compieta.

Dove in breve si racconta di lunghe ore di smarrimento..
Mi riesce difficile raccontare quello che accadde nelle ore che seguirono, tra vespro e compieta.

Guglielmo era assente. Io vagolavo intorno alle stalle ma senza notare nulla di anormale. I cavallari stavano facendo rientrare le bestie inquiete per il vento, ma per il resto tutto era tranquillo.

Entrai in chiesa. Tutti erano già ai loro posti negli stalli, ma l’Abate notò l’assenza di Jorge. Con un gesto ritardò l’inizio dell’ufficio. Chiamò Bencio perché andasse a cercarlo. Bencio non c’era. Qualcuno fece osservare che stava probabilmente disponendo lo scriptorium per la chiusura. L’Abate disse, seccato, che si era stabilito che Bencio non chiudesse nulla perché non conosceva le regole. Aymaro d’Alessandria si alzò dal suo posto: « Se la paternità vostra consente, vado io a chiamarlo... »

« Nessuno ti ha chiesto nulla, » disse l’Abate bruscamente, e Aymaro tornò al suo posto, non senza aver lanciato uno sguardo indefinibile a Pacifico da Tivoli. L’Abate chiamò Nicola, che non c’era. Gli ricordarono che stava predisponendo la cena ed egli ebbe un cenno di disappunto, come se gli spiacesse mostrare a tutti che si trovava in uno stato di eccitazione.

« Voglio Jorge qui, » gridò, « cercatelo! Vai tu, » ordinò al maestro dei novizi.

Un altro gli fece notare che mancava anche Alinardo. « Lo so, » disse l’Abate, « è infermo. » Mi trovavo vicino a Pietro da Sant’Albano e lo udii dire al suo vicino, Gunzo da Nola, in un volgare dell’Italia centrale, che in parte capivo: « Lo credo bene. Oggi quando è uscito dopo il colloquio il povero vecchio era sconvolto. Abbone si comporta come la puttana di Avignone! »

I novizi erano smarriti, con la loro sensibilità di fanciulli ignari avvertivano tuttavia la tensione che stava regnando nel coro, come l’avvertivo io. Passarono alcuni lunghi momenti di silenzio e di imbarazzo. L’Abate ordinò di recitare alcuni salmi, e ne indicò a caso tre, che non erano prescritti dalla regola per il vespro. Tutti si guardarono l’un l’altro, poi presero a pregare a voce bassa. Tornò il maestro dei novizi seguito da Bencio che raggiunse il suo posto a testa china. Jorge non era nello scriptorium e non era nella sua cella. L’Abate ordinò che l’ufficio avesse inizio.
Alla fine, prima che tutti scendessero a cena, mi recai a chiamare Guglielmo. Stava sdraiato sul suo giaciglio, vestito, immobile. Disse che non pensava che fosse così tardi. Gli raccontai brevemente quanto era successo. Scosse il capo.

Sulla porta del refettorio vedemmo Nicola, che poche ore prima aveva accompagnato Jorge. Guglielmo gli chiese se il vecchio era entrato subito dall’Abate. Nicola disse che aveva dovuto attendere a lungo fuori della porta, perché nella sala c’erano Alinardo e Aymaro d’Alessandria. Dopo Jorge era entrato, era rimasto dentro qualche tempo e lui lo aveva atteso. Quindi era uscito e si era fatto accompagnare in chiesa, un’ora prima di vespro, ancora deserta.

L’Abate ci scorse che parlavamo col cellario. « Frate Guglielmo, » ammonì, « state ancora inquisendo? » Gli fece segno di accomodarsi alla sua tavola, come d’uso. L’ospitalità benedettina è sacra.

La cena fu più silenziosa del solito, e mesta. L’Abate mangiava di malavoglia, oppresso da foschi pensieri. Alla fine disse ai monaci di affrettarsi a compieta.

Alinardo e Jorge erano ancora assenti. I monaci si indicavano il posto vuoto del cieco, sussurrando. Alla fine del rito l’Abate invitò tutti a recitare una speciale preghiera per la salute di Jorge da Burgos. Non fu chiaro se parlava della salute corporale o della salute eterna. Tutti compresero che una nuova sciagura stava per sconvolgere quella comunità. Poi l’Abate ordinò a ciascuno di affrettarsi, con maggior solerzia del solito, ai propri giacigli. Ordinò che nessuno, e calcò sulla parola nessuno, restasse a circolare fuori del dormitorio. I novizi spauriti uscirono per primi, il cappuccio sul volto, il capo chino, senza scambiarsi i motti, i colpi di gomito, i piccoli sorrisi, i maliziosi e occulti sgambetti con cui erano soliti provocarsi (perché il novizio, benché monacello, è pur sempre un fanciullo, e a poco valgono i rimbrotti del suo maestro, che non può impedire che sovente essi da fanciulli si comportino, come vuole la loro tenera età).

Quando uscirono gli adulti mi accodai, senza averne l’aria, al gruppo che ormai si era caratterizzato ai miei occhi come quello degli « italiani ». Pacifico stava mormorando ad Aymaro: « Credi che davvero Abbone non sappia dove è Jorge? » E Aymaro rispondeva: « Potrebbe anche saperlo, e sapere che da dove è non tornerà mai più. Forse il vecchio ha voluto troppo, e Abbone non vuole più lui... »

Mentre io e Guglielmo fingevamo di ritirarci nell’albergo dei pellegrini, scorgemmo l’Abate che rientrava nell’Edificio per la porta del refettorio ancora aperta. Guglielmo consigliò di attendere un poco, poi quando la spianata fu vuota d’ogni presenza, mi invitò a seguirlo. Attraversammo rapidamente gli spazi vuoti ed entrammo in chiesa.

Dopo compieta.

Dove, quasi per caso, Guglielmo scopre il segreto per entrare nel finis Africae.
Ci appostammo, come due sicari, vicino all’ingresso, dietro a una colonna, da cui si poteva osservare la cappella dei teschi.

« Abbone è andato a chiudere l’Edificio, » disse Guglielmo. « Quando avrà sbarrato le porte dal di dentro non potrà che uscire dall’ossario. »

« E poi? »

« E poi vediamo cosa fa. »

Non potemmo sapere cosa facesse. Dopo un’ora non era ancora uscito. E’ andato nel finis Africae, dissi. Può darsi, rispose Guglielmo. Preparato a formulare molte ipotesi aggiunsi: forse è uscito di nuovo dal refettorio ed è andato a cercar Jorge. E Guglielmo: può darsi anche questo. Forse Jorge è già morto, immaginai ancora. Forse è nell’Edificio e sta ammazzando l’Abate. Forse sono entrambi da un’altra parte e qualcun altro li attende in un agguato. Cosa volevano gli « italiani »? e perché Bencio era tanto spaventato? Non era forse una maschera che aveva posto sul suo viso per ingannarci? Perché si era trattenuto nello scriptorium durante vespri, se non sapeva né come chiudere né come uscire? Voleva tentare la via del labirinto?

« Tutto può darsi, » disse Guglielmo. « Ma una cosa sola si dà, o si è data, o si sta dando. E infine la misericordia divina ci sta locupletando di una luminosa certezza. »

« Quale? » chiesi pieno di speranza.

« Che frate Guglielmo da Baskerville, il quale ha ormai l’impressione di aver compreso tutto, non sa come entrare nel finis Africae. Alle stalle, Adso, alle stalle. »

« E se ci trova l’Abate? »

« Fingeremo di essere due spettri. »

Non mi parve una soluzione praticabile, ma tacqui. Guglielmo stava diventando nervoso. Uscimmo dal portale settentrionale e passammo attraverso il cimitero, mentre il vento sibilava con forza e chiesi al Signore di non far incontrare due spettri a noi, ché di anime in pena, in quella notte, l’abbazia non aveva penuria. Arrivammo alle stalle e sentimmo i cavalli sempre più inquieti per la furia degli elementi. Il portone principale della costruzione aveva, ad altezza del petto di un uomo, un’ampia griglia di metallo, da cui si poteva vedere l’interno. Intravvedemmo nel buio le sagome dei cavalli, riconobbi Brunello perché era il primo a sinistra. Alla sua destra il terzo animale della fila alzò il capo sentendo la nostra presenza e nitrì. Sorrisi: « Tertius equi, » dissi.

1   ...   36   37   38   39   40   41   42   43   ...   88


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət